Adulti e funzioni educative diffuse in adolescenza: lo sport

Adulti e funzioni educative diffuse in adolescenza: lo sport

 

di Fabio Vanni

 

 Parma, 16 dicembre 2006

 

Vorrei dirvi quali sono le ragioni che ci hanno portato, un paio d’anni fa, a mettere in piedi il progetto ‘Giocare a crescere’ che trova qui oggi un primo punto d’arrivo ed un’occasione di riflessione pubblica.

 

Vi parlerò di quattro cose:
–      com’è l’adolescente di oggi
–      come funziona il sistema educativo nel quale è inserito
–      cosa è opportuno, secondo noi, che un servizio come lo ‘Spazio Giovani’ faccia a favore dei ragazzi e delle ragazze di Parma, ed infine
–      cosa vorremmo che faceste voi, che siete nel mondo dello sport, per gli adolescenti

 

Dire chi sono gli adolescenti oggi non è facile anche per chi li studia e ci lavora quotidianamente.
L’adolescenza è quel periodo che la persona attraversa per lasciare la condizione di bambino e giungere a quella di adulto.
E’ un’epoca certamente costellata da incontri:
–      incontri con i cambiamenti del corpo che cresce e che s’irrobustisce
–      incontri con le emozioni, le rappresentazioni e le spinte di natura sessuale che indirizzano verso il corpo di un altro, così complementare al proprio, così generatore di piacere ed anche di legami
–      incontri con la maggiore capacità di comprendere sé stessi ed il mondo, di sapere e quindi di capire
–      incontri con chi si aspetta che tu non sia più un cucciolo d’uomo e ti fa intravedere un futuro ancora diverso dal presente

 

L’adolescenza è tutto questo e altro ancora. E’ la misura del corpo, la sua finitezza, la fine della sua crescita e l’inizio della fine della vita stessa; è trovarsi da soli a fare i conti con il proprio futuro e, per la prima volta, con il proprio passato.
E’ la prima volta di tante cose, soprattutto è l’avvicinarsi alla fine del precampionato per iniziare una presunta stagione regolare.
Compito evolutivo dell’adolescente è digerire tutto questo, e per farlo ci vuole tempo, e anche dell’altro, oltre al tempo.
Ci vuole un contesto di relazioni.

 

Il rapporto fra le generazioni non è mai stato particolarmente semplice.
Se andiamo indietro di qualche decennio era, da queste parti del mondo, maggiormente caratterizzato dal conflitto aperto e talvolta rigido, dalla difficoltà o dalla noia di comprendersi, dalla difesa o dalla conquista, a seconda dei ruoli reciproci, di posizioni differenziate fra genitori e figli.

 

La famiglia aveva caratteristiche diverse al suo interno, con una differenziazione più netta dei ruoli fra marito e moglie e fra figli maschi e femmine, e diversa era anche la distribuzione dei ruoli sociali, con il padre che intratteneva i rapporti con l’esterno e la madre che curava l’interno (la casa, i figli, etc).
Anche lo sport giovanile era diverso. Si cominciava a fare qualche sport (fra i tre o quattro possibili) non prima delle scuole medie, e questo per i maschi, le femmine facevano, al più, danza classica e poi magari pallavolo, ma senza esagerare con i muscoli.
Far fare sport era una cosa da famiglia borghese evoluta che pensava alla salute delle giovani generazioni, perché questo era lo scopo.
L’universo simbolico nel quale si collocava lo sport giovanile, per gli adulti, era quello igienico.
‘Ti mando lì, diceva il papà, così fai un po’ di movimento che ti fa bene’.
L’immaginario dei ragazzi però non era affatto igienico, bensì orientato al mito del campione, Rivera o Meneghin che fosse.
A ben vedere entrambe le generazioni guardavano al futuro, l’una più preoccupata dell’efficienza fisica necessaria a vivere (era la generazione che aveva fatto la guerra), l’altra più orientata ai nuovi valori, emergenti, del successo, della gloria, dell’immagine.
Il successo sportivo appariva, per gli adulti, lontano e irraggiungibile; si sapeva che l’entusiasmo sarebbe scemato nel tempo.
Lo sport era un gioco da adolescenti, un gioco un po’ più serio dei soldatini o delle bambole, che serviva a prendere contatto con la realtà della vita.
Per i ragazzi però non era così, e non è così neanche adesso. La dimensione mitica era ed è fortemente attraente, e d’altra parte questo è comprensibile, perché il campione, l’idolo, esprime l’ideale di sé proiettata nel futuro. E’ ciò che vorrei diventare: è uno che gioca, come faccio io, tenendo un piede nell’infanzia ma è uno che ha successo come un grande fra i grandi: la quadratura del cerchio per chi, come l’adolescente, ha proprio questo guado fra bambino e adulto da attraversare.

 

In questo scenario il timone educativo era però, qualche decennio orsono, abbastanza saldamente in mano alla famiglia, che accettava di attribuire funzioni specifiche e ben definite a qualche estraneo, su questioni mirate e non gestibili in proprio, e mai sul ‘core business’: gli affetti ed i valori.
‘Ti dò il mio ragazzo un paio d’ore a settimana perché faccia un po’ di muscoli’, questa era la consegna all’allenatore, non certo quella di educarlo.
Non molto diversa era la richiesta nei confronti dei servizi sanitari a ben vedere.
‘Se ha qualcosa di rotto rimettimelo a posto e restituiscimelo guarito’
Guarito: parola oramai in disuso, sostituita anche qui da altre più graduali, morbide, aperte.
Anche nel sistema sanitario la cultura è cambiata. Il paziente non è più così affidato, diciamo che è maggiormente condiviso.
Se non porta le posate da casa mi sa che in ospedale non mangia, per esempio.

 

Ma è molto cambiata anche, e questo mi sembra importante, la titolarità educativa, sia per quanto riguarda la sua distribuzione fra i soggetti che la posizione reciproca fra educando ed educatore.

 

Rispetto alla preminenza familiare del passato infatti oggi i soggetti educanti, o potremmo dire influenti, rispetto alla crescita dei ragazzi sono diventati numerosi e, ciascuno, con peso specifico limitato, a cominciare appunto dalla famiglia stessa, entità che oggi si fa fatica a definire nei suoi confini, ruoli, valori e che comunque molto spesso richiede una descrizione più estesa perché possa essere compresa nella sua reale configurazione affettiva e dunque nei suoi ruoli educativi.
Molti soggetti, dicevamo, che guardano all’adolescente con obiettivi diversi.
La scuola, la famiglia, ma anche ‘il mercato’, gli amici, etc, sono portatori di funzioni orientate di volta in volta da valori conoscitivi, affettivi, economici, etc che se un tempo potevano essere tenuti a distanza da un cordone sanitario che proteggeva il ragazzo e la ragazza e che era in mano ai genitori, oggi ben difficilmente possono essere trattati nello stesso modo.
Il mondo s’infila infatti da tutte le parti e non basta spegnere il cellulare per tenerlo fuori, perché c’è sempre la TV, internet, l’Ipod, e presto qualche cosa ancora.
L’adolescente quindi è molto più esposto in prima persona, molto più nella necessità/opportunità di costruirsi una decodifica del mondo ed un percorso di esplorazione di esso che non trova riferimenti predefiniti, ma che incontra interlocutori molteplici e d’incerta reputazione.
La possibilità di influenza del mondo sull’adolescente e dell’adolescente sul mondo (basta pensare alla pubblicità) è quindi molto aumentata, non solo perché i mezzi di comunicazione dei quali egli è maestro, e preda, lo raggiungono in ogni dove, ma anche perché egli ha costantemente bisogno di punti di repere, di indizi, nella sua navigazione giacchè nessuno è in grado di dargliene di certi.
Non c’è più un padre simbolico che indica la via seguendo la quale arriverà certamente il successo o la salvezza.
Lo dico, sia chiaro, senza alcuna nostalgia di questo padre.
E’ mutata infatti la distanza generazionale, anche perchè la capacità degli adulti di interpretare, prevedere e determinare il futuro (o avere la sensazione di farlo) è molto più incerta, e molto minore quindi la loro autorevolezza come guide.
Non è affatto detto che chi sa essere più convincente su come sarà il domani sia tuo padre, magari invece è Bill Gates, o Luciano Moggi.
La dimensione intergenerazionale è quindi oggi, lo voglio sottolineare, sempre meno verticale e sempre più orizzontale, paritaria, o almeno obliqua, e sempre più significative sono le relazioni con i pari.
La decodifica, l’etica, la conferma o la smentita nella relazione fra l’adolescente ed il mondo passa fortemente attraverso la relazione con i coetanei.
Loro sono nella stessa barca e condividono la navigazione a vista nella vita, sono quindi ottimi compagni di viaggio, non ne sanno molto, ma almeno……….. ci si può intendere.
Se quindi, ricapitolando, l’adolescente è più direttamente in rapporto con il mondo, se i genitori ed i parenti sono solo una delle agenzie alle quali può rivolgersi per navigare verso il futuro, anche se importante, se molti sono i soggetti con i quali egli interagisce, si pone il problema di definire la qualità educativa degli altri soggetti.
E’ evidente, a mio parere, che alcuni di essi hanno finalità economiche e guardano quindi ai nostri ragazzi in buona sostanza come potenziali clienti, ma anche pensando ad altri interlocutori con i quali il giovane s’incontra non sempre possiamo dare per condivisibili le loro prospettive etiche.

 

Non è più sostanzialmente praticabile, ammesso che sia auspicabile, una cultura educativa protezionistica, che tiene i ragazzi e le ragazze molto a lungo sotto la campana di vetro familiare; la campana si è rotta ed i pezzi di cristallo sono in possesso di diversi soggetti che hanno influenza sui nostri figli.
Dobbiamo decidere che fare di queste schegge che ci troviamo in mano.
Intanto penso che dobbiamo essere consapevoli di averle.
Se infatti i ragazzi di oggi hanno le caratteristiche che abbiamo sommariamente descritto, essi mostrano altresì di avere alcune ricchezze nuove:
una nuova confidenza con la relazione; questo non significa che ne siano esperti e che la maneggino con facilità, significa solamente che navigano nella rete delle relazioni in modo più ampio e libero di quanto accadesse alla nostra generazione, sono inzuppati di affetti e rispondono agli affetti.
Sono, per esempio, molto più capaci di accedere a relazioni di aiuto di natura formale e non, soprattutto le femmine, e ad utilizzare la rete informale e amicale.
Sono quindi molto alfabetizzati all’interiorità e, soprattutto, molto più interessati e sensibili alla loro rappresentazione di sé.
E qui andiamo a toccare un punto davvero importante.
Curare sé significa non solo addobbarsi, manipolarsi e manomettersi nella propria corporeità più intima e nella propria esteriorità più ricercata, ma anche dare agli eventi ed agli incontri della vita un valore proprio in relazione a questa dimensione.
Al nutrimento ed alla frustrazione che la propria persona acquista in quella situazione ed in quella circostanza.
L’unicità, l’essere ‘speciale’ per qualcuno d’importante, l’originalità irripetibile, sono desideri fondamentali che si coniugano con la sintonia affettiva ed etica continuamente ricercata con il gruppo al di là di ogni apparente paradosso.

 

L’adolescente di oggi è dunque, riassumendo, molto più esposto in prima persona e molto più sensibile ai risvolti soggettivi del suo muoversi nel mondo rispetto a quanto lo fossero i suoi genitori alla sua età.

 

Se caliamo queste considerazioni nella realtà sportiva ne possiamo comprendere meglio alcune dinamiche caratteristiche. Quale situazione si presta meglio dello sport infatti a rappresentare il proprio valore? Da un lato la mitizzazione del campione è il rispecchiamento del proprio sé grandioso, ma dall’altro il confronto con il risultato è un’opportunità di dimensionamento di sé, del suo rimaneggiamento a confronto con i fatti: le sconfitte e le vittorie, ma anche l’accorgersi di saper fare o no un esercizio, ed inoltre il confronto con gli altri attorno a te per come si situano nelle stesse circostanze che accadono anche a loro, etc
Troppo spesso la non comprensione del valore profondo, tutt’altro che ludico, ma invece autorealizzatorio, del rapporto con questo aspetto dello sport, può portare all’abbandono; se non si riesce ad integrare in un’immagine accettabile di sé l’esito non esaltante accanto a quello più gratificante.

 

D’altra parte si vedono spesso adulti che mettono in gioco le loro parti idealizzate attorno o anche dentro ai campi da gioco, a cavalcare quindi questo corno del dilemma adolescenziale: la spinta al mantenimento di una grandiosità di sé, senza essere capaci di temperarla con l’altra: il dimensionamento realistico di un fatto sportivo, di un evento agonistico, di un esito prestazionale.
D’altronde lo sport è la ritualizzazione e la socializzazione di questo conflitto adolescenziale, e può quindi essere un’ottima opportunità di crescita se non esaspera un aspetto calpestando l’altro.

 

Se mettiamo la sensibilità affettiva per sé come elemento centrale dello sviluppo adolescenziale di oggi inoltre possiamo comprendere come qualsiasi apprendimento passi attraverso il peso che esso ha sulla valorizzazione di sé, sul proprio riconoscimento, sulla propria amabilità: capisco se ciò mi arricchisce di valore, potremmo dire, altrimenti semplicemente non sono coinvolto nella cosa, come gl’insegnanti oramai dovrebbero saper bene.

 

Se proviamo quindi a domandarci, avviandoci a concludere queste note, in che posizione l’allenatore potrebbe opportunamente stare per svolgere meglio la sua parte nella costellazione di adulti con funzioni educative io credo che si debba fare riferimento ad un ginnasta.
Un ginnasta che è capace per un verso di identificarsi con le dimensioni autorealizzatorie, mitiche, espansive del suo gruppo di ragazzi, ma che dall’altro sia anche in grado di transitare ad una rappresentazione dei fatti accaduti quel giorno in palestra o sul campo da gioco che tenga conto meglio dei dati di realtà, che la reinterpreti in modo creativo e convincente, un allenatore, ma anche un dirigente, un arbitro, che sia dentro alle cose ma che sappia gettare su di loro uno sguardo che non le assolutizzi, ma che anzi le rilegga, le pesi e le relativizzi.
Un adulto è uno che è assai più avanti di un adolescente nell’integrare l’idealità di sè ed il senso di realtà.

 

Si può fare? Vi chiederete.
Si può andare decisamente in questa direzione ed è quello che abbiamo provato a trasmettervi con il nostro progetto.
Lo ‘Spazio Giovani’ dell’Ausl è un attore sociale sufficientemente consapevole dell’importanza del vostro ruolo e del vostro mondo e dei ruoli e dei mondi che noi tutti qui rappresentiamo.
Promuovere una buona crescita degli adolescenti necessita di un’alleanza educativa nella quale siamo disponibili a fare la nostra parte ed auspichiamo questo anche per voi.

 

Ho voluto trasmettervi alcune idee che ci hanno ispirato nel progetto che i colleghi che l’hanno concretamente attuato andranno ad esporre adesso, idee che, concludendo, vi riassumo:
–      Educare gli adolescenti non è più compito dei soli genitori, non è sufficiente ciò che la scuola sa e può fare, è compito di una generazione di adulti responsabili.
–      Educare non è fondato sulla trasmissione d’informazioni, ma sullo stare pienamente dentro alle cose ed alle situazioni, come quelle sportive, che i ragazzi praticano e vivono, con la capacità però di alzare lo sguardo dell’esperienza  e del pensiero e di tradurli in comportamenti più che in parole.
–      Per svolgere questa funzione bisogna innanzitutto essere d’accordo ma bisogna anche imparare come muoversi, conoscere la psicologia dei ragazzi che abbiamo con noi, saper articolare le nostre competenze tecnico-sportive con quelle soggettive e di relazione.
Noi ci siamo e ci sembra anche voi.

 

con due allegati:

 

1. Report del progetto e riflessioni – slides, a cura di Veronica Vescovi e Antonella Mussi, con la collaborazione di Jody Libanti

 

2. Illustrazione delle slides, sempre a cura di Veronica Vescovi e Antonella mussi, con la collaborazione di Jody Libanti