Per un pugno di gnòmmeri. Una chiacchierata di fine agosto con Maria Sofia Sabato e Dino Angelini


da: La piazza. Periodico di vita cittadina. Alberobello, 22.Sett. 18, pp.14-15

di Martino Angiulli

Quando, nella sua Meditazione milanese, Gadda ebbe dire che il conoscere altro non è che l’inserire alcunché nel reale fino a deformarlo nel pasticciaccio delle parole come delle idee, forse non avrebbe poi così biasimato quanto – col senno dell’oggi – traspare dalla ricerca di Dino Angelini, ospite dei Presidi del Libro e dell’associazione culturale 1797 2.0 lo scorso 28 agosto.

Ciò che si potrà sicuramente ricavare da questo bel volumetto dal titolo “Raccontami una storia – Fiabe e racconti di Locorotondo. Funzioni e significati del narrare orale in situazione” è presto detto. Il libro si compone di diciotto fiabe raccolte tra il 1982 e il 1989, trascritte in lingua originale e tradotte con metodo e fedeltà di filologo: nella seconda parte poi, oltre a risultare estremamente esaustiva la sezione relativa alla trattazione per così dire diegetica e teoretica dei significati nascosti delle fiabe nonché degli influssi terapeutici sulla persona delle stesse, troviamo ben trentotto narrazioni di narrazioni – per dirla con Pasolini, altro gran conoscitore e ricercatore di fiabe insieme a Calvino – per ciò che concerne gli anni ’50 del secolo scorso – insieme al Pitré e all’Imbriani tanto per andar poco più indietro con gli anni – riguardanti racconti non fiabeschi. Il perché di questa scelta?

Basterà scorgere i nomi dei cantori presi ad esempio dall’Angelini per arrivarci agevolmente.

Pasqua Lorusso: donna volitiva, originaria di Fasano; lo si poteva capire facilmente dal suo parlato, un misto di locorotondese e fasanese così stretto, volto a farsi nuova lingua e contenuto. Le piaceva il mare poiché quello era il mondo della sua infanzia, sì da svolgerlo nelle fiabe e nei racconti che portava nel grembo. Ad ascoltarla una vicina che, pur non standoci più tanto con la testa secondo la stessa Pasqua, ogni girono ripeteva quel rito: all’arrivo dell’autore si accoccolava su un muretto a secco o nel vano di ingresso al trullo dell’amica per ammirarne i canti della memoria e del cuore.

E poi c’erano Angela Caramia, Colomba Leo, Donata Guarnieri, Nardùzze a Stizze col suo dialetto sfilacciato da accenti argentini, i fratelli Sarcinella, Giuseppe Convertini, Concetta Palmisano e zia Ninnina, primo vero dolce aedo per dirla con Cirese del focolare di casa Angelini: vecchi saggi d’epoche lontane che tra una versione e l’altra dell’appetito pantagruelico di un Tetè o un rimbombo qualunque della storia di Cudìcchie e della mucca pazza, allietavano serate non cercate ma sentite come un dovere, una festa o una fortuna dal buon orecchio del vicinato, ora attorno ad un braciere, ora nel bel mezzo d’un aia al chiarore di qualche lucciola curiosa.

Ma che senso ha il raccontare o il ricordare il passato, il rinvangare nel fondo d’un pozzo ormai asciutto in cui qualcuno ha gettato le radici della propria identità? Certamente per ritrovare il vocabolo giusto che possa alleggerire di senso la dissennatezza di questi nostri tempi tristi, smorti, né punto né poco interessanti aggiungeremmo noi: uno frammento di tempo in cui i vecchi si rassegnano ai cantori per eccellenza dei nostri millenials, schermoni ultrapiatti quanto i contenuti che riflettono nell’etere assonnato di un salotto spento in cui non ci si ascolta più se non per destreggiarsi col lancio del telecomando tra un divano e l’altro. Le storie di ognuno hanno una loro dimensione.

Gomitoli morbidi come carne attraversata da infinite vene sottili che svolte a poco a poco contribuiscono a definire non le sagome di ciò che si è ma il senso stesso della propria vita che non va costretta in solitari cerchi concentrici che si avviluppano su loro stessi, bensì sciogliersi in linee dritte e sicure come dovrebbe esser il parlar schietto e franco delle proprie origini, dei propri vissuti, dei propri ricordi.

Il nostro smarrito Sud da sempre si è costretto a rintanarsi nel fondo dello stivale temendo che i propri avi agresti ne avrebbero compromesso l’integrazione con un’Italia che ancora c’è. Vi era un tempo in cui la campagna si mescolava impudica con la città, dando luogo a un valzer d’influenze e tendenze afferenti fatti di vita realmente accaduti.

Vi era un tempo in cui la parola non finiva mai di evolversi, innestandosi ora in una forma ora in un’altra. E vi era il tempo della tenerezza, della fantasia, della voglia di crescere emozionandosi davanti una storia ed una candela accesa. Questo libro, così come il suo autore, sono l’esempio di un rimaneggiamento non fortuito ma cercato e ardentemente desiderato per uscire dal sogno e ricostruirlo subito dopo essersi svegliati. È il balocco che un fratello, un genitore o un nonno han voluto regalare nel tempo ad una sorella perduta, ad una figlia venuta al mondo, ad una nipotina tanta attesa: è il pegno di un cittadino legato alla propria terra e che non vuole dimenticarla.

È il canto dei contadini, la fame degli artigiani, l’amore per la fragaglia del povero che ride dell’avidità dei preti, è il sogno di una bimba di diventar donna, è la ricerca di sé stessi tra generatività e stagnazione, volontà e rassegnazione. È un invito alla lettura come tanti: per ritornare più ricchi all’ombra dei consigli dei saggi.