Il terapeuta adolescente: un particolare tipo di transfert

Il terapeuta adolescente: un particolare tipo di transfert. (*)
di Fabrizio Rizzi

(*) pubblicato sulla Rivista “Adolescenza”, vol.5 n.1, ed. Il Pensiero Scientifico, Roma, 1994

 Vedere in consultazione molti adolescenti è difficile che annoi. Qualcuno anzi vi sembra attirato come per vocazione.
Per un terapeuta che abbia un certo margine di scelta nel suo lavoro, il fatto di dedicarsi molto all’adolescenza segnala in lui un’attrazione verso questo speciale pianeta, con tutto quanto di luce e di ombra ciò può significare.A me è successo questo soprattutto all’inizio del mio lavoro e da allora, dopo un percorso di studio e di ricerca iniziato con altri colleghi, mi trovo ora a riflettere non solo e non tanto sui miei interlocutori adolescenti, quanto su di me che incontro loro con uno spirito certo ben diverso dai primi tempi, ma con una tonalità emotiva particolare che tende comunque ad essere più coinvolta rispetto al resto dell’utenza.Credo che in un terapeuta possa esistere un certo tipo di transfert verso l’adolescenza, una disposizione emotiva particolare che esiste in lui a priori e che gioca un ruolo molto speciale – sia in positivo che in negativo – nella relazione con l’adolescente. Credo anche che esista una specifica dinamica transferale che chiamo “il terapeuta adolescente” e che cercherò ora di illustrare partendo da un resoconto clinico. Monica è una diligente studentessa del liceo linguistico ma anche una heavy-metal fan, una appassionata del rock duro, anzi durissimo e metallico. Ha quasi 16 anni quando sua madre me la porta per un calo ponderale relativamente modesto ma con un sospetto diagnostico d anoressia. Il padre è morto qualche anno prima per un ictus cerebrale forse maldiagnosticato e la madre – nella sua intensa ed intrusiva angoscia – mescola questo lutto non ancora elaborato con forti angosce di morte proiettate sulla figlia.Dopo un mese di faticosa osservazione diagnostica con la coppia madre e figlia, riesco ad affidare la madre ad una valente collega e procedo con Monica da sola.
La ragazza viene regolarmente alle sedute settimanali e, poco per volta, comincia a farsi conoscere. Di cibo, diete e visite mediche ne parliamo poco, solo nelle prime sedute w poi basta. Emerge invece ciò che stava sotto il sintomo: dapprima la questione del rapporto con la madre da un lato, e dall’altra con il fratello, unico maschio – padrone in una casa frequentata solo da donne, comprese numerose zie e nonne; poi lo studio da sempre sovrainvestito, ma che ora Monica vuole ridimensionare; in seguito ancora al discorso sul corpo, sulla amenorrea, sulla paura/desiderio di poter assomigliare ad un maschio. Alla fine del primo anno di terapia la sintomatologia anoressica è scomparsa, per Monica ora il cibo non è più un problema, il ciclo mestruale sta ricomparendo, ha raggiunto un peso accettabile per lei e per tutti, ma vuole continuare il lavoro per affrontare tante altre cose sue. Ora frequenta molto i coetanei, si sente attratta da un ragazzo chitarrista di un gruppo rock locale, sta molto meno in casa, ma questa gamma di esperienze le pone tutta una serie di quesiti sulle sue scelte.Dopo circa un anno e mezzo dall’inizio, arriviamo ad un momento in cui Monica ed io possiamo parlare più in profondità di quello che succede nel nostro stesso lavoro. In una seduta lei sta parlando della “lunghezza d’onda” tra lei e gli altri: c’è chi è più in sintonia con lei, chi invece meno. A questo punto io le chiedo: “ E qui,, tra di noi, quando c’è stata meno sintonia?”.Monica sorride e dopo un po’ di silenzio mi dice:“Al primo colloquio, all’inizio mi pareva che lei non capisse niente. Sì, da una parte mi andava bene che lei non continuasse a parlare come mia madre di diete, peso e controlli medici… però dall’altra ricordo di aver pensato… sì, insomma, che lei se ne fregava proprio del mio corpo così brutto e smagrito… come se non esistesse, come se a lei importasse solo dei miei pensieri, soprattutto quelli più personali… ricordo di essermi detta: oh Dio! Io da questo non ci torno più!…poi però alla fine ero curiosa… di capire perché lei ci teneva tanto a capirmi… anche se ricordo che quei venti minuti da sola, senza mia madre, mi avevano molto stressata… che buffo! Ora è vero il contrario…”.Mentre Monica parla io torno indietro con la memoria. Il ricordo mio non coincide in pieno con il suo: sento che in parte lei trasforma proiettivamente il passato quando ricorda un rifiuto mio (e non suo) ad interessarmi del suo corpo deteriorato e c’è probabilmente una regione transferale attuale perché lei ricordi così.Eppure non è solo una sua proiezione: anzi, è lei che mi permette un insight. Rivivo il clima intenso di quel primo colloquio: provavo pena per la madre angosciata, ma anche un sordo fastidio per il continuo cicaleccio, ed un’empatia complice per la figlia che se ne stava zitta. Ora capisco da Monica stessa quanto quella sua passività fosse anche egosintonica per lei.In quel momento io non mi identificavo in Monica, quanto in un ruolo di adolescente orgoglioso e ribelle che agivo io, per conto mio e non per conto di Monica, facendo uscire la madre dal setting dopo soli 20 minuti del primo colloquio. Quell’adolescente che desiderava stare da solo era storia mia, non di Monica, non certo in quel momento. M a mentre penso a queste cose, la ragazza mi riporta al presente, anticipa la mia curiosità e continua:“Invece i colloqui più belli sono stati quelli della primavera scorsa quando parlavamo di musica, ricorda?… io comunque continuo a pensare che lei si perde il meglio… ma davvero non le piace l’heavy metal? Ha provato ad ascoltare gli Skid Row? …beh, comunque non mi importa di convertirla: ognuno ha il diritto di perdersi le sue occasioni, se proprio vuole… comunque, mi piacevano quei colloqui in cui parlavamo quasi solo di musica … ecco, lì ho scoperto che io e lei potevamo davvero essere sulla stessa lunghezza d’onda, quella della musica, anche se con gusti non tutti uguali…sì, all’inizio, quando lei mi ha detto che non le piace il metal mi sono detta : “eccone qui un altro con i pregiudizi, che non capisce nulla”… poi invece ho visto che mi ascoltava, che voleva capire, e che mi chiedeva dei testi delle canzoni dei Guns ‘n Roses… ho capito che lei sente la musica e che rispetta anche quella che non le piace… di lì in poi mi sono sentita di potermi fidare davvero…”.A questo punto io sorrido tra me e me, perché rivivo anch’io quei colloqui con piacere, ma ricordo di essermi sentito allora a disagio, con il dubbio di aver fatto conversazione “da salotto” con Monica, forse per spostare difensivamente all’esterno qualcosa d’altro; ora invece vedo le cose diversamente e – sentendo parlare Monica – mi torna alla mente quanto anch’io da adolescente sentissi la musica.Proprio la musica è stata un’area di mutua condivisione emotiva tra me e lei, questo è stato possibile grazie a questa mia particolare identificazione transferale. Ma capisco anche come sia stato importante dirle che non condivido tutto con lei, che non amo quel rock così duro che è invece puro miele per le sue orecchie: quel rumore così intenso, che credo non possa essere amato dai bambini, né dagli adulti, ma solo da alcuni adolescenti, che vi riconoscono, come rappresentazione simbolizzata esterna, il caos e la forza del loro mondo pulsionale interno.In ogni caso, parlare con me della musica e delle fantasie ad essa associate ha permesso a Monica di sentire contemporaneamente l’adolescente simile a lei e l’adulto diverso da lei che ci sono nel suo terapeuta, ed ha portato ad un rinforzo dell’alleanza di lavoro.   Questo riassunto clinico mostra come sia facile per un terapeuta rimuovere la consapevolezza del proprio transfert verso il paziente e comprenderlo solo a posteriori, anche dal paziente stesso.
Si tratta peraltro di un tema poco approfondito anche dal punto di vista della teoria.
In un recente articolo, Turillazzi Manfredi (1989) ricorda che “non esiste relazione reale senza transfert”, affermazione tanto apparentemente ovvia quanto dimenticata dai terapeuti, che tendono a pensarla vera solo per i pazienti.In un più vecchio ma interessante articolo Chediak (1979) definisce vari tipi di controreazioni del terapeuta nei confronti del paziente, al cui interno differenzia quattro componenti, tra cui il transfert del terapeuta sul paziente “nel quale la psicopatologia del paziente è relegata in un secondo piano dal fatto che si è attivato nel terapeuta un potenziale di transfert verso di lui”.L’autore sottolinea l’importanza di differenziare il transfert dal controtransfert attraverso la supervisone e l’autoanalisi, aspetto quest’ultimo valorizzato anche da Casement (1989) il quale insiste sulle opportunità che il terapeuta ha di imparare dal paziente. Per Chediak, il fatto che nel terapeuta non esista solo un controtransfert ma anche un transfert può essere potenzialmente (ma non necessariamente) pericoloso, nella misura in cui – ad esempio – il terapeuta dà un’interpretazione che è corretta per lui stesso, ma non per il paziente.Nel mio primo colloquio con Monica e la madre avviene di fatto questo; anzi, più precisamente, al posto di un’interpretazione c’era il mio agìto di far uscire la madre senza la ragazza mi avesse dato degli input in tal senso. La corretta lettura di quella interazione non è quindi : “Monica, non potendo permetterselo da sé, spinge il terapeuta a buttare fuori sua madre”, ma piuttosto: “Il terapeuta, credendo di agire per conto di Monica, butta fuori sua madre (sua del terapeuta)”.Credo sia intuibile come la nozione di transfert del terapeuta sia scomoda per noi; ma sono però anche convinto che essa sia particolarmente feconda e che abbia un valore euristico specifico nella clinica adolescenziale.
Come precisa Chediak, in realtà non è facile distinguere nettamente tra transfert/controtransfert, perché esistono certamente delle sovrapposizioni. Ma parlare anche di transfert significa da un lato ricordarsi che alcune reazioni del terapeuta si possono basare poco o per nulla su quanto proviene dal paziente e sono quindi un patrimonio personale del terapeuta che va riconosciuto come tale; dall’altra significa anche riflettere sul fatto che la sottolineatura univoca della preposizione “contro” nel concetto di controtransfert rischia di portarci alla pericolosa conclusione che tutto ciò che succede nell’interazione dipende dal paziente, come ha particolarmente evidenziato anche Lopez (1992) in un suo recente articolo.Al di là della teoria, è comunque utile tenere presente in noi l’idea della possibile esistenza di una particolare disposizione emotiva, fantasmatica e comportamentale del terapeuta, che può esistere a priori, che si collega alla sua storia personale, e che può talvolta avere un’alta carica emozionale anche nel terapeuta con una approfondita esperienza di training terapeutico personale.Quando parlo di terapeuta adolescente intendo dunque una situazione interattiva in cui – sulla base di un’identificazione empatica introiettiva e/o proiettiva – il terapeuta agisce transferalmente parti del proprio Sé adolescenziale direttamente nel rapporto e nella comunicazione con l’adolescente. Sul versante di quest’ultimo, la risonanza emotiva di tale percezione è inevitabilmente ambivalente e può portare a condizioni negative per la terapia, ma anche ad un rinforzo dell’alleanza di lavoro. A mio parere la variabile causale principale che differenzia questi due opposti esiti sta nel prevalere – all’interno della identificazione apatica del terapeuta che è un po’ il motore di tutto il processo – degli aspetti proiettivi su quelli introiettivi. E’ infatti la prevalenza dei primi sui secondi che minaccia la relazione terapeutica, come hanno messo in luce gli storici contributi sul controtransfert della Heimann (1950), di Little (1951), di Racket (1953) ed altri ancora. L’adolescente,ancora più degli altri pazienti, prova incertezza, confusione ed angoscia se avverte che il terapeuta si identifica in lui proiettando qualcosa di sé nel paziente; in questa situazione il vissuto dell’adolescente è quello di non sentirsi riconosciuto, ma confuso con qualche cosa d’altro che sta nella mente dl terapeuta.Nel mio primo colloquio Monica viene molto disturbata dal mio agìto ed il potenziale pericolo di un abbandono della consultazione appena iniziata è evitato solo per l’effetto compensativo di altri momenti interattivi della seduta.La mia esperienza con adolescenti mi porta inoltre a notare come molti di loro da un lato abbiano bisogno, per potersi fidare, di sentire “un po’ e per un po’ di tempo” il terapeuta come simile a loro; o meglio, cercano nel terapeuta alcune sfaccettature di un Sé adolescente, con un codice fantasmatico e comunicativo riconoscibile da loro.Dall’altra però hanno altrettanto bisogno di percepire nel terapeuta anche delle parti diverse – che convivono con le prime – cioè delle parti adulte che possono svolgere una funzione differenziante e strutturante nella relazione, e che ricordino loro in senso positivo di essere in un setting terapeutico e con un interlocutore adulto.Con Monica, il terreno empatico della nostra comune sensibilità per la musica trovava un importante punto di riferimento e contemporaneamente di limite nella diversità di alcuni rispettivi gusti, cosa che sanciva una rassicurante differenza generazionale e delle reciproche identità. Il grande contributo teorico e clinico di Senise e dei suoi collaboratori (1990) ci ricorda quanto sia fondamentale con l’adolescente, il discorso sul Sé e sull’identità proprio a partire dalla relazione terapeutica, in cui si restituiscono all’adolescente tali aspetti rielaborandoli.Proprio per questo credo sia così importante ricordarsi del nostro potenziale transfert verso l’adolescente , naturalmente con le luci e le ombre che esso porta con sé, per l’adolescente e per noi stessi. Riassunto
Partendo da un breve resoconto clinico ad una seduta di psicoterapia in fase conclusiva con un’adolescente ed alla luce di alcuni contributi teorici sul transfert/controtransfert, l’autore descrive il concetto di transfert del terapeuta verso il paziente adolescente. Si tratta di un aspetto che può e deve essere distinto dalla nozione di controtransfert, nel senso di essere un qualcosa di appartenente al terapeuta, esistente a in lui a priori e non come mera risposta al transfert del paziente. Viene infine sottolineata la peculiarità di questo fenomeno nella clinica adolescenziale, e la sua potenziale influenza sul piano dell’alleanza terapeutica.

Bibliografia
 Aliprandi M. T., Pelanda E., Senise T. (1990): Psicoterapia breve di individuazione. Milano: Feltrinelli.
Casement P. (1989): Apprendere dal paziente. Milano: Cortina.
Chediak C. (1979): Counter-reactions and countertransference. International Journal of Psychoanalysis, 60, 117-29.
Fava Vizziello M. G., Reitano F., Rizzi F. (1982): Approccio all’adolescenza. In: Fava Vizziello M. G. (eds) Interventi di psicologia clinica in neuropsichiatria infantile. Milano: Masson.Heimann P. (1950): On countertransference. International Journal of Psychoanalysis, 31, 81-4.
Little M. P. (1951): Countertransference and the patient’s respinse to it. International Journal of Psychoanalysis, 41, 16-33.Lopez D. (1992): Il controtransfert nella prospettiva della persona. Gli Argonauti, 53, 85-101.
Racket H. A. (1953): A contribution to the problem of countertransference. International Journal of Psychoanalysis, 34, 88-106.
Rizzi F. (1985): L’adolescente ed il partner relais. Psichiatria generale e dell’età evolutiva, 3, 139-49.Rizzi F. (1985): L’approccio diagnostico nelle crisi adolescenziali acute. Cremona- Istituto di analisi Immaginativa (Tesi di specializzazione non pubblicata).Rizzi F., Conci M. (1987): Crisi acute in adolescenza: comparazione clinica tra 6 casi. Psichiatria generale e dell’età evolutiva, 25, 49-64.Turillazzi Manfredi S. (1989): La nuova teoria del controtransfert. Rivista di Psicoanalisi, 35, 617-44.

Una risposta a “Il terapeuta adolescente: un particolare tipo di transfert”

  1. come stai? mi potete aiutare per favore?sono una studentessa di psicologia . Sto facendo la mia tesi,, problemi emotivi degli adolescenti, mi puoi aiutare con letteratura per questo tema,non riesco a trovare

I commenti sono chiusi.