L’alleanza terapeutica in un servizio pubblico per l’infanzia

L’alleanza terapeutica in un servizio pubblico per l’infanzia (*)

di Leonardo Angelini e Deliana Bertani

(*) Apparso su “Pollicino: infanzia e società in Emilia e Romagna, Prim. Est. 1985 (pp. 6 14)

Servizi psichiatrici pubblici e bisogno di psicoterapia

Poiché noi lavoriamo in un servizio pubblico, prima di affrontare i problemi che intercorrono fra terapeuta ed utente nel momento in cui si definiscono i presupposti dell’alleanza terapeutica, ci è sembrato opportuno vedere come mai ad un certo punto del suo divenire storico la società esprima un servizio pubblico, un terapeuta, un utente, come mai, cioè, ad un certo punto nasca nella società il bisogno di psicoterapia ed un servizio pubblico volto a soddisfare questo bisogno.
Tanto più ci sembra opportuno fare una indagine preliminare di questo tipo quando, ed è il nostro caso, l’utente è il bambino il cui bisogno di psi­coterapia è sempre espresso da qualcun altro.
Secondo noi affrontare il problema dell’alleanza terapeutica rinunciando a vedere criticamente il processo storico che ha condotto alla nascita di un determinato bisogno di psicoterapia da una parte e di un altrettanto determinato apparato istituzionale volto a soddisfare questo bisogno dall’al­tra, significa rischiare di ipostatizzare i dispositivi della psichiatria e del­la sessualità che, come ha messo in luce Foucault, sono invece storica­mente fondati e determinati (1).
Cioè a noi pare che il bisogno di psicoterapia — intendendo per psicote­rapia un qualsiasi dispositivo volto a «curare» la psiche — appartenga a quella particolare categoria di bisogni che Marx definiva «bisogni necessari» e che la Heller così descrive: «i bisogni necessari sono i bisogni sorti storicamente e non diretti alla mera sopravvivenza, nei quali l’elemento culturale, quello morale e il costume sono decisivi ed il cui soddisfaci­mento è parte costitutiva della vita «normale» degli uomini appartenenti ad una determinata classe di una data società» (2).

Così il bisogno di psicoterapia (intendendo sempre «psicoterapia» in senso lato) nasce nella nostra società dapprima come esigenza di contenere, disciplinare gli individui al fine di ottenere un’igiene della città (dispositivo psichiatrico), successivamente come esigenza, nel capitalismo maturo, di una integrazione dell’individuo nella società in termini acritici (disposi­tivo della sessualità).
Dice Foucault «Il primo momento corrisponderebbe alla necessità di co­struire una «forza lavoro» (dunque nessuna spesa inutile, nessuno spreco di energia, tutte le forze concentrate solo nel lavoro e ad assicurare la sua riproduzione) — II secondo momento corrisponderebbe all’epoca dello Spätkapitalismus (capitalismo maturo), in cui lo sfruttamento del lavoro salariato non esige le stesse coercizioni violente e fisiche del XIX secolo ed in cui la politica del corpo non richiede più l’eliminazione del sesso o la sua limitazione al solo ruolo riproduttivo, ma passa piuttosto per la sua canalizzazione multiforme nei circuiti controllati dall’economia: una desublimazione arcirepressiva, come si dice» (3). Quindi il dispositivo psichiatrico ed il dispositivo della sessualità trovano la loro origine nelle esigenze di sviluppo della società ed il bisogno di psicoterapia (al di là delle distinzioni fra le singole tecniche psichiatriche e psicoanalitiche) sembra essere una delle forme, storicamente determina­te, che assume nella nostra società, il generale bisogno dell’individuo di ritrovarsi nell’altro quando, per un qualsiasi motivo, è in crisi la sua identità.
Tutta la ricerca etnologica mette bene in evidenza come ogni società esprima proprie modalità, più o meno istituzionalizzate per affrontare le crisi di identità dei propri membri.
Nella società capitalistica questo generale bisogno dell’uomo di ritrovarsi nell’altro (un «altro» che può essere una persona, un gruppo, una divinità, etc.) nei momenti di crisi, si è venuto via via distinguendo (ad es. dalla confessione) e professionalizzando (per cui alle tecniche psichiatriche di tipo contenitivo sono seguite le nuove tecniche psichiatriche e la psicoanalisi) fino a definire quelli che Foucault chiama «i dispositivi».
Si può dire che l’emergere stesso del bisogno di psicoterapia fra le varie classi sociali, i passaggi dal dispositivo psichiatrico e quello della sessualità, cosi come lo stesso ritorno a «dispositivi precapitalistici» (ad esempio, il ricorso alle guaritrici di cui parla Luciana Nora in questo stesso numero della rivista) sembrano essi stessi determinati storicamente.
È certo che la forma che assume il soddisfacimento del bisogno di ritrovar­si nell’altro nelle varie società, e segnatamente nella nostra società, è una forma estraniata (per cui ad esempio in un determinato momento nella nostra società la soddisfazione di questo bisogno è avvenuta sotto la forma della contenzione manicomiale), ma, come dice la Heller, «nell’accezione marxiana l’estraniazione non è una sorta di distorsione radicale dell’essenza del genere o della natura umana: l’essenza dell’uomo si sviluppa entro l’estraniazione stessa e questa pone la possibilità per la realizzazione dell’uomo ricco di bisogni».
Questo, a nostro avviso, implica l’esigenza di una critica al tecnicismo, in quanto che l’atteggiamento tecnicistico implica una posizione di genuflessione astorica nei confronti dei dispositivi psichiatrici e psicoanalitici, ma anche l’esigenza di un atteggiamento di estrema attenzione nei confronti dei dispositivi (e non solo di quelli della nostra società) poiché essi riflettono sempre una possibilità di arricchimento dell’uomo.

Ora, definito così il bisogno di psicoterapia e rimandando alla ricerca di Foucault chi voglia ripercorrere tutta la storia del nascere e del solidificarsi dei dispositivi della psichiatria e della sessualità, nonché l’analisi delle loro funzioni e dei rapporti fra questi e gli altri dispositivi (quello pedagogico, ad es.), a noi preme qui vedere come mai, ad un certo punto, la soddisfazione di questo bisogno avvenga attraverso l’istituzione da parte della società dei servizi pubblici.
Quando Foucault parla dell’esigenza, da parte del capitalismo maturo, di canalizzare la sessualità in circuiti multiformi controllati dall’economia, cioè dell’esigenza di una «desublimazione arcirepressiva» in fondo già da una risposta al nostro quesito.
Infatti per desublimazione repressiva Marcuse intendeva «una situazio­ne sociale in cui il grado di sublimazione socialmente raggiunto è abbassato, la sublimazione degli individui è dissolta sul piano collettivo e la fa­coltà individuale di sublimazione è formata soltanto in maniera rudimen­tale» (4). Ciò implica, secondo Marcuse, una diminuzione delle capacità dell’Io di esercitare una funzione di selezione e di mediazione, cioè la formazione di un Io debole.
Quindi il fine che la società tardocapitalistica intende raggiungere attra­verso il dispositivo della sessualità (potremmo dire attraverso tutte le nuove tecniche psichiatriche, psicoanalitiche, pedagogiche, etc.) è quello di modellare un certo tipo di individuo le cui pulsioni siano state trasformate, attraverso il crollo delle sue difese più adeguate e più mature, in un appa­rato difensivo (la desublimazione repressiva) che ha il fine sociale di crea­re individui con una struttura debole dell’io.
Perciò il processo di crescita, di professionalizzazione e di specializzazione dei servizi pubblici (psichiatrici, pedagogici etc.) appare come una risposta socialmente e storicamente determinata che la società da ad un bisogno, ugualmente determinato sul piano storico e sociale, di psicoterapia (nel senso detto prima).

Quindi il bisogno di psicoterapia non appare a noi come il portato di una moda, ne come un bisogno indotto dalla accresciuta presenza di terapeuti sul mercato privato o nei servizi, ma come un «bisogno necessario», nel senso marxiano del termine, e cioè come un bisogno sorto storicamente, nel quale l’elemento culturale, morale e di costume è decisivo, «ed il cui soddisfacimento è parte costitutiva della vita ‘normale’ degli uomini appartenenti … alla metropoli tardocapitalistica».

Le (nuove) politiche interventiste dello Stato nel campo dell’igiene mentale 

Ma, nel momento in cui ci si pone in questa ottica, sorgono subito alcune domande: intanto attraverso quali strategie lo Stato intende raggiungere i fini che si prefigge con l’istituzione dei servizi pubblici, ed inoltre quali possibilità hanno il terapeuta ed il suo utente di sottrarsi, per quanto è possibile, al mandato dello Stato e di definire un terreno autentico di in­contro fra due soggetti; cioè, parafrasando Lai (5), come è possibile trasformare l’utente in cliente.
Il processo di scientificizzazione e di professionalizzazione della ri­sposta psicoterapeutica «all’ardente desiderio umano» di dare significa­to all’esistenza, cioè di definire la propria identità «in connessione con immagini del mondo e sistemi morali» (6) — lo abbiamo già visto — è una delle strategie che la società tardocapitalistica si da nel tentativo di proteggere l’individuo che lei stessa esprime da quello che Habermas chiama «terrore anomico», cioè dall’incubo di essere sommersi dal disordine, dall’assenza di significato e dalla follia, cioè ancora — come dicevamo prima — dalla paura di non ritrovarsi più.Ma, afferma Habermas, mentre nelle società precapitalistiche esistevano dei «sistemi interpretativi di stabilizzazione del mondo» che permettevano la formazione della persona come unità sia in rapporto al proprio mondo interno, sia in connessione con gli altri uomini e con la natura (anche se ciò avveniva a discapito di una reale autonomia dell’individuo), oggi «le immagini del mondo si sono frantumate in seguito alla separazio­ne delle componenti cognitive da quelle social-integrative».
Cioè prima esisteva la possibilità di definire se stessi in un quadro unita­rio (si pensi alla funzione della religione nel medioevo) che difficilmente permetteva l’emergere dell’individualità così come noi oggi la concepiamo (semmai permetteva l’emergere di un Io di gruppo, di un Io — comunità), ma che consentiva una visione integrata di ogni aspetto della vita in­dividuale e sociale e della stessa lotta contro la natura e per la sopravvivenza.Oggi invece, da una parte, lo sviluppo delle scienze ha permesso il domi­nio dei problemi della sopravvivenza (7), dall’altra, nell’ambito della «con­vivenza sociale», invece la crescente complessità ha creato l’emergere «di una massa di nuove contingenze, senza che sia cresciuta in pari mi­sura la capacità di controllarle» (8).
Cioè oggi «un fabbisogno di interpretazioni che superino le contingenze non esiste più al cospetto della natura, ma esso si rigenera rafforzato a partire dalla sofferenza determinata dai processi incontrollati della so­cietà».
Lo sviluppo delle scienze cioè, mentre permette il dominio della natura, non giunge a definire nuovi sistemi interpretativi di stabilizzazione del mondo, anzi, secondo Habermas, oggi le scienze sociali contribuisco­no a demolire gli ultimi tentativi di giungere a definire una immagine unitaria del mondo.
Per cui lo stato del capitalismo maturo, nel tentativo di proteggere l’individuo dal terrore anomico, nel tentativo cioè di dare una sua risposta al bisogno dell’individuo di ritrovarsi nell’altro nei momenti di crisi, deve prima o poi mettere in atto delle (nuove) politiche interventiste anche nel campo dell’igiene mentale, sbaraccando l’apparato basato sulla contenzione e assumendo «in proprio» le nuove tecniche derivanti dal processo di scientificizzazione della psichiatria.
Il mandato che lo stato del capitalismo maturo assegna ai servizi psichiatrici pubblici è quello di risolvere» il problema della protezione dei suoi cittadini dal pericolo dell’insania derivante dal terrore anomico, all’interno di un quadro di dissoluzione dei sistemi interpretativi unitari del mondo.
Ma così come la contenzione manicomiale era la forma estraniata che as­sumeva il soddisfacimento di questo bisogno nel momento dell’espansione della società capitalistica, allo stesso modo oggi l’estraniazione è pre­sente nei dispositivi che nascono dal processo di scientificizzazione della psichiatria e della psicoanalisi.
Ciò è particolarmente vero in un territorio come quello emiliano in cui una politica di riforme, varata all’inizio del decennio scorso, ha permesso una rapida trasformazione delle forme secondo le quali è soddisfatto il bisogno di psicoterapia.
Ciò non toglie che oggi accanto a queste forme più avanzate di organiz­zazione della risposta psicoterapeutica (dialetticamente correlata alle tra­sformazioni della domanda) vi siano ancora, soprattutto in altre zone del paese, ma anche qui da noi, vecchie risposte corrispondenti a vecchie do­mande di psicoterapia (9).
Si tratta cioè di un processo contraddittorio all’interno del quale lo stato in tutte le sue articolazioni (cioè sia in sede centrale che periferica) non sembra agire in base ad un piano lucido e coerente, ma per successive approssimazioni, continuamente contraddette da un insieme di contro­spinte che hanno influenzato la politica psichiatrica nell’ultimo ventennio, frenando o distorcendo la spinta riformistica.
All’origine di queste controspinte vi sono tutta una serie di fattori che van­no dal persistere di un modello di sviluppo che accentua lo squilibrio territoriale, alla resistenza che le grosse corporazioni (mediche soprattutto) fanno sul piano istituzionale; dalla polemica prevalentemente ideologi­ca, portata avanti soprattutto in sede tecnica da parte delle forze che cre­devano nella scientificità della segregazione e della esclusione fino ad arrivare, oggi, alla polemica, spostata tutta sul piano politico in cui i vari progetti controriformistici (portati avanti da quasi tutte le forze politiche in sede centrale e/o periferica) non sembrano più ammantarsi di una patina scientista, ma paiono piuttosto dei tentativi di ridurre il fenomeno ad un enorme affare di natura amministrativa.
All’interno di questa contraddittorietà e tenendo presente il fatto che vi sono ampie zone il cui mandato tende ad essere ridotto oggi ad una mansione puramente amministrativa, è importante per noi definire la natura del mandato nelle zone, come la nostra, più influenzate dalla riforma. In queste zone il mandato si risolve nella disponibilità da parte del terapeuta a contribuire nell’opera, che tutto l’apparato istituzionale dello stato qui mette in atto, di arginamento della crisi di legittimazione che lo stato stesso ha nei confronti dei cittadini (si pensi a ciò che da noi ci si aspetta sul piano dei nostri rapporti con la scuola), e di affinamento delle capacità selettive delle istituzioni politiche (10), cioè della capacità di predeterminare, fra tutte le possibilità teoriche che si verifichino degli eventi, quelle che sono compatibili con la struttura di dominio (si pensi a quello che ci si aspetta da noi a livello della pianificazione dell’educazione in particolare al livello della pianificazione del curriculum).
Cioè il mandato è quello di contribuire, all’interno del proprio ambito tec­nico, ad ottenere il consenso tramite quella che Offe chiama «obbedienza barattata», e cioè una politica sociale tendente a creare un aumento dei servizi in cambio di una diminuzione dei conflitti (ciò per tentare di ar­ginare la crisi di legittimazione dello stato), e per mezzo di un’opera di selezione”, intesa some «restrizione non casuale del ventaglio delle possibili­tà» che; nel caso della psichiatria, consiste nel definire i contorni di un «soggetto» accettabile dalla società e, in negativo, i contorni di un possibile, utente, del servizio che, perché diventi «soggetto» deve sottoporsi a determinate procedure terapeutiche.
Queste le strategie che sono implicite nel mandato che lo stato tardocapitalistico tende ad assegnare al terapeuta operante nei servizi pubblici. Ma, come afferma Habermas, nella misura in cui la psicoanalisi (e più in -generale la «psichiatria critica») si pongono sul piano di una «autorifles­sione» (11) sciolgono «il soggetto dalla dipendenza dai poteri ipostatizzati» poiché riescono, attraverso l’autoriflessione ed attraverso una critica dell’ideologia, a distinguere le proposizioni teoriche che formulano «regolarità invariabili dell’agire sociale» da quelle che invece producono «rap­porti di dipendenza ideologicamente irrigiditi, ma, almeno in linea di prin­cipio, modificabili».
Cioè, proprio come dicevamo all’inizio, la psichiatria e la psicanalisi riescono a porsi in una prospettiva critica solo se rinunciano a vedere in termini ipostatizzati i dispositivi che la società tende ad assegnare loro ed anzi se li sottopongono ad una continua critica tanto più quando essi si presentano come un corpus da ridefinire all’interno di un quadro sociale ed economico nuovo e di fronte a nuove classi sociali che per la prima volta, attraverso i servizi pubblici, accedono a questo tipo di soddisfacimento dei loro bisogni.

Un terreno di incontro fra terapeuta ed utente

Una volta definita la funzione che i servizi psichiatrici pubblici svolgono in rapporto ad un «bisogno necessario» storicamente e socialmente determinato, cercheremo ora di vedere come è possibile «eludere» (sappiamo che eludere del tutto è impossibile) il mandato che lo Stato assegna al te­rapeuta e definire un terreno di incontro fra terapeuta ed utente.
In proposito ci sembra innanzitutto necessario, per sgombrare il campo da possibili malintesi, definire cosa intendiamo per alleanza terapeutica, quale è l’oggetto di quello che andremo dicendo. Non è nelle nostre intenzioni entrare nel merito del concetto di «traslazione vera e propria», ma prendere in esame qual è l’aspetto della relazione terapeuta – utente, che potremmo chiamare accordo per la cura, accordo ope­rativo, accordo terapeutico. Ci preme cioè parlare di ciò che avviene nel rapporto fra due persone in un incontro non occasionale, professionale, finalizzato a uno scopo, in un luogo a ciò preposto. Perché si realizzi la situazione di incontro non occasionale, professionale,
finalizzato ad uno scopo, in un luogo preposto, perché si possano fare le premesse per quella che abbiamo definito alleanza terapeutica, è necessa­rio sgombrare il campo da una serie di problemi e ambiguità.
Ovviamente ci occuperemo dei problemi, delle ambiguità e degli incidenti di percorso in cui ci si imbatte in un servizio pubblico, questa è la nostra collocazione lavorativa, questo è il nostro terreno di esperienza e di rifles­sione.
Siamo convinti che anche il «privato» abbia i suoi problemi e i suoi «accidenti» di cui tenere conto; molti sono comuni, alcuni sono diversi, certo è che il rischio di oggettivare l’altro (l’utente), di manipolarlo, di incentivare anziché annullare l’asimmetria del rapporto è sempre pre­sente sia nel pubblico che nel privato.
Nella letteratura psichiatrica e soprattutto psicoanalitica quando si parla di alleanza terapeutica, nell’accezione di cui si diceva all’inizio, si intende più o meno quell’accordo basato sulla capacità, sul desiderio conscio o in­conscio del paziente di cooperare e sulla sua disponibilità ad accettare l’aiuto del terapeuta per superare le proprie difficoltà. Crediamo che non si debba dare per scontato nemmeno la «capacità», il «desiderio», la possibilità di cooperare del terapeuta.
Per l’operatore terapeuta del servizio pubblico c’è il pericolo di ritrovarsi e quindi proporsi non come soggetto critico che fa un certo mestiere e ha determinate valenze, ma, come dicevamo prima, come «funzionario» di un’istituzione. Questo è un problema che si deve affrontare ancora prima o comunque contemporaneamente al farsi strada nell’intricata selva del proprio mondo interno, al mettersi in contatto con i propri conflitti, le difese, i desideri di onnipotenza e le proprie velleità terapeutiche.
L’operatore terapeuta del servizio pubblico oltre che lavorare alla formazio­ne e alla stabilizzazione della sua identità professionale, deve parallelamente andare avanti nella storicizzazione del suo ruolo tecnico, cioè nella comprensione dei mandati che l’istituzione cui appartiene gli da, direttamente o indirettamente, attraverso le richieste dell’utenza stessa.
Facciamo un esempio: l’anno scorso fummo invitati ad un consiglio di istituto in una scuola media. C’erano gli insegnanti, i rappresentanti dei genitori, due operatori dell’equipe di neuropsichiatria infantile della zona. In questo incontro erano evidenti le diffidenze, le attese nei confronti del servizio e ci vennero buttati addosso tutta una serie di gravi problemi: la paura della droga, il bisogno di molte strutture pomeridiane di incontro per adolescenti, l’assenza di molte famiglie nel processo educativo, il disadattamento scolastico e sociale di un numero enorme di ragazzini. La Preside ci disse: «Abbiamo fatto le riunioni dei consigli di classe e ci sono 15 ra­gazzi che hanno bisogno dell’intervento dell’USL. Hanno un livello di ap­prendimento nullo, le famiglie non possono seguirli, noi non abbiamo gli strumenti per intervenire, questi ragazzi ci creano grossi problemi a livello di comportamento, siamo preoccupati». Si tratta di un grosso problema, molto diffuso. Non è semplice, in un contesto simile, venir fuori come interlocutori terapeuti. La richiesta era di aiuto ma da parte di chi, a chi, e per che cosa?
Non era chiaro ne che noi eravamo gli interlocutori (l’USL deve interveni­re), ne chi fossero i nostri interlocutori (la preside, gli insegnanti, le fami­glie, questi 15 ragazzi).
Era una richiesta che non si sapeva se sarebbe stata collocabile in un con­testo preciso e in una relazione definita. Abbiamo risposto: «Ci rendiamo conto che è un grave problema, condividiamo la vostra preoccupazione, telefonateci, ci vediamo fra qualche giorno per discutere cosa è possibile fare».
Non era un modo per prendere tempo ma per costituirci come interlo­cutori reali, disposti a considerare e a raccogliere un problema (noi come persone in carne ed ossa, non l’USL) per identificare l’altro interlo­cutore se ci fosse stato e quindi un modo per rendere possibile un incontro tra due persone reali. L’identificazione con l’istituzione.
Avremmo potuto rispondere dicendo più o meno che la colpa di questa situazione era della scuola, della sua natura classista, dei suoi strumenti di selezione, della sua organizzazione funzionale al pote­re costituito. Avremmo potuto tentare di mettere in piedi un dopo­scuola o cercare di ottenere una scuola a tempo pieno, avremmo po­tuto elaborare documenti ed analisi sulla situazione delle bocciatu­re o altre cose simili. Un’altra possibilità poteva essere quella di «vi­sitare» i ragazzini segnalati nell’ambulatorio medico della scuola o nei nostri locali, convocare la famiglia e, qualora non si presentasse­ro, inviare l’assistente sociale a casa per rendersi conto della situazione.
Ambedue queste risposte, anche se apparentemente molto diverse, hanno la stessa matrice: l’identificazione con l’istituzione, interprete ed anticipatrice dei bisogni della gente, con un’immagine idealizzata di cui l’operatore si sente rappresentante e paladino e, nel secondo caso, con un ente che da un altro viene sollecitato a svolgere il suo mandato di controllare se ci sono e dove sono le deviazioni dalle regole, perché avvengono, cosa è possibile fare perché ciò non succeda.
In ogni caso, in ambedue le situazioni avremmo trasformato il soggetto che ha bisogno di aiuto in bersaglio di intervento, fermo restando che una scelta siffatta del soggetto sarebbe stata come minimo molto arbitraria. Trasformare l’utente in cliente ed il funzionario in terapeuta… Ci siamo fermati al primo atto della nostra risposta per mettere in evidenza ciò che si diceva più sopra e cioè che per mantenere la propria potenzialità terapeutica il primo passo è quello di «ripescare» nelle situazioni la pro­pria soggettività, elemento senza il quale è poi impossibile procedere alla costruzione del rapporto. Per potere trasformare l’utente in cliente (sempre parafrasando LAI), o per poter individuare il cliente stesso, è preliminare per l’operatore «ripescare» (ri-pescare = tutte le volte tirare fuori) se stesso come interlocutore capace di rapportarsi con altri interlocutori, se ci sono, o almeno in grado di porre le condizioni perché altri, se vogliono, possano manifestarsi come interlocutori essi stessi. L’identificazione o la fusione o la confusione con l’istituzione o con i suoi mandati infatti è una delle componenti che contribuisce a perpetuare l’asimmetricità dell’eventuale rapporto che si va a costruire, e a bloccare l’altro nella posizione di oggetto di cura. Io operatore sto con tè perché sono delegato, per il mestiere che faccio, ad occuparmi di tè o, ancor peggio, a contenere i tuoi bisogni o a porre un qualche riparo sia alle crepe che i tuoi bisogni producono, sia all’esclusio­ne che di fronte alla tua posizione di diverso o di bisognoso la società ha messo in atto. Questo esclude la possibilità di fare un contratto fra l’operatore ed il cliente, contratto che è il punto di partenza della reciprocità e quindi del superamento della asimmetricità. Essere nel nostro campo di lavoro «funzionari», come si diceva all’inizio, significa adottare una mentalità, una condotta «assistenziale» e rinunciare a una condotta e a una mentalità terapeutica: l’utente non è in grado di decidere, ne sa quello che deve fare, sono io che glielo debbo dire, che glielo debbo insegnare.

Un terreno di incontro fra terapeuta ed utente in un servizio di neuropsichiatria infantile

Il nostro è un servizio di neuropsichiatria infantile, è chiaro che nessun bambino viene spontaneamente da noi, c’è sempre un adulto che l’accompagna o viene per lui o lo segnala e comunque c’è una complessa e fitta rete di dinamiche relazionali che il bambino si porta con sé, tutta una serie di influenze, un incrocio di responsabilità di cui tener conto in un discorso di alleanza terapeutica.
Cosa che non si fa se ci si attiene a un modello di intervento centrato sul disturbo, modello il cui scopo è quello di individuare i disturbi localizzabili, diagnosticarli, programmare ima terapia conseguente. Questo comporta la separazione del disturbo (di cui l’operatore si occupa) dal bambino che ha il disturbo e anche la separazione fra operatore – sue proprie tecniche – bambino (12).Ci sono una serie di fattori che spingono l’operatore in questo senso, fattori esterni: il desiderio di scaricare su di lui qualcosa di disturbante, il delegare, l’aspettativa magica di una soluzione miracolosa; e fattori interni: le tentazioni di onnipotenza, la paura di mettersi in gioco come sogget­to, la confusione con l’altro, la scelta di fare per sfuggire all’angoscia del sentire, la voglia di dimostrarsi bravi: «tu insegnante hai fallito, tu genitore non sei capace, adesso ci penso io».
È molto facile per chi si occupa di bambini accettare il ruolo di essere colui che sa, che detta le norme cui ci si deve attenere, ed è molto facile mettersi nei panni di difensore e paladino del bambino, di colui che lo difende dai genitori, dagli insegnanti, dai nonni, che sa quello che è giusto per lui. Ed è questo un altro mandato che la società ci dà. Se c’è un problema ci deve essere un colpevole, nostro compito è di trovarlo e rimetterlo sulla giusta strada giocando sui suoi sensi di colpa. È in nome del bambi­no che ci alleeremo a seconda delle nostre propensioni personali o delle nostre ideologie con la madre o con il padre o con l’insegnante, o con l’al­tro operatore che sta portando avanti un progetto riabilitativo, con il vicino di casa che ha segnalato l’incuria, con il pediatra che non sa più come di­fendersi dall’ansia della madre eco. ecc.
E allora il problema è di riportare alla luce i soggetti che determinano la fitta rete di dinamiche che si intrecciano intorno al bambino o comunque creare le condizioni perché questi soggetti possano, «se ne hanno voglia» e ne hanno la possibilità sul piano delle loro esperienze con­crete, diventare interlocutori, come si diceva prima.
Vorremmo fare un altro esempio. Il direttore di una scuola elementare ci telefona dicendo che la tal insegnante vorrebbe segnalare il tal alunno per­ché non impara a leggere e scrivere. Ne ha parlato con la famiglia che è d’accordo che lo psicologo veda il bambino. Chi è l’interlocutore dello psicologo? Il bambino, l’insegnante, i genitori, il direttore?
Anche questa richiesta, frequentissima peraltro, è ricca di trabocchetti. Avere presente che per svolgere un lavoro terapeutico bisogna creare un incontro tra due interlocutori, cioè fra due soggetti che vogliono parlarsi, ascoltarsi, collaborare, almeno potenzialmente crediamo sia una bussola che ci può orientare.
Fare emergere quindi i due soggetti, i poli dell’incontro, crediamo sia la prima mossa.
Alla richiesta del direttore abbiamo risposto che desideravamo che l’inse­gnante si mettesse in contatto con noi per discutere della questione e per vedere cosa fare.
Anche in questo caso non è stata una maniera per prendere tempo. Non potevamo accettare che una richiesta così delicata ci venisse fatta da un interlocutore, anzi in questo caso da due (genitori, insegnanti) che rimanevano nell’anonimato. Sarebbe stato molto ambiguo e soprattutto, a nostro giudizio, inficiante di futuri rapporti dirigersi subito verso il bambino o verso la famiglia quando il problema ci era stato posto da un altro polo di quella rete di fitti rapporti, di cui parlavamo prima, che si in­trecciano intorno al bambino stesso, polo peraltro rimasto dietro le quinte. Sarebbe stato un passaggio di problema da ente a un altro ente, da funzionario ad altro funzionario.
In quell’occasione l’insegnante ci telefonò, ci si vide, si discusse il proble­ma, cercando di definirlo in questo modo: il tal bambino non riesce a imparare a leggere e scrivere in un certo rapporto con l’insegnante nel tal contesto di classe composto da altri bambini. Secondo la nostra intenzione questo significava che tra il bambino e l’in segnante e gli altri bambini accade qualcosa che non dipende né da uno né dall’altro, né dall’altro ancora presi singolarmente e sommati ma che emerge dal loro stare insieme, cioè dalla loro relazione nata per uno scopo (cioè l’imparare a leggere e scrivere).
Il secondo passo era quello di far emergere l’altro soggetto, cioè i genitori. «Se i genitori hanno intenzione, se sono preoccupati di ciò che succede, se vogliono possono rivolgersi direttamente a noi», è stato detto all’inse­gnante. Anche in questo modo siamo consapevoli che non si sgombra del tutto il terreno da eventuali forzature.
Comunque il rivolgersi direttamente implica un atto attivo e non più una delega fatta anche per «soggezione» alla scuola o al nostro servizio. Vennero anche i genitori. Se questo non fosse accaduto non avremmo vi­sto il bambino. Avremmo però potuto lavorare con l’insegnante nella prospettiva in cui si diceva sopra, ben diversa a nostro parere da quella: “il tal bambino non impara a leggere e scrivere’. Nessun oggetto di cura ma un interlocutore (l’insegnante) con il quale creare una collaborazione. Se nessuno si fosse presentato, né l’inse­gnante, né i genitori, la cosa non sarebbe andata avanti. Avremmo rispettato il diritto degli altri a non esserci, non essendoci a no­stra volta. E questo può essere difficile, sia per un nostro bisogno di dimo­strarci, sia per le pressioni e le seduzioni che possono essere esercitate su di noi perché si sia presenti in un determinato modo. Tutto quello che abbiamo detto a maggior ragione crediamo debba valere per un servizio che si occupa dell’infanzia. Il bambino si sviluppa e diventa grande attraverso continui movimenti di cambiamento. In ogni processo evolutivo esistono un’infinità di momenti critici legati all’interno del bambino stesso e all’esterno, nella famiglia, nell’ambiente in generale in cui cresce.
Detto questo risulta che molto spesso il bambino o la famiglia ha bisogno di aiuto, non tanto per risolvere una patologia, ma per superare la crisi. Se l’intervento viene fatto sul sintomo, scotomizzandolo dalle persone, il rischio è di aggravarlo o ancor peggio di rendere patologico qualcosa che è sì in crisi, ma nell’ambito della normalità. Si rischia cioè non di aiutare a comprendere ma di determinare, ritagliando e definendo, la malattia bersaglio di intervento.
Ultima cosa che ci preme dire e che discende da tutto ciò che abbiamo tentato di delineare fino ad ora, è che se si imposta il lavoro come incontro teso alla collaborazione fra due soggetti, l’atteggiamento dell’operatore che vuole essere terapeuta, non può che essere «non direttivo». Basato cioè sull’assunto che il soggetto abbia il diritto di scegliere le mete della propria vita, anche se queste possono essere diverse da quelle che l’operatore avrebbe scelto.
È possibile ad esempio per una ortofonista, per un fisioterapista, per un in­segnante assumere questo atteggiamento? La capacità terapeutica non è alternativa all’uso delle tecniche. Si può adempiere ai propri compiti specifici tenendo conto che prima di tutto si è soggetti, e tenendo conto che ci si muove prima di tutto nell’am­bito di relazioni che condizionano pesantemente in un modo o nell’altro l’andamento e il risultato dei nostri compiti tecnici. Il recupero della di­mensione di soggetto non è sempre agevole, sia per la preferenza cultural­mente accordata ad altri tipi di dimensioni (funzionario, esperto cui dele­gare), sia per il costo personale che comporta il mettersi in relazione (ci muoviamo nell’ambito di persone che soffrono), sia per le difficoltà a farci riconoscere come operatori – terapeuti e non come operatori «addetti a», fa­centi questo o quello, agenti efficienti di questo o quest’altro servizio.

Note

(1) Vedi M. Foucault «Storia della follia» Rizzoli ed. per quanto riguarda la storia del dispositivo psichiatrico; M. Fou­cault «La volontà di sapere» Feltrinelli ed. per la storia del dispositivo della sessualità.
(2) A. Heller «La teoria dei bisogni in Marx» Feltrinelli Ed.
(3) M. Foucault «La volontà di sapere» Feltrinelli ed.
(4) Cit. in R. Reiche «Sessualità e lotta di classe» Laterza ed.
(5) G.P. Lai «Le parole del primo colloquio» Boringhieri ed.
(6) J. Habermas «La crisi della raziona­lità nel capitalismo maturo» Laterza ed.
(7)Mentre, come afferma Habermas, le grandi culture dell’antichità dovevano compensare con la creazione di con­tenuti mitici la mancanza di dominio reale sulla natura.
(8) In proposito vedi anche «Presenza ed Identità. Lezioni di psicologia» G. Jervis Garzanti ed.
(9) Sulla specificità emiliana contiamo di ospitare dei contributi nei prossimi numeri della rivista.
(10) C. Offe «Lo stato nel capitalismo maturo» Etas libri
(11) J. Habermas «Teoria e prassi nella società tecnologica» Laterza ed.
(12) G.P. Lai «Gruppi di apprendimento» Boringhieri ed.