Un corpo a corpo sulla linea del colore

Dalla supposta scientificità delle differenze biologiche alla centralità delle differenze culturali

 

di Etienne Balibar

Per gentile concessione della casa editrice Diabasis dal testo in due volumi: «Differenza razziale. Discriminazione e razzismo nelle società multiculturali» (volume I, pp. 223, euro 18, volume II, pp. 203, euro 18).

Nel primo volume, curato da Thomas Casadei, compaiono, oltre a questo saggio di Etienne Balibar, scritti di: Stefano Petrucciani, Gaia Giuliani, Gianfrancesco Zanetti, Leonardo Marchettoni, Marco Goldoni, Costanza Margiotta, Baldassare Pastore, Giorgio Pino, Francesco Belvisi e Enrico Diciotti. Nel secondo volume, curato da Lucia Re, sono invece presentati alcuni case study e i differenti interventi legislativi negli Stati Uniti, Unione Europea e Brasile.

Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse «artificialmente» rinvigorito da strategie controproducenti e dagli «effetti perversi» di definizioni e interventi istituzionali quali l’affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi.
Non sono solamente i conservatori o i neoconservatori, come il sociologo statunitense Dinesh D’Souza, autore di un libro-manifesto sulla «fine del razzismo» pubblicato nel 1995, che credono di poter fare uso del concetto di «razza» o di «differenza razziale», affermando al contempo che le società moderne stanno superando i pregiudizi e le discriminazioni. Anche alcuni intellettuali di sinistra non esitano ad affermare che le differenze professionali, o le differenze di generazione o di sesso, tendono oggi ad assumere, all’interno della conflittualità sociale, il ruolo che ieri era proprio delle differenze razziali, in particolare nei paesi segnati dal colonialismo e dalla schiavitù. Essi si presentano come i difensori di un universalismo repubblicano che teme che la difesa delle minoranze e dei gruppi oppressi degeneri in rivendicazioni «comunitariste», oppure cercano di elaborare una politica di emancipazione «post-coloniale» e «postmoderna» che permetta di passare dal discorso della razza e del razzismo a quello delle identità multiple «nomadi» o «diasporiche», che sovvertono le tradizionali concezioni eurocentriche della comunità.
Ciononostante, man mano che dei conflitti a carattere etnico-religioso situati nel Nord come nel Sud generano genocidi e politiche di sterminio, come nella ex-Jugoslavia e in Africa orientale e centrale, o proiettano nel mondo intero i fantasmi della cospirazione e dello scontro di civiltà – come nel caso del conflitto israelo-palestinese – si diffonde l’idea che il razzismo in quanto tale è un fenomeno permanente, il cui ritorno periodico tradurrebbe l’incapacità delle società di «progredire» nella civiltà o la loro insuperabile dipendenza dalle strutture arcaiche della mentalità collettiva. Si può allora pensare che i dibattiti attuali attorno all’uso e alle applicazioni della categoria «razzismo» non soltanto comportano tensioni estreme, ma rischiano di generare confusione. Una confusione che non ha solo risvolti epistemologici, poiché il razzismo è, prima di tutto, un oggetto politico e gli aspetti della teoria e della lotta sono indissolubilmente legati.(…)
Per quanto marginali possano sembrare di fronte ai dibattiti attuali, queste considerazioni sono indispensabili per articolare tra loro tre tipologie di conseguenze di cui siamo gli eredi. Prima di tutto le conseguenze epistemologiche che riguardano la stessa organizzazione del sapere contemporaneo «sull’uomo»; quindi il sorgere di resistenze al paradigma dominante, che possiamo chiamare «umanista»; e, infine, la sua progressiva trasformazione in un paradigma diverso, quello del «razzismo senza razze» o «razzismo culturale» (razzismo «differenzialista»).
Le conseguenze epistemologiche non solamente sono sorprendenti per la loro influenza sull’organizzazione delle scienze umane, ma soprattutto per la problematica del razzismo, interpretato filosoficamente come proiezione ideologica o mitica delle differenze naturali interne alla specie umana a discapito della sua essenziale indivisibilità, che viene così a trovarsi al cuore dei presupposti dell’antropologia, e non a derivare solamente da applicazioni specifiche. Parlerei allora di una rivoluzione copernicana nella storia dell’antropologia, che la fa passare da uno sguardo «oggettivista» a uno sguardo «soggettivista» nell’uso del concetto di razza. L’antropologia, in effetti, si distacca dallo studio delle differenze tra le razze e della loro disuguaglianza, considerate come fenomeni oggettivi di cui occorre rintracciare le conseguenze nel campo della politica e della cultura, per passare allo studio del «razzismo», ovvero di quella credenza soggettiva in una disuguaglianza fra le razze, che proietta una griglia d’interpretazione «razziale» sull’insieme della storia o riduce l’insieme delle differenze umane a un modello immaginario di supposte differenze originarie ed ereditarie. (…)
Non dubito che questo cambiamento marchi un nuovo inizio nella storia della disciplina antropologica. Ma occorre domandarsi se non ci sia un elemento di continuità soggiacente al ribaltamento dell’oggettivismo in soggettivismo, benché le conseguenze pratiche siano opposte. L’antropologia è sempre un progetto di conoscenza e di riconoscimento di sé da parte dell’umanità o d’identificazione dell’umano nell’uomo. Essa cerca di rispondere al problema dell’identità e delle differenze interne al «mondo umano» come mondo storico, geografico, culturale. Chi siamo e dove siamo gli uni in rapporto agli altri? A questa domanda, dal diciottesimo secolo e fino alla metà del ventesimo, in un mondo dominato da una filosofia della storia euro-centrica, hanno preteso di fornire una risposta la storia naturale, la biologia e la psicologia delle razze. Dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni presagi della rivoluzione copernicana nella critica del determinismo biologico da parte del culturalismo – sarebbe utile qui concentrarsi particolarmente sugli Stati Uniti d’America, sulle opere simmetriche di W.E.B. Du Bois e di Franz Boas – la prospettiva diviene bruscamente quella dello studio del «razzismo» e della sua teorizzazione. L’umanità in quanto tale non è più quindi una specie il cui sviluppo è guidato dalle differenze di razza, ma una specie composta di individui e di gruppi capaci di sviluppare il razzismo, forse addirittura inevitabilmente condotti a costruire dei miti razzisti – e più generalmente delle illusioni «xenofobe », «eterofobe» – sotto l’effetto di una sorta di illusione trascendentale, o come conseguenza della propria organizzazione in culture, società e comunità separate da rapporti di dominazione oggettivi. È quello che potremmo chiamare «teorema di Sartre», pensando al modo in cui, nello stesso periodo, nelle sue Réflexions sur la question juive (1946), questi sosteneva che «l’Ebreo non esiste», ma che «è l’antisemitismo che fa l’Ebreo».
Tuttavia, in entrambi i casi si suppone che la «scienza» o la «conoscenza scientifica» ci diano la risposta definitiva. Formulare quest’osservazione, sia ben chiaro, significa non squalificare l’idea e la possibilità di una conoscenza scientifica, ma suggerire come la critica epistemologica applicata alle «teorie razziali» potrebbe rivolgersi anche contro i propri eredi, ossia contro le teorie del «razzismo storico». Significa soprattutto mettere in discussione il «doppio empirico-trascendentale» che qui riguarda non l’individuo, ma il «genere umano», partendo da un principio morale e filosofico dell’unità dell’umanità e assegnando alle discipline antropologiche il compito di spiegare il sorgere dei pregiudizi razziali, ovvero dei soggetti o delle soggettività «razziste». È chiaro che questa funzione è segnata da un’ambiguità alla quale è forse impossibile sfuggire.

Gli stati razziali
Conformemente a quello che era il programma iniziale delle istituzioni internazionali, tale ambiguità s’iscrive in una prospettiva di progressiva abolizione del razzismo da parte della scienza e della volgarizzazione scientifica, della pedagogia e della legislazione, che riproduce l’ideale, derivato dall’Illuminismo, di autoeducazione dell’umanità. D’altra parte tuttavia, all’interno di società che potrebbero essere caratterizzate come «Stati razziali» – nel senso dato al termine da David Goldberg – essa s’iscrive in un programma di regolazione delle race relations, e dunque dei conflitti e delle rappresentazioni razziste. In questo senso tutti gli Stati contemporanei – anche se il razzismo non è istituzionalizzato come fondamento ideologico della cittadinanza – sono degli «Stati razziali», poiché comportano delle disuguaglianze e dei conflitti sociali rappresentabili in termini di differenza razziale o di suoi equivalenti – la differenza etnica, la condizione migratoria -, e, al contempo, sono impegnati in una lotta politica e giuridica di riaffermazione dell’uguaglianza, perlomeno formale. Si consacrano così al compito di «combattere il razzismo», di «estirparlo » dallo spazio pubblico e dalle istituzioni della comunità politica. Tutto ciò ha importanti conseguenze pratiche; basti pensare allo sviluppo di una giurisprudenza dedicata alle forme di discriminazione razziale e alle modalità del razzismo. Si potrebbe sostenere che questo è l’altro versante – quello istituzionale della rivoluzione epistemologica prima illustrata.
Per questo è importante, in conclusione, tentare di identificare questa rivoluzione epistemologica, che fa dello studio del «razzismo» in quanto fenomeno ideologico, il cuore della disciplina antropologica e allo stesso tempo assume che esso, nelle sue cause, nelle sue varianti e nelle sue trasformazioni storiche, deriva da una spiegazione antropologica – da modelli universali di strutture sociali e simboliche – dalle resistenze che suscita e dalle eccezioni che comporta. Queste sono tanto antiche quanto il modello antropologico stesso, di cui mettono in dubbio la validità e la legittimità istituzionale conferitagli dagli organismi culturali e politici19. Esse propongono dei modelli alternativi per la comprensione dei comportamenti e delle rappresentazioni razziste e si interrogano sulla validità stessa della categoria di «razzismo» come categoria universalizzante. (…)

I limiti del paradigma
Non si trattava certamente, in questa sede, di svolgere una presentazione completa del paradigma antropologico, dei problemi che esso pone o delle trasformazioni che subisce nel momento in cui la definizione del «razzismo» si trova di fronte a nuove situazioni storiche. Si trattava solamente di indicarne la necessità. Il problema che si pone è quello di sapere se la stessa categoria di razzismo non è oggi giunta a un punto di decomposizione e di decostruzione. I problemi epistemologici che si pongono sono due e occorre porli simultaneamente. Da un lato, all’interno dello stesso paradigma antropologico, la comprensione del razzismo evolve in direzione di un concetto di «razzismo culturale» o di «razzismo differenziale». In un certo senso, questo rappresenta la logica conclusione della frattura che aveva condotto ad abbandonare la visione naturalista in favore di quella storica e di analisi delle rappresentazioni collettive caratteristiche del paradigma antropologico. Tuttavia diventa improvvisamente problematico assegnare dei limiti alla categoria, limiti dai quali pure dipende il suo uso scientifico, il suo valore analitico: ogni fenomeno di discriminazione, ogni violenza simbolica sembrano esservi compresi. La reversibilità stessa del razzismo e del sessismo sembra perdersi nella loro equiparazione. D’altra parte nuovi «casi», nuovi «esempi» sembrano sostituirsi, almeno in parte, al sistema ternario che sottendeva la definizione iniziale: antisemitismo, colonialismo, apartheid.

Le regole dell’esclusione
Allo stesso tempo la problematica delle discriminazioni istituzionali legate alla destabilizzazione delle comunità politiche – a partire dalle nazioni – si fa sempre più insistente nelle società post-coloniali e negli insiemi transnazionali o post-nazionali, lasciando in secondo piano il criterio della divisione «naturale» della specie umana, o delle credenze, dei miti che l’invocano. Altri criteri di definizione delle strutture, dei discorsi e dei comportamenti razzisti, quali il criterio di esclusione – o meglio dell’esclusione interiore – emergono in primo piano. Questi non hanno, almeno in apparenza, bisogno di riferirsi alle «razze». Occorrerebbe quindi esaminarne la costituzione e il funzionamento nelle ricerche contemporanee, ampliando l’analisi qui cominciata.