Raccontami una storia che racconti Locorotondo

di Pietro Sisto

Raccontami una storia. Fiabe e racconti di Locorotondo. Funzioni e significati del narrare orale in situazione”. Questo il titolo di un interessante volume che Leonardo Angelini, con i tipi delle Edizioni di pagina (pp. 310, euro 17) offre agli studiosi del patrimonio culturale immateriale della Valle d’Itria con la trascrizione in dialetto e in lingua di una ricca serie di fiabe e racconti da lui stesso registratine gli anni Ottanta tra le persone più anziane del paese natio.

L’autore, che opera da tempo come psicoterapeuta dell’età evolutiva in Emilia Romagna ma con spiccati interessi per l’antropologia e la demologia, e con un forte attaccamento alle proprie radici, oltre a fornire notizie puntuali sugli «informatori», si occupa soprattutto dei problemi di carattere metodologico che una simile indagine pone al ricercatore. E in realtà, il merito maggiore dell’opera consiste in un approccio interdisciplinare che consente ad Angelini da un lato di mettere in primo piano gli aspetti più propriamente psicologici e psicoterapeutici della affabulazione, dall’altro di ricostruire sia pure per sommi capi le principali teorie sulla fiaba elaborate in Europa e in Italia fra Otto e Novecento: dallo strutturalismo di Propp e Lüthi all’approccio psicoanalitico di Freud, Jung e seguaci, all’interesse per queste espressioni della cultura popolare maturato in Italia solo nel pieno e tardo Novecento da parte di scrittori come Calvino e Pasolini o da antropologi e demologi come Cirese, Bronzini e Carpitella.

E proprio scorrendo le pagine di carattere metodologico si ha innanzitutto la possibilità di osservare come le storie raccontate tra le cummerse del borgo antico e i trulli della campagna di Locorotondo, sospese fra realtà e finzione, animate da persone realmente esistite con tanto di nome e soprannome o da personaggi fantasiosi siano i segni di una cultura «bassa» e orale che mostra evidenti rapporti con quella scritta e «alta» se è vero, per esempio, che «fra le righe» compaiono figure mitologiche come i ciclopi, la Gorgone Medusa, l’Idra di Lerna, e richiami e rimandi alle Mille e una notte nel racconto ‘Apriti cicerchia’ e al Decameron di Boccaccio in quello delle ‘Monache e il giovane inesperto’.

E sono anche i segni di una specifica, doppia identità culturale testimoniata dalle diverse versioni fra i testi che circolavano in campagna e quelli che si raccontavano nel centro urbano e quindi dai differenti fini educativi e terapeutici della cultura urbana e di quella contadina in una zona della Murgia dove gli agricoltori vivevano – e in parte vivono ancora oggi – fuori dai centri abitati.

E lo studioso sottolinea anche la distanza, la differenza di queste storie dal mondo delle favole non solo perché i protagonisti non sono chiamati a concludere il racconto con la «morale», con raccomandazioni più o meno convincenti da affidare alla sensibilità e al buon senso dell’ascoltatore, ma anche perché qui – per dirla chi più ‘altri ha studiato le fiabe pugliesi, Giovanni Battista Bronzini -, prevalgono come motivi dominanti quelli della rivalità fraterna, della «povertà mortificata dalla ricchezza, ma alla fine trionfante su di essa» ovvero della presenza di contadini, pastori e pescatori che insieme a re e regine rimandano storicamente «alla distanza ed alla separatezza dalla sovranità e dalla capitale del regno, in cui sono state tenute le popolazioni delle province continentali». Sembra invece allontanarsi da tutte le altre la ‘Storia del mortaio’ che ha come protagonista una giovane donna capace di indossare i panni di una vera e propria eroina e di farsi addirittura paladina di un messaggio liberatorio nei confronti dell’universo patriarcale.

Riflessioni e considerazioni non meno interessanti riguardano poi la lingua adoperata dai raccontatori locorotondesi, il ruolo da essi svolto nella definizione e nella continua rielaborazione dell’identità culturale del paese nonché il carattere più o meno abreatorio e cioè liberatorio che la fiaba può ancora avere in una realtà come quella odierna che non ruota più intorno ad un braciere e alla voce rassicurante di un vecchio saggio, ma vicino ad un letto, ad un libro o meglio ancora ad ‘una voce più o meno metallica che” da un pc o dalla Tv, da lontano, da molto lontano, da chissà dove racconta storie per i bambini.

E, a questo proposito, sottolinea Angelini, se è vero che il luogo della narrazione non è molto diverso da quello tradizionale, trattandosi comunque di un ambiente chiuso e circoscritto così come rimane sostanzialmente identica la funzione della fiaba – aiutare i piccoli a superare gli ostacoli, le ansie, le paure della crescita e dello sviluppo – è anche vero che i contenuti sono profondamente diversi da quelli di una volta: «da una parte sembrano perseguire il fine di adattamento precoce del bambino ai miti e ai riti del consumo; dall’’altra, servono a promuovere una specie di acculturazione omologante a valori vuoti ed insipidi, ancorché universalmente diffusi. Un’acculturazione cioè che dilava, livella e alla fine elide ogni specificità culturale».

Come dire, insomma, che la fiaba sopravvive sì ancora oggi, ma facendo i conti con le condizioni reali di un ‘mondo più o meno incantato nel quale, alla fine, non si può vivere come una volta ‘felici e contenti’.

(da La Gazzetta del mezzogiorno, 13.7.18)