Sylvia Plath: Diari

di Elisa Fabbri


  Leggere i “Diari” di Sylvia Plath significa entrare nel mondo di una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, significa capire la sua anima e seguire la sua vita, cogliere gli eventi e le sensazioni che le attraversarono la mente, le gioie inarrestabili, le vette altissime e le disperazioni, le depressioni che la portarono alla morte.

Questa lettura rappresenta una grande esperienza interiore sia per coloro che già conoscono il mondo poetico della Plath, sia per chi si voglia avvicinare alla sua scrittura che comprende, oltre alle poesie, un romanzo autobiografico, “La campana di vetro”, le “Lettere alla madre” e i racconti pubblicati col titolo “Jonny Panic e la Bibbia dei sogni”. Le pagine del Diario sono dirette e immediate, e subito avvicinano il lettore all’anima della protagonista, all’interno di una piena e intensa partecipazione emotiva; ci si sente presto vicini a questa ragazza fragilissima e coraggiosa, determinata e infelice, certa della propria vocazione letteraria ma sempre esposta a tutte le correnti del dolore che la perseguita, facendola precipitare nel buco nero della distruzione. Leggendo queste pagine entriamo nell’universo esistenziale e culturale che fu quello di un’anima lacerata e tormentata, sempre alla ricerca di un impossibile equilibrio emotivo ed affettivo in uno strenuo tentativo di conoscersi per riuscire ad esistere. Ci scorrono così davanti le immagini di una ragazza fortemente motivata nello studio, ambiziosa, desiderosa di provare esperienze che la arricchiscano. Il suo entusiasmo è dirompente, le frustrazioni troppo vicine alla disperazione. Nelle diverse, opposte espressioni, nel suo quotidiano raccontare sulle pagine sensazioni e stati d’animo, cogliamo il nucleo di quella malattia bipolare che la precipitava dall’euforia alla depressione, dalla luce abbagliante dell’esaltazione alle tenebre di una notte popolata di demoni e fantasmi. Seduttiva nelle serate con gli amici, amava essere al centro dell’attenzione, creare il suo personaggio, attraente, affascinante: parlava tanto, in quelle occasioni, poi tornava nella sua stanza e piangeva, si sentiva sbagliata, sola, inutile. Tornava ad essere ciò che era stata pochi anni prima, quando tentò il suicidio per depressione e fu ricoverata. La stessa inquietudine, gli stessi bagliori e le stesse cadute, simboli della sua ciclotimia, si ritrovano nelle pagine in cui narra i successi e le cadute negli studi: la sua autostima era vacillante, cercava un’identità stabile ma era sommersa da onde che la scagliavano da un dato all’altro della propria psiche. Fu l’intensità di questa malattia a generare quella poesia visionaria, folgorante, perfetta che ci ha lasciato? E’ certo che senza le vette e i baratri del suo spirito le immagini poetiche non sarebbero mai nate. Sylvia lottò sempre per  trovare un centro interiore che le permettesse di vivere con pienezza. A Cambridge nel 1956 la Plath si mostrò al poeta Ted Hughes come una studentessa piena di fuoco, sopra le righe, una ragazza americana energica e vitale: Hughes era bello, imponente, scriveva poesie, era umbratile, travolgente, geniale. Erano entrambi passionali, sospinti da forti emozioni; il primo incontro lasciò sulla guancia di lui il morso di Sylvia. Lo sposò amandolo in modo viscerale, come una divinità ed ebbe due bambini. Ma non durò. Per le persone che hanno la personalità di Sylvia nulla di reale e positivo dura mai a lungo; tutto si rompe e la ferita che resta è lacerante. Fu un amore potente che i due tentarono di far vivere all’interno dello schema matrimoniale. Ma alimentare la scrittura e la simbiosi affettiva con i simboli scaturiti dai ritmi quotidiani era troppo difficile. Sylvia, dopo anni di sforzi per conciliare insanabili dicotomie, viene abbandonata da Ted, innamorato di una donna fatale che annientò la coppia. Sylvia si sentì spezzata, privata dell’altra parte di sé. Stare sull’orlo dell’abisso e non lasciarsi cadere è difficile e arduo. L’abisso attrae perché significa la fine delle frammentazioni interiori ed esistenziali, perché ferma le cadute dell’umore e gli aneliti ad un appagamento irraggiungibile. In queste pagine troviamo tutti i passaggi della vita di una scrittrice che cercava di placare la propria angoscia scrivendo, leggendo, amando: ma il caos si opponeva alla sua ricerca di ordine e lei annaspava ferita, senza luce. Vi sono pagine di gioia e pagine piene di tormento; gli sbalzi d’umore sono registrati in tutta la loro pericolosa violenza, insieme agli scorci di vita vissuta e a tutte le sfumature dell’anima. Nel 1963 era sola a Londra con i bambini. Era un inverno gelido, lei non riusciva a difendersi dal freddo, metafora di quel freddo interiore che la stava logorando. Si svegliava alle quattro del mattino e scriveva le sue poesie. Difficile capire il malessere che la stava distruggendo: prima del tentato suicidio, da ragazza, soffriva di un’insonnia persistente: la sua depressione la divorava insieme alla mancanza di sonno e di riposo, e alimentava l’inquietudine scarnificante. Anche nei giorni prima del suicidio non poteva dormire, ma portava in sé un tesoro nascosto nelle pieghe della mente e dell’anima e riuscì a svelarlo con le sue poesie fiammeggianti, perfette, rarefatte: quale visionaria piega della malattia le ha consentito tale forza espressiva? Come se solo il dolore e la prossimità con l’altrove assoluto consentissero il dispiegarsi della sua arte. Da quali recessi inconsci scaturirono quelle percezioni intense, quelle parole simboliche, archetipiche? Forse era la sua vicinanza con l’Ombra, la prossimità con un altrove angosciante che lei vedeva nitidamente con tremore senza riuscire a distaccarsene. Fu proprio questa simbiosi con la sofferenza della mente che originò le sue poesie. Nadia Fusini ha scritto che saper esprimere l’Ombra nei versi non significa addomesticarla. E la Plath non la addomesticò. Fu poeta e travolta dalla follia ad un tempo. Come Alda Merini, come Amelia Rosselli. “Le muse inquietanti” della sua poesia la divorarono in quell’inverno, mentre il suo cammino creativo procedeva senza sosta. Ma il buco nero la inghiottiva. Era avvezza all’autoanalisi, alla introspezione, e nella sua solitudine abissale vide l’altra parte di sé, che ora l’attraeva come verità assoluta, ora la terrorizzava perché aveva il volto della morte. Invece dell’ascesa cominciò il percorso di autodistruzione, poiché non vi è alcuna meta da raggiungere, né altre illusioni. Le poesie vivono e Sylvia muore. Sceglie di lasciarsi andare, di non lottare, di non scrivere più. E’ finita “la lunga attesa dell’angelo, della sua rara, aleatoria discesa”.

 

 

 

2 Risposte a “Sylvia Plath: Diari”

  1. Splendida sintesi, Elisa. Come contenuti, come stile espressivo. Perfetta. Scrivi ancora per noi.

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