Psicologia del bambino: Il problema della classificazione diagnostica nella psicologia clinica dell’età evolutiva

di Margherita Papa

La classificazione diagnostica nei servizi di psicologia dell’età evolutiva è un problema. Nella comunità scientifica e professionale degli psicologi esistono orientamenti teorici e clinici che utilizzano sistemi  e procedure diagnostiche diverse.

Il problema è che la psicologia clinica per l’età evolutiva, pur avendo ormai diversi anni di esperienza e diverse scuole di riferimento, non ha ancora trovato una sua unitarietà nella classificazione diagnostica.

Alcuni colleghi potrebbero anche contestare la necessità di una categorizzazione troppo improntata sul “modello medico” della psicologia clinica. Ad esempio i colleghi che sono formati alla teoria dell’analisi della domanda (R.Carli Psicologia clinica 1987 UTET).

 Ci sono scuole che privilegiano l’analisi delle funzioni cognitive, ben rappresentate dalla rivista “Psicologia clinica dello sviluppo” diretta da Cesare Cornoldi, edita da Il Mulino. E’ un settore prevalentemente di ricerca accademica, ma a stretto contatto anche con il problema della psicodiagnosi del livello intellettivo e dei disturbi dell’apprendimento.

Ha una tradizione nata dalla necessità sociale di inizio secolo di valutare le capacità di apprendimento, con l’apertura dell’istruzione pubblica e le trasformazioni collegate alla complessità delle capacità lavorative richieste dall’industrializzazione. E’ uno dei contesti di lavoro prevalenti per gli psicologi che si occupano di bambini.

Ci sono scuole di psicoterapia che usano la classificazione diagnostica psicoanalitica e si basano per la diagnosi prevalentemente sul gioco e sulle produzioni simboliche, disegni o fiabe, del bambino. Sono ovviamente le scuole classiche della psicoanalisi infantile di Melanie Klein e di Anna Freud, con gli sviluppi e le contaminazioni successive, ben rappresentate dal modello inglese della clinica Tavistock. In questo modello c’è anche una importante attenzione al contesto di lavoro nei servizi pubblici. Attualmente alcune delle recenti proposte psicodiagnostiche alternative alla classificazione psichiatrica dei disturbi mentali sono quella della scuola di Ginevra (Dufour, Palacio Espasa La diagnosi strutturale in età evolutiva 1995 Masson) e quella di un gruppo di psichiatri infantili e psicoanalisti francesi (Mises, Forteneau, Jeammet, Lang, Mazet, Plantare e Quemada Classification francaise des troubles mentaux de l’enfant et de l’adolescent 1988 Masson).

Non è possibile poi dimenticare le scuole di psicoterapia ad orientamento sistemico familiare che inseriscono la sofferenza del bambino all’interno del contesto familiare in cui vive, interpretando quindi il sintomo portato dal bambino come un segnale di una relazione e/o  di una comunicazione familiare disfunzionale. Queste scuole adottano prevalentemente la cornice del paradigma della complessità, quindi non hanno codificato un sistema diagnostico categoriale, ma di volta in volta propongono ipotesi descrittive ed esplicative contestuali al problema ed al vertice di osservazione.

 Ci sono orientamenti scientifici che si sono proposti di estendere la teoria dell’attaccamento di Bowlby alla clinica e analizzano il bambino nelle sue relazioni con i care giver, cercando  di inferire il tipo di modelli operativi interni che corrispondono ad un certo tipo di attaccamento. Sono sviluppi importanti della teoria dell’attaccamento, che utilizzano le osservazioni in contesti strutturati del comportamento, ma ancora con ricadute non troppo significative sulla possibilità di una classificazione diagnostica della personalità dei bambini. In questo senso si muove anche la recente disciplina della psicopatologia dello sviluppo che cerca di unificare gli studi dell’infant research (la psicologia dello sviluppo con le tecniche della videoregistrazione degli scambi precoci) e le teorie psicodinamiche della psicopatologia. Vari autori sono impegnati in questo fronte: Arnold Sameroff, Peter Fonagy, Daniel Stern.

 Non c’è ancora purtroppo, a causa del profondo sganciamento tra prassi dei servizi e mondo accademico, una scuola che si inspiri e costruisca una teoria della tecnica della psicologia clinica dell’età evolutiva nei servizi pubblici.

La psicoanalisi ad esempio ha una teoria dello sviluppo e della personalità ed una teoria della tecnica clinica. La psicologia clinica dell’età evolutiva ha senz’altro alle spalle le teorie della psicologia dello sviluppo, della psicologia cognitiva, della psicologia dell’educazione ma ancora manca una teoria della tecnica clinica a fronte di varie e consolidate prassi cliniche.

Non è un caso che né all’interno delle scuole di specializzazione universitaria in Psicologia Clinica né tra le altre scuole di specializzazione sia previsto uno specifico indirizzo per l’età evolutiva.

 D’altra parte nella formazione universitaria gli psicologi sono già stati abituati a una fondamentale giustapposizione di modelli teorici e clinici.

Prendiamo ad esempio due manuali recenti di psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza, molto diffusi nelle università di Psicologia: quello di  Massimo Ammaniti (Manuale di psicopatologia dell’infanzia 2001 Cortina ) e quello della Grazia Fava Vizziello (Manuale di psicopatologia dello sviluppo 2003 Il Mulino). Entrambi prendono come base di discussione le categorie dei manuali diagnostici psichiatrici. Entrambi aggiungono anche la Classificazione 0-3, sulla patologie precoci genitori-bambino; questa classificazione, ancora poco diffusa nei servizi, è un importante novità sulla quale tornerò in seguito. Poi sentono la necessità di aggiungere alcuni capitoli sulla classificazione psicoanalitica, in particolare a riguardo delle organizzazioni di personalità e ai disturbi d’ansia e agli stati depressivi. Ovviamente quando si spostano su questo tipo di disturbi diventa più difficile rimanere all’interno della cornice statistica delle categorie del DSM IV o dell’ICD10 ed il paradigma psicoanalitico diventa prevalente. Non per niente sono entrambi studiosi e clinici con una specializzazione di neuropsichiatri infantili e un successivo percorso psicoanalitico.

Un manuale di psicologia clinica dell’età evolutiva scritto da uno psicologo è quello di Piergiorgio Foglio Bonda I disturbi psicologici dello sviluppo infantile (1994 Franco Angeli). Mi sembra uno dei pochi tentativi, anche se un po’ datato, di dare una classificazione psicologica dei disturbi: utilizza lo schema psicodinamico delle nevrosi, psicosi e schizofrenie infantili ed aggiunge i “disordini determinati da ritardi e deviazioni nello sviluppo psicomotorio”, ad esempio l’area delle funzioni vitali, sonno, alimentazione, controllo sfinterico, lo sviluppo psicomotorio, lo sviluppo linguistico, infine mette a parte un capitolo sul ritardo mentale.

Se invece si vuole approfondire le difficoltà che i bambini incontrano nell’ambito scolastico esistono vari manuali di psicologia dell’educazione e dell’apprendimento scolastico, basta qui citare quello della Clotilde Pontecorvo (Giunti 1998) o quello di Piero Boscolo (UTET 1986). In questi manuali, pur presentando una parte sulla motivazione, non vengono approfondite le ricadute sull’apprendimento di un bambino se questo presenta un disturbo della sfera affettiva. Potrebbe sembrare una osservazione inutile, ma visto che sempre i bambini che presentano un disturbo affettivo hanno anche qualche difficoltà scolastica, il non soffermarsi su questo aspetto diventa una sorta di scotomizzazione del problema.

Molti psicologi o neuropsichiatri specializzati sull’esame delle funzioni cognitive o sull’esame dei disturbi dell’apprendimento non approfondiscono la valutazione della sfera affettiva e relazionale del bambino ed a volte rischiano di non accorgersi che dietro un ritardo dell’apprendimento vi è un disturbo affettivo.

 Insomma quello che sto cercando di mostrare è l’estrema giustapposizione di campi del sapere sui bambini, ognuno dei quali utilizza una sua strategia classificatoria, che ovviamente si basa sul metodo osservativo che viene prescelto.

Gli psicologi dell’età evolutiva nei servizi pubblici usano il sistema diagnostico ICD 10, perché  è necessario intendersi tra psicologi  con formazioni diverse e tra professionisti di categorie limitrofe come i neuropsichiatri infantili, ma molti sono i colleghi che non ne sono affatto soddisfatti.

I sistemi diagnostici psichiatrici hanno diversi limiti già per le diagnosi degli adulti: sono note le controversie rispetto all’asse II del DSM IV, la difficoltà di applicare criteri nati in ambito psicoanalitico alla comunicazione tra colleghi che questi criteri non sempre condividono. E’ emblematica  ad esempio la difficoltà di distinguere solo sulla base del sistema classificatorio una nevrosi ossessivo-compulsiva da un disturbo di personalità ossessivo-compulsivo.

Sembra infatti che nella nuova elaborazione del DSM in preparazione per il 2008 una buona parte degli psichiatri proponga di abolire l’asse II dei Disturbi di personalità.

 Il problema reso semplice sta nell’utilizzare sistemi categoriali su base sintomatica o sistemi di valutazione strutturale della personalità.

Lo stesso problema si ripropone amplificato per la psicopatologia dell’età evolutiva, con due complicazioni in più:  i bambini, prima della preadolescenza, raramente riescono a riferire i propri sentimenti, i propri pensieri più intimi. Questo limite, cognitivo e di personalità, dei bambini fa sì che  l’attenzione degli adulti che si prendono cura di loro si concentri maggiormente sui sintomi più esterni, quelli  comportamentali e quelli delle funzioni vitali.

Un adulto, più o meno, è in grado di riferire dei suoi contenuti mentali, ha alle spalle un addestramento a questa capacità ed un certo grado di autoconsapevolezza.

Un bambino non ha ancora la capacità di riflettere sulle proprie emozioni o sui propri pensieri, sta costruendo la consapevolezza di avere una mente, ma ancora non è in grado di riferirne su richiesta, la sua mente va inferita.

Un adulto è in grado di riferire che ha pensieri ossessivi che gli tornano continuamente in testa, un bambino molto più raramente lo dirà, se ne ha consapevolezza, inoltre le sue dichiarazioni potrebbero anche non essere un problema per la persona alla quale le racconterà. La madre potrebbe pensare che è un bambino e gli passerà, in fondo è quello che pensano molti adulti dei bambini, i quali essendo in evoluzione forniscono bene la scusa di un prossimo cambiamento.

Ci sono poi sintomi che proprio non disturbano nessuno: avere un amico immaginario e parlargli è considerato spesso solo un gioco. Perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di questo?

Mentre se un bambino ha dei comportamenti provocatori, aggredisce o picchia, oppure va male a scuola e non riesce ad imparare, disturba molto gli adulti di riferimento, i quali ovviamente lo portano da specialisti (oggi, una volta intervenivano con punizioni, ma questo implicherebbe un ragionamento complesso sui sistemi educativi) per delegare a loro l’intervento e la cura.

Così i manuali diagnostici sono precisi sui sintomi comportamentali e sui disturbi dell’apprendimento e molto vaghi o inutilizzabili sui sintomi della sfera emotiva, per quello che riguarda i bambini.

 Un sistema professionale che utilizza una classificazione basata solo su sintomi osservabili  non riesce e non vuole fare ipotesi sulla mente, si limita quindi alla registrazione dei dati del comportamento: infatti nell’ICD 10 grande spazio è dato ai Disturbi della condotta, ai Disturbi dell’apprendimento, ai Disturbi Autistici perché ovviamente sono osservabili anche dall’esterno. Mentre la sfera emozionale è presente solo associata ai disturbi della condotta e rimanda a categorie diagnostiche elaborate per l’adulto, infatti i criteri prevedono ad esempio che l’adulto riferisca  di provare sentimenti di tristezza.

Un sistema professionale che utilizza una classificazione dinamica, basata sulla valutazione complessiva della personalità, come quello psicoanalitico proposto dalla scuola di Ginevra (Palacio Espasa-Dufour cit.), è molto interessato ad inferire il funzionamento della mente del bambino e a capire gli aspetti affettivi, ma è aperto solo ad operatori che abbiano fatto uno specifico percorso sulla teoria e la tecnica psicoanalitica, cioè che condividono un metodo complesso di osservazione. Inoltre rischia di sottovalutare alcuni disturbi specifici dello sviluppo infantile, come quelli del linguaggio o psicomotorio, integrandoli sempre all’interno di una spiegazione psicodinamica.

 Per comprendere la mente di un bambino bisogna prima di tutto sedersi al suo livello, sporcarsi per terra, cercare di capire il mondo dal suo punto di vista.

Dando per scontato che una mente ci sia e facendo ipotesi di funzionamento su di essa, anche comprendendo come funziona la “mente relazionale” nella quale vive: i rapporti con i suoi genitori, l’immagine che loro hanno di lui, come rispondono alle sue richieste, quanto le ritengono importanti. Anzi molti psicologi clinici partirebbero proprio da qui: un bambino arriva sempre accompagnato da qualcuno, la sua domanda, almeno fino ad una certa età, non è mai autonoma, spesso anzi lui non fa alcuna domanda, se non attraverso il linguaggio dei sintomi.

Quindi la comprensione del motivo per cui quel genitore si è preoccupato, proprio in quel momento e per quel sintomo fa parte necessariamente della diagnosi. Ma è ancora più complicato definire in categorie questo tipo di analisi.

Nella prassi psicologico clinica dei servizi è però ovviamente diffuso l’assunto che non si possa comprendere il disturbo del bambino senza considerare le variabili familiari nel quale questo disturbo è inserito: la teoria sistemico relazionale ha senz’altro aperto scenari di comprensione del sintomo e di intervento clinico che prevedono l’insieme delle relazioni familiari come fulcro teorico e tecnico (Bugliolo, Loriedo Famiglie e psicopatologia infantile 2005 Franco Angeli). Però la stessa teoria sistemico relazionale trova una difficile applicazione nei servizi pubblici, perché l’assenza di un sistema categoriale e la necessità di un addestramento complesso e specifico al metodo osservativo che utilizza non è una condizione che renda semplice la sua applicazione da parte di ogni psicologo, a meno che non si sia formato in una scuola di psicoterapia sistemico relazionale.

Ha provato almeno a classificare il tipo di relazione genitore-bambino il gruppo della Classificazione diagnostica 0-3 (National Center for Clinical Infant Programs 1997 Masson), composto da ricercatori dell’infant research (tra i quali Greenspan, Emde, Sameroff, Lieberman) , filone di ricerca che sta cercando di integrare le evidenze della psicologia sperimentale con le teorie dell’attaccamento e le evidenze cliniche delle teorie psicoanalitiche. E’ una sfida complessa, soprattutto nella novità dell’asse II che classifica la qualità della relazione genitore-bambino in alcuni quadri: ipercoinvolgimento, ipocoinvolgimento, relazione ansiosa/tesa, relazione arrabbiata/ostile, disturbo relazionale misto, maltrattamento. Nonostante questo comunque nei servizi pubblici è sicuramente più usata la categorizzazione dell’asse I rispetto a quella dell’asse II delle relazioni.

Insomma credo di aver mostrato perché la classificazione diagnostica in età evolutiva è un problema complesso, ma perché è anche un problema importante?

Ci sono varie risposte, su livelli diversi.

Il primo livello riguarda la politica professionale: la comunità degli psicologi clinici dell’età evolutiva ha bisogno di definire in positivo alcuni criteri condivisi della propria teoria della tecnica, ad esempio il sistema che si usa per comunicarsi le valutazioni. In positivo significa facendo proposte autonome di categorizzazione e non semplicemente definendosi in negativo rispetto ad altre discipline oppure utilizzando sistemi diagnostici che sono stati costruiti per l’età adulta.

Una tale definizione aiuterebbe anche a fare delle proposte per la formazione della categoria, ad esempio quello di una distinzione chiara nella professione tra gli specialisti  in età evolutiva e gli specialisti in età adulta. Si potrebbe proporre una scuola di specializzazione universitaria in psicologia clinica per l’età evolutiva.

Il secondo livello riguarda la politica dei servizi sanitari: il sistema classificatorio può influenzare le proposte organizzative.

Nella regione Toscana dal 2002 viene utilizzato un sistema informativo della salute mentale che raccoglie dati sugli adulti e sui minori. Utilizza le categorie del sistema ICD10.

Sulla base di alcuni dei suoi risultati un coordinamento di neuropsichiatri infantili della SINPIA e di direttori delle UFSMIA (unità funzionali salute mentale infanzia adolescenza),  tra i quali anche psicologi, e delle Unità Operative NPI hanno elaborato delle “Linee di indirizzo per la riorganizzazione delle UFSMIA nella Regione Toscana” (maggio 2005).

E’ un lavoro interessante e complesso, che cerca di dimostrare al potere politico la necessità di lavorare in gruppi multidisciplinari (strada che è intrapresa sulla carta, ma non ancora effettiva in tutte le aziende sanitarie) e indica alcune priorità di intervento.

Nell’analisi epidemiologica vengono presentate delle stime sulla prevalenza dei disturbi e sottolineate le aree carenti di interventi.  Quindi si arriva a due problemi spinosi, le organizzazioni borderline nell’età di latenza e il disturbo dell’attività e dell’attenzione e le considerazioni che fanno gli autori mi sembrano particolarmente interessanti:

 

“Sulle organizzazioni borderline dell’età di latenza si innestano sempre più spesso disturbi psichiatrici gravi e/o ad esordio acuto della preadolescenza e dell’adolescenza, che richiedono specifica competenza specialistica per essere riconosciuti e presi in carico prima di organizzarsi in strutture e condotte stabilmente devianti.”

Eppure la diagnosi di organizzazione borderline in età di latenza non esiste proprio nel sistema ICD 10 né nel DSM IV, che identificano un disturbo di personalità solo dopo i 18 anni. Le considerazioni sulle organizzazioni borderline allora, a differenza di quelle sugli altri disturbi, mancano di qualsiasi supporto epidemiologico, non ci possono essere dati di prevalenza o incidenza e rimangono come indicazioni di principio, tra l’altro non necessariamente condivise dalla totalità dei professionisti del settore.

Possiamo supporre che un assessore regionale alla salute rimanga sicuramente più impressionato dalle tabelle puntuali delle rilevazioni sui disturbi censiti con il sistema ICD 10 e che quindi finanzi progetti, servizi, risorse di personale per  i disturbi per i quali è più verificabile la stima epidemiologica, ad esempio per validare i risultati dei progetti finanziati.

Il secondo esempio:

 “Nel caso del disturbo dell’attività e dell’attenzione la diagnosi differenziale con disturbi del linguaggio e/o dell’apprendimento, disturbi della condotta, ansia e depressione è molto delicata, considerando che gli stessi fattori possono associarsi a, confondersi con, o simulare un ADHD. Poiché il misconoscimento dei casi affetti e la falsa diagnosi producono gravi conseguenze evolutive, la valutazione iniziale richiede una competenza clinica specialistica molto sofisticata fin dal primo approccio,…”

L’interesse sta nel fatto che i criteri del ADHD sono molto discussi dalla stessa comunità scientifica, ma di fatto facilmente utilizzabili da qualsiasi specialista che utilizzi l’ICD10, a meno che non si abbia un atteggiamento critico nei confronti di questa categoria diagnostica.

Quindi le considerazioni degli autori implicano di fatto una presa di distanza dal sistema che usano nella loro prassi, senza poter però proporre un sistema alternativo altrettanto condiviso.

E’ come se esistesse una forte discrepanza tra il livello di complessità che la disciplina ha raggiunto, anche se non ancora codificato in una teoria della tecnica condivisa, e il livello elementare che viene utilizzato per prevedere interventi di politica sanitaria per l’infanzia e l’adolescenza.

L’impressione è che si corra dietro ad emergenze più mass-mediatiche che basate su una analisi dei fenomeni sociali dell’infanzia. In questo tra l’altro la maggiore preoccupazione che creano gli adolescenti in termini di comportamenti a rischio determina maggiori interventi verso questa fascia d’età, mentre  risulta spesso esclusa la fascia dell’infanzia. Basti ad esempio la recente focalizzazione dei media sui fenomeni di bullismo.

Se i servizi pubblici per l’età evolutiva non vogliono andare dietro a queste pseudo emergenze c’è bisogno di far arrivare una analisi più complessa, ma anche facilmente leggibile ai referenti politici delle aziende sanitarie.

Ad esempio io stessa ho continuato a parlare di servizi di psicologia per l’età evolutiva, che così chiamati non credo esistano in nessuna realtà sanitaria regionale.

Esistono le UFSMIA, i Consultori, i Servizi Materno Infantili ed altre varie sigle che identificano aree di intervento sull’infanzia che spesso si sovrappongono.

Una categorizzazione più complessa e accessibile delle difficoltà e dei bisogni della fascia dell’infanzia potrebbe anche servire ad una organizzazione maggiormente funzionale dei servizi.

La discussione di un sistema di classificazione dei disturbi mentali e relazionali dell’infanzia e dell’adolescenza non è sicuramente un percorso facile: necessita della convergenza di interesse dei professionisti, prima di tutto gli psicologi, ma non è detto che non debba poi estendersi alle professioni limitrofe, e dei responsabili anche politici della professione, penso agli Ordini, ai Sindacati, alle Università ed alle Scuole di formazione private.

Queste pagine vorrebbero servire a condividere con altri psicologi la stessa intenzione almeno ad iniziare un percorso comune.