Bambini e ragazzi con problemi di apprendimento: dalla diagnosi alla riabilitazione

di Leonardo Angelini

 

1. La selezione

Selezionare significa scegliere, discriminare. L’attività di selezione, ovunque essa venga esercitata – e specialmente in culture competitive come la nostra – viene vista come una attività sgradevole e, a tratti, odiosa. Ciò nondimeno, essa è un aspetto importante della nostra quotidianità che merita tutta la nostra attenzione. I bambini, fino ai sei anni – età del loro ingresso in scuola elementare – almeno in apparenza non sono sottoposti ad alcun filtro selettivo. In effetti sappiamo che un confronto, e quindi un’implicita selezione, viene fatta sia a casa, da parte dei genitori, sia in asilo nido e scuola per l’infanzia, da parte delle educatrici. E la trasformazione di queste due istituzioni da asili, e cioè da luoghi di assistenza, in scuola, è cioè luoghi in cui programmaticamente vengono svolte funzioni educative e formative, così come spinge nella direzione della singolarità delle performance del bambino, allo stesso modo induce la nascita di uno sguardo adulto individualizzante e selettivo.

Certo è, che con l’arrivo in scuola elementare, ciò che era implicito diventa esplicito, ciò che era racchiuso ansiosamente nella mente dei genitori e degli educatori della prima e della seconda infanzia, ciò che magari traspariva solo dalla preoccupazione dello sguardo, diventa esplicitamente un compito della scuola e della famiglia.

La scuola elementare diventa così il primo luogo ufficiale in cui il soggetto in età evolutiva si viene a trovare in una situazione di selezione e confronto con gli altri pari. Per cui è importante che noi che lavoriamo con i ragazzi a rischio e che c’interessiamo oggi dei criteri di selezione in base ai quali predisporre questa o quella attività riabilitativa, riparativa, partiamo cercando di comprendere in che quadro generale si iscrivono le funzioni di selezione della scuola. Secondo Mottana, sono quattro le funzioni che permettono al formatore di definire il setting formativo e di mantenerlo come tale nel tempo e nello spazio sia per sé, sia per la propria udienza, cioè per la propria classe: 1) la funzione istituente; 2) la funzione in-ludente; 3) quella individualizzante; 4) infine, quella di separazione.

A partire da questa scansione del setting formativo, in altra sede (Angelini, 1998) ho tentato di fare alcune considerazioni che possono tornarci utili oggi, nel momento in cui cominciamo ad affrontare gli effetti che la terza funzione, quella individualizzante – e perciò selettiva – esercita in generale sui soggetti in età evolutiva ed, in particolare, sui ragazzi a rischio.

1) La prima funzione, quella istituente, va vista essenzialmente come istituzione di luoghi, tempi e campi del fare operativo scolastico. Cosicché, prima ancora che il docente sia entrato materialmente nella classe, il docente stesso, e con lui l’amministrazione scolastica, devono compiere una serie di silenti, ma importanti operazioni: a) quella dell’istituzione di un determinato luogo (la classe) in cui la scena formativa abbia diritto di svolgersi con tutte le garanzie d’intimità e di non ingerenza da parte di estranei sulla scena stessa; b) quella della istituzione di un tempo, più o meno rigidamente determinato (l’orario delle lezioni), in cui docenti e discenti possano, anzi debbano, lasciarsi prendere dai contenuti delle materie, possano, anzi debbano, mettere in atto delle modalità di scambio sublimate e desessualizzate; c) quella infine dell’istituzione di un determinato campo fatto di contenuti e di metodi, di pedagogia e di didattica, di materie e di procedure sublimate e desessualizzate, appunto, che permettano nel loro insieme di circoscrivere quel luogo, quel tempo, quel campo come luogo, tempo e campo in cui non solo per il docente e per ciascuno dei discenti, ma anche per l’amministrazione scolastica, per le famiglie, per la società intera possa aver luogo il rapporto educativo e trasformativo.

Per cui, in base a quanto abbiamo appena detto, quella che abbiamo appena riassunto non è solo un’operazione burocratica e pedagogica, ma anche un’importante operazione mentale che avviene nel mondo interno del docente e gli permette di svolgere le proprie mansioni al riparo sia dalle tentazioni che altrimenti potrebbero nascere dentro di lui sia dai fraintendimenti che potrebbero nascere in coloro che sono fuori dal diretto contatto con i discenti.

2) La seconda funzione-quadro è costituita dalla definizione di una membrana gruppale in-ludente. Una volta istituiti i luoghi e i tempi della formazione, e allorché sia stata definita la natura sublimata e desessualizzata dei contenuti che è possibile scambiare sul mercato formativo, il docente si trova di fronte ad un secondo ostacolo: quello derivante dal fatto che la classe non sempre è disposta a lasciarsi affabulare, a lasciarsi prendere dall’argomento sublimato e desessualizzato che è all’ordine del giorno della lezione.

Docente e discenti, cioè, non solo devono convenire, all’inizio di ogni singola lezione, sul fatto che quel luogo e quel tempo siano effettivamente per la formazione; essi devono anche condividere la stessa passione sublimata e desessualizzata per la materia, cioè per quell’insieme di argomenti cui i programmi ministeriali solo vagamente alludono. E ancora una volta è il docente che deve supportare tutto lo sforzo che la situazione richiede.

Infatti non è detto che la classe, senza una pre-occupazione da parte del docente di avvincerla al tema, alla materia, si lasci in ogni caso affabulare. Anzi, probabilmente, sua sponte la classe sarebbe più disposta a dis-trarsi per rivolgersi ad altri setting, ad altri giochi, meno sublimati e più spontanei. Per conquistare la classe, per in-luderla in quel gioco sublimato e desessualizzato che noi chiamiamo lezione, il docente dovrà esplicare una funzione in-ludente e affabulante che ottenga, possibilmente da tutti i discenti presenti, l’equivalente sul piano scolastico di quell’ascolto a bocca aperta che è il primo obiettivo che si propone di raggiungere il buon raccontatore di fiabe (Angelini, 1989).

3) Ed ecco che a questo punto scatta una terza funzione, la funzione individualizzante, e cioè di selezione, che è quella che in questo momento più ci interessa. Afferma Mottana: al docente non basta riuscire ad avvincere il proprio uditorio, e cioè la propria classe per trasportarla nell’atmosfera fatata della lezione. Egli, una volta che abbia espletato questa funzione, se non vuole limitarsi ad un confusivo embrassons nous, non può non cominciare a nutrire ora nei confronti della sua classe un secondo tipo di preoccupazione, che Mottana definisce di tipo materno, quella che gli psicoanalisti francesi chiamano funzione di rêverie (Laplanche e Pontalis).

In un primo tempo il docente, come una madre sufficientemente buona, ha cercato di dare senso e spessore in maniera indistinta alla propria classe immettendola sul piano dell’operatività, grazie al proprio desiderio materno in-ludente, e invogliandola ad accogliere il sapere che da lui proviene, quasi fosse un cibo buono da introiettare. Ora però il docente, in base alla maniera specifica con cui ciascun discente ha introiettato il sapere che da lui proveniva, lo ha fatto proprio, lo ha coniugato con tutto ciò che nel proprio mondo interno preesisteva a quel sapere, non può non cominciare ad attribuire a ciascun discente un senso, un profilo, uno spessore che è specifico, appunto, individuale, personale. Questa attività, secondo Mottana, è l’erede della funzione materna di rêverie, in base alla quale la madre, attraverso la propria attività interpretante dei segnali che derivano dal bambino, comincia ad individuarlo, a delinearlo in maniera univoca e specifica.

Sulla scena scolastica ogni gesto, ogni parola, ogni segno che va nella direzione dell’individuazione riprende e aggiorna le funzioni materne secondarie di individuazione, le propone coram populo, cioè di fronte a tutta la classe attraverso l’esercizio della selezione, del voto, della pagella ecc.

E, così come nelle vecchie famiglie in cui c’erano molti figli i genitori non potevano distribuire in maniera uguale il proprio amore fra essi e non potevano esimersi dall’individuarli nelle loro particolarità esaltando i loro pregi e cercando di correggere i loro difetti, allo stesso modo in classe, dopo che un certo percorso in una situazione di illusione sia stato effettuato, in un secondo tempo il docente non può esimersi dal valutare, dall’individuare i singoli discenti scoprendo le loro vocazioni e cercando di spingerli a interessarsi anche di quei terreni ai quali i singoli non dovessero sentirsi vocati.

4) Infine, la quarta funzione, quella di separazione: che ci ricorda che, come accade in ogni storia che si rispetti, anche quelle che si raccontano sulla scena scolastica finiscono; anche gli amori e gli odi, l’insieme di tutte le passioni sublimate che sul palcoscenico della classe sono giocate dai protagonisti in essa recitanti passano, e, una volta che sono passate, si stemperano nel ricordo. Così avviene per il discente, così per il docente, così per ciò che accadde tanto tempo fa all’inizio del ciclo, all’inizio dell’anno scolastico o del quadrimestre, così per le cose che sono accadute oggi nella lezione che è appena terminata.

Ogni volta il docente e i discenti devono rimettere in cartella i propri ferri del mestiere, e, nel fare ciò, devono cercare di non soffrire troppo a causa dei necessari ridimensionamenti che hanno senz’altro accompagnato le operazioni appena concluse sul piano dei processi d’individuazione e di selezione; devono sapere sortire dalla membrana gruppale che fino ad un momento prima, se le cose erano andate sufficientemente bene, avvolgeva tutti e recuperare, senza molti danni, la propria membrana personale; devono ritornare a casa e non sentire più sulle proprie spalle il peso dell’istituzione che obbliga tutti i suoi attori alla formazione, alla in-formazione, alla trans-formazione e, in certi casi neanche tanto peregrini, alla con – formazione e alla de-formazione. E, soprattutto, ripetere queste operazioni di abbandono e di separazione in continuazione: per i docenti, sempre di fronte a nuovi discenti con i quali costruire nuove storie, nuove avventure di scoperta e di ricerca; per i discenti, lungo il proprio processo di crescita personale, sempre di fronte a nuovi argomenti, a nuovi docenti, a nuove entità che li arricchiscano e li facciano crescere umanamente e professionalmente.

Riassumendo: queste funzioni si rinnovano a livello di ogni ciclo, di ogni anno scolastico, di ogni quadrimestre, di ogni tranche programmatoria, di ogni “lezione”. Nell’espletamento di queste funzioni, la scuola si pone come contenitore nei confronti dei discenti (di ogni ordine e grado). In questo contenitore le funzioni genitoriali però non sono esercitate in una atmosfera in cui come a casa prevale l’affettività, ma sono mediate dal fare pedagogico (Angelini, 1998).

Uno degli impedimenti che spesso rendono difficoltoso il fluire di queste azioni formative sta nel fatto che la scuola non è in grado da sola di individuare in modo adeguato, di selezionare – cioè – con sufficiente approssimazione coloro che sono affetti da problemi rilevanti da un punto di vista degli apprendimenti. In questi casi, spesso è necessaria una convergenza di più professionalità e di più istituzioni, tanto nel lavoro di selezione iniziale, quanto nei momenti delle verifiche in itinere e dell’orientamento finale.

Nel nostro ordinamento scolastico, sono tre le istanze istituzionali preposte alla selezione, nonché alle verifiche in itinere e finali dei problemi dell’apprendimento: 1. la scuola, 2. la sanità pubblica e 3. la famiglia. Istituzioni che, per svolgere questo lavoro, si avvalgono di una pluralità di professioni e competenze.

Per cui, nei casi di problemi di apprendimento, bisogna tenere presente la rilevanza di due versanti: 1. quello interprofessionale e 2. quello interistituzionale.

Selezionare, infine, significa discriminare, e cioè fare delle diagnosi il più possibile mirate, al fine di riparare, cioè stendere dei piani riabilitativi ad hoc e dinamici, cioè individualizzati e scanditi nel tempo. Per cui occorre distinguere sempre due momenti, uno selettivo ed uno riparativo: a. la selezione, al fine di un inserimento in un luogo dinamicamente adatto al tal bambino, con il tal problema; b. l’intervento riabilitativo mirato, cioè adatto alle particolari carenze, esigenze riparatorie che quel caso, e solo quel caso, richiede.

Questi due interventi sono fra loro collegati e richiedono molta professionalità e acume. Solo valutando la ricchezza e l’innervazione nel tessuto istituzionale di una pluralità di luoghi che siano non tanto in concorrenza fra di loro quanto piuttosto in una posizione di complementarità, possiamo comprendere se un dato territorio è in grado, o meno, di prendersi cura dei bambini e dei ragazzi con difficoltà di apprendimento.

Al contrario, un territorio che non sia riccamente innervato di proposte discriminate in base ai bisogni particolari dei soggetti in età evolutiva non sarà in grado, anche in presenza di un buon apparato diagnostico, di svolgere alcuna cura efficace. Così come un territorio, pur ricco di proposte discriminate, che però rinunci alla complementarità non sarà in grado di sfruttare per il meglio le risorse disponibili.

 

 2. Selezione dei bambini e dei ragazzi con problemi di apprendimento fra formazione, riabilitazione e assistenza

Per ogni caso di bambino e di ragazzo con problemi di apprendimento l’insieme dei servizi territoriali deve contemperare tre dimensioni : 1. la formazione, 2. la (ri)abilitazione, 3. l’assistenza.

Di modo che si può affermare che – come i lati di un triangolo possono essere più o meno lunghi senza mai perdere, nella loro composizione, la caratteristica di definire insieme un triangolo – allo stesso modo le tre dimensioni cui abbiamo appena accennato corrispondono ad un’unica esigenza restaurativa che va coniugata secondo un mix che varia, in base alle necessità particolari di questo o di quel ragazzo, alla sua età, ai suoi problemi specifici, alla famiglia o alla istituzione in cui vive, alle possibilità offerte, o meno, dal contesto di studio ecc.

Qualora il momento della selezione risulti slegato dai momenti di restaurazione – e cioè di formazione, di (ri)abilitazione e di assistenza – l’invio in queste sedi, che poi è il fine dell’attività selettiva, può risultare più o meno danneggiato.

Da una parte, bisogna infatti tenere ben presente che il momento selettivo e quello diagnostico nel territorio non hanno senso in se stessi, anzi risultano fonte di ulteriori angosce per le famiglie e per i pazienti qualora siano disgiunti dalle sedi preposte alla restaurazione del Sé dei bambini e dei ragazzi, cosicché ad esempio una ricerca sull’x fragile svolta solo a fini accademici e slegata da ogni indicazione di cura specifica è destinata solo a far lievitare il tasso di ansia e angoscia nella famiglie.

D’altra parte, deve essere chiaro che un servizio di restaurazione che rinunci alla propria specificità, alla propria vocazione, e si proponga onnipotentemente di accogliere tutti i casi senza alcuna coscienza dei propri limiti, è votato al fallimento: ad esempio quegli istituti che prendono di tutto perché non si azzardano a fare selezione spesso – proprio in base a questa mancata opera selettiva – finiscono con il vedere non realizzati i loro obiettivi. E allo stesso modo risulterà comunque votato al fallimento anche quel centro che delega ad altri la selezione votandosi, così, a venire riempito di contenuti e di carichi di lavoro in maniera eterodiretta.

Al contrario, ed in positivo, guardiamo cosa chiedono le strutture residenziali e semiresidenziali psichiatriche reggiane agli invianti: la premessa, affinché una presa in carico possa avvenire in queste situazioni, è nella consapevolezza, da parte dell’équipe territoriale inviante e della famiglia, della limitatezza del compito che le strutture semiresidenziali possono svolgere e nel fatto che una parte delle necessità sanitarie ed assistenziali dei pazienti ricada (ancora) su chi ha fatto l’invio.

Per tutti questi motivi, ribadiamo la necessità di connettere il momento diagnostico a quello restaurativo; il che equivale, in altre parole, a valorizzare il concetto di rete. Però, perché si possa dire di lavorare effettivamente in rete, è necessario che ciascun operatore contemperi il senso della propria appartenenza professionale ed istituzionale con il senso di una cointeressenza più vasta. Bisogna avere cioè la sensazione più o meno precisa di far parte di una rete di reti, il che implica:

– la predisposizione del singolo professionista e dell’istituzione (cioè del gruppo di lavoro di cui lui fa parte) ad un ridimensionamento in base ai propri limiti ed alle proprie possibilità, nonché ai limiti e alle possibilità del gruppo di lavoro di cui si fa parte (insomma la presenza, nel singolo professionista e nel gruppo di lavoro di una sorta, di Ideale dell’Io realistico e cosciente della propria fallibilità);

– la predisposizione dinamica al ridimensionamento: il che implica l’importanza della formazione (quello che non si è in grado di dare oggi sarà possibile dare domani, se ci si forma, se si progredisce nel proprio iter formativo individuale e di gruppo);

– il non lasciarsi descrivere dagli altri, il fatto cioè di non rinunciare a fare da sé una propria selezione (se il gruppo di lavoro non definisce i propri confini restaurativi si ritrova presto pieno delle urgenze e delle grane le più incongruenti, e questo equivale, come dicevamo prima, alla pianificazione del proprio fallimento);

– in ultima istanza, e conseguentemente, è necessario definire un preciso luogo di selezione che sia interno al luogo restaurativo, o in rapporto dialettico con esso.

Tale luogo restaurativo va ridefinito in continuazione, in base agli aggiustamenti che l’esperienza suggerisce. Il che significa che, nella riflessione sull’e-sperienza fatta, non bisogna mai trascurare una ri- osservazione critica di come è pensato e organizzato questo momento.

 

3. Selezione dei problemi dell’apprendimento e fasce d’età

Vi sono tre momenti delicati in cui è particolarmente importante soffermare la nostra attenzione: a. la seconda infanzia; b. la latenza; c. la preadolescenza.

a. La seconda infanzia è il momento in cui emergono i problemi dei pre-apprendimenti, ed, in particolar modo, i problemi di linguaggio. La prima cosa che dobbiamo chiederci, di fronte a questo, come agli altri due momenti critici, è: chi osserva che cosa? Normalmente in questa età le istanze osservanti sono: le assistenti sociali, i pediatri di base, le educatrici di scuola per l’infanzia, e, in seconda battuta: gli psicologi, i neuropsichiatri infantili. Tutti questi professionisti osservano vari aspetti:

1. il ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale;

2. la differenza fra competenza verbale attiva (lessico) e quella passiva  (vocabolario);

3. la discriminazione fra competenze specifiche nel lessico familiare  e quelle nel linguaggio burocratico-curiale;

4. le condizioni familiari con particolare riguardo: 4.1. da una parte, alle competenze verbali dei genitori e soprattutto  della madre (livello dell’istruzione); 4.2. dall’altra alle loro capacità residue sul piano della genitorialità distinguendo: 4.2.1. svantaggio socio-culturale, cioè le scarsa possibilità  della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni genitoriali svolte in maniera sufficientemente buone (es.: molte famiglie immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2. deprivazione più o meno accentuata, cioè l’inca-pacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera sufficientemente buona;

5. le condizioni contestuali di vita in cui il bambino vive e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola materna che il bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti dal gruppo di educatrici cui il bambino è affidato nella quotidianità;

6. la necessità di una diagnosi differenziale (da parte dei neuropsichiatri infantili) poi si impone chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur minimo dubbio (es.: strabismo, sciatorrea ecc, eventualmente associati al ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale).

 

b. La latenza ed i problemi degli apprendimenti di base: Il “chi osserva che cosa” in questo caso, e cioè con questi bambini più grandi, diventa l’insieme di: le docenti di scuola elementare, gli psicologi, i neuropsichiatri infantili (le assistenti sociali, i pediatri di base), che osservano e valutano:

1. il ritardo nell’acquisizione degli apprendimenti di base;

2. la differenza fra competenza verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario);

3. la discriminazione fra competenze specifiche nel lessico familiare e quelle nel linguaggio burocratico-curiale;

4. le condizioni familiari con particolare riguardo: 4.1. da una parte, alle competenze verbali dei genitori e soprattutto della madre (livello dell’istruzione); 4.2. dall’altra, alle loro capacità residue sul piano della genitorialità distinguendo, come sopra: 4.2.1. svantaggio socio-culturale, cioè le scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2. deprivazione, più o meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera sufficientemente buona;

5. le condizioni contestuali di vita in cui il bambino vive e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola elementare che il bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti dal gruppo di docenti cui il bambino è affidato nella quotidianità;

6. la necessità di una diagnosi differenziale (da parte dei neuropsichiatri infantili) poi si impone chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur minimo dubbio (strabismo, sciatorrea ecc, eventualmente associati al ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale)

 

c. La preadolescenza, i problemi della ridefinizione del Sé durante la crisi puberale ed i residui ritardi sul piano degli apprendimenti di base. Il “chi osserva che cosa” subisce un altro piccolo, ma significativo cambiamento, ed è composto dall’insieme composto da: i docenti di scuola media, gli educatori degli istituti, gli psicologi, i neuropsichiatri infantili, (le assistenti sociali, i pediatri di base).

Questi professionisti, nel caso del preadolescente osservano:

1. la forza o la fragilità del Sé del preadolescente nella fase di passaggio;

2. il suo grado d’integrazione nel gruppo di pari;

3. le caratteristiche del gruppo di pari;

4. come il ragazzo vive gli altri tre luoghi dell’adolescenza (oltre il gruppo, la famiglia, la coppia, lo stare da soli);

5. la persistenza o meno del ritardo nell’acquisizione degli apprendimenti di base;

6. la differenza fra competenza verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario);

7. la discriminazione fra competenze specifiche nel lessico familiare e quelle nel linguaggio burocratico-curiale;

8. le condizioni familiari con particolare riguardo: 8.1. da una parte, alle competenze verbali dei genitori e soprattutto  della madre (livello dell’istruzione); 8.2. dall’altra, alle loro capacità residue sul piano della genitorialità distinguendo sempre fra: 8.2.1. svantaggio socio-culturale, cioè le scarsa possibilità  della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 8.2.2. deprivazione, più o meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera sufficientemente buona;

9. le condizioni contestuali di vita in cui il ragazzo vive e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola media che il ragazzo frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti dal gruppo di docenti cui il ragazzo è affidato nella quotidianità.

 

Bibliografia:

 

Angelini L., Le fiabe e la varietà delle culture, CLEUP, Padova, 1989

Angelini L., Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, UNICOPLI, Milano, 1998

Laplanche J., Pontalis J.B., Fantasma originario, Fantasmi delle origini. Origini del fantasma, Il Mulino, Bologna, 1988

Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma 1993