L’ombra oscura : come vedono i nostri occhi la depressione, oggi

di Fabrizio Rizzi
Corso SIPSOT (Società Italiana Psicologia Ospedaliera e Territoriale), Ascoli Piceno – 23 maggio 2003

Dal nostro lessico quotidiano stanno ormai sparendo molte parole. Recenti studi infatti hanno verificato come in Italia i giovani tra i 20 ed i 25 anni conoscano con sufficiente precisione circa 650 termini, mentre nel 1977 la cifra si avvicinava a 1200 vocaboli.
Tra queste parole in via di estinzione ce n’è una che interessa particolarmente noi psicologi ed è “tristezza”. Ma ancor più all’appello latitano sinonimi quali “malinconia”, “mestizia”, “afflizione”,“struggimento”. Tutto questo oggi viene assorbito e fagocitato da un termine che dappertutto si espande e tutto onnicomprende : depressione. Tanto è vero che in giro non si sente quasi più dire “sono triste” ma semmai “sono depresso”, in una sorta di “reductio ad unum” in cui questo termine (di natura ed origine strettamente psicodiagnostica) s’è talmente dilatato da assorbire quasi tutti gli altri, come se fosse in corso una sorta di strage della significazione semantica. E poiché – sopratutto in una relazione comunicativa qual è il colloquio ed il colloquio clinico psicologico in particolare – gli affetti in qualche modo sono le parole stesse che li significano e li descrivono, ecco che questi stessi affetti sembrano nascondersi e latitare, fino quasi a scomparire. Se chi ci parla non sa differenziare e dare un nome specifico ai precisi e diversi affetti della sua anima, i suoi stessi vissuti saranno poco o nulla comunicabili, dispersi ed annullati dentro un termine che dice tutto e, proprio per questo, in realtà rischia di non dire niente. Usato in questo modo, la parola depressione è solo una specie d’erba gramigna che infesta quel campo pieno di piante e fiori che è la vita emozionale, soffocando tutto con la sua invasione livellatrice.
La depressione dilatata e dilagante.

Oltre alla moltiplicazione della parola “depressione”, si assiste anche ad una moltiplicazione degli aggettivi qualificativi posti accanto a questo termine. Nei miei 25 anni di lavoro, ad esempio, ho spesso sentito parlare di depressione mascherata, latente, bianca. Ma ultimamente, in una rivista d’attualità, ho trovato un altro sinonimo ancora : “depressione sotto soglia”. Incuriosito, ho letto con interesse tutto l’articolo. Ne riporto un breve estratto, dove viene intervistato l’ esperto :
D : Che cosa è esattamente la depressione “sotto soglia”?R : Se ne parla quando i sintomi ed i segni psicopatologici non rientrano pienamente per caratteristiche od intensità, nelle classificazioni delle categorie psichiatriche. Tuttavia sono presenti e capaci di determinare un significativo quadro di sofferenza e disabilità nell’affrontare le più comuni circostanze della vita quotidiana. La depressione sotto soglia non è facilmente diagnosticabile. Spesso i pazienti dicono di sentirsi svogliati od esauriti. Ma tali espressioni comprendono e celano una moltitudine di malesseri, che gli stessi interessati non riescono a spiegare.
Tale definizione – a mio avviso – illustra chiaramente questo effetto di “dilatazione” che il termine diagnostico di depressione sta avendo attualmente. E’ chiaro quanto essa sia ben oltre i criteri diagnostici descritti sia dal DSM IV che dal precedente DSM III. Quanto descritto qui sopra fa rimpiangere il buon vecchio termine di “esaurimento nervoso”, che era anch’esso un pass par tout buono per mille usi. Ma che almeno non provocava quella prescrizione psicofarmacologica pervasiva cui si assiste oggigiorno. Credo infatti che sia principalmente questo lo scopo di tale allargamento (clinicamente ingiustificabile) dello spettro sintomatico depressivo, in particolare in relazione alla prescrizione dei farmaci SSRI, gli inibitori della ricaptazione della serotonina il cui capostipite è stato il famoso Prozac. Come assai nota anche al pubblico non specialistico è la terminologia relativa ai neurotrasmettitori, quale appunto la serotonina. E’poi interessante notare – sempre leggendo la stampa non scientifica – come vengono riportati dati statistici sull’incidenza della depressione. Recentemente su un quotidiano nazionale è apparso un articolo dove si diceva che il consumo di psicofarmaci in generale (non solo quindi di antidepressivi) sarebbe aumentato del 60% negli ultimi quattro anni, che il 53% degli Italiani soffre di un qualche disturbo psichico e di questi il 34% a sfondo depressivo (il che porterebbe ad una cifra di oltre 9 milioni di depressi!). Spesso questi dati sono però poco chiari, contradditori o non ben specificati in rapporto a quali ambiti di riferimento. I dati ufficiali della Federfarma citati da un altro quotidiano nazionale l’ 11 aprile 2003 indicano comunque in 26.789.000 le confezioni di psicofarmaci vendute nell’anno 2002 in Italia, con un consumo concentrato sopratutto nelle aree urbane maggiori e nel centro-nord, dove è pari al doppio della media nazionale a fronte di altre regioni (come Campania e Puglia) che invece sono sotto la metà. L’articolo del quotidiano conclude citando il parere di uno psichiatra secondo cui tale differenza sarebbe probabilmente dovuta anche ad una diversa attenzione alla diagnosi da parte degli psichiatri e dei medici di base nelle varie regioni.Questa ipotesi appare sia verosimile che ambigua (domanda : chi è il medico più attento alla diagnosi? chi prescrive di più o chi prescrive di meno?) ; ma comunque non tiene in conto gli aspetti sociali e culturali, della qualità della vita in ambienti diversi tra loro.
Un altro quotidiano, pochi giorni prima, riportava una indagine epidemiologica compiuta nell’ ASL 20 di Verona e poi ripresa anche da una rivista mensile a carattere nazionale. I dati erano i seguenti : la vendita di antidepressivi è passata da 10,5 milioni nel 1998 a 17 milioni di confezioni nel 2001 : il che conferma quell’aumento del 60% già altrove citato. La responsabile della ricerca, intervistata, diceva “C’è da dire che da parte della case farmaceutiche negli ultimi due anni è stata condotta una forte operazione di marketing che può aver indotto i medici ad una eccessiva medicalizzazione del fenomeno depressivo”. Secondo poi la ricerca fatta dal mensile su un campione di oltre mille persone, risulta che tra coloro che utilizzano gli psicofarmaci uno su tre lo fa perché lo ha prescritto il suo medico di base. Il 20% si rivolge alle pillole perché lo ritiene l’unico modo per combattere il malessere. Il 16% è spinto dalla paura di soffrire troppo ed il 7% lo usa come supporto alla psicoterapia.A onore del vero ed a onore di alcune riviste, bisogna anche dire che talvolta compare qualche articolo più critico e realistico in merito al mercato farmacologico. Recentemente ne ho letto uno in cui si citava il British Medical Journal, a proposito del cosiddetto “disease mongering”, concetto traducibile come “mercato della malattia”. La prestigiosa rivista medica inglese citava il fenomeno della diagnosi di “disfunzione sessuale femminile” termine-contenitore che raggrupperebbe deficit di desiderio, eccitazione ed orgasmo, nonché dolore associato al rapporto sessuale. Ed inventata appositamente per il lancio del cosiddetto “Viagra femminile”. Con riferimento all’Italia, nell’articolo si citava il fenomeno locale del boom della calcitonina spray, sostanza usata negli anni ’90, presentata come panacea per l’osteoporosi e la cui efficacia s’è poi rivelata praticamente nulla. La rivista ricordava anche come, dopo lo scandalo Poggiolini, il prontuario farmaceutico Italiano nel 1994 venne “ripulito” di farmaci rimborsabili di efficacia discutibile o nulla per un valore complessivo di 4000 miliardi di lire. L’articolo così conclude :
“Più di recente, i casi eclatanti si sono concentrati in area psichiatrica, dove manca una precisa nosologia ed è facile trasformare il generico malessere in patologia. Il Washington Post, due anni fa, accusava la multinazionale Glaxo- SmithKline di avere montato o perlomeno esagerato un disturbo psichiatrico noto come fobia sociale.” Nel mio romanzo “Non c’è ombra che sia più oscura” alla protagonista viene, appunto, diagnosticata una fobia sociale con associata depressione reattiva. Nella storia non v’è un rifiuto attivo ed aprioristico dello psicofarmaco, ma un suo graduale superamento nel senso di un lento e faticoso passaggio dal sintomo al significato che sta dietro ad esso, nella vita di questa donna. Dico ciò per precisare, giacché si parla di fobie e pseudomalattie, che voglio evitare la “psicofarmacofobia”. Non demonizzo i farmaci, che anzi sembrano essere spesso utili nelle gravi forme di depressione cosiddetta “maggiore”. Vorrei anzi che noi psicologi ci specializzassimo di più sulle dinamiche sottostanti alla prescrizione psicofarmacologica e – perché no – anche farmacologica in genere. Sarebbe importante che lo psicologo clinico studiasse con cura, in ogni paziente, il significato profondo e le fantasie (buone, cattive, più spesso ambivalenti) che egli associa al farmaco in sé ed al medico che glie lo prescrive. Saremmo di gran aiuto ai medici stessi, oltre che ai pazienti, perché ogni prescrizione farmacologia (anche quella d’una pomata dermatologica) sottostà ai meccanismi della comunicazione, della relazione e delle fantasie inerenti all’essere presi in cura da un lato ed al curare dall’altro.Oggi in medicina gli studi sulla compliance sono ancora troppo poveri del contributo psicologico. Uno studio italiano recente, quello della collega Bisiacchi e collaboratori (L’aderenza del paziente alle cure : primi dati di una ricerca longitudinale) condotto in ottica cognitivista ha – tra le altre cose – confermato il dato già ben presente in letteratura per cui i pazienti più assistiti dai curanti sono anche quelli con la maggior compliance, a conferma che è la qualità e l’impegno nella relazione che fa la principale differenza. La compliance è definita come l’adeguarsi ed il collaborare, da parte del paziente, alle prescrizioni date dal medico. Un concetto – a mio modo di vedere – piuttosto povero e rudimentale, tutto concentrato com’è su una sorta di concezione “obbediente” e passiva della relazione curante/curato. Sovrapponibile, tra l’altro, al termine psicologico di “compiacenza” studiato dagli psicologi dell’età evolutiva a proposito della relazione tra il bambino ed i genitori.Una concezione che ignora e bypassa del tutto l’osservazione della relazione terapeutica, in cui anche le più recenti norme relative al “consenso informato” hanno solo spostato il discorso su un piano che a me pare meramente legale e non di comprensione. Non conosco (forse esistono, ma in tal caso non vengono fatti conoscere) studi sull’incidenza tra ansia del medico stesso e la sua tendenza a prescrivere farmaci in qualità e quantità rilevante. Credo però che tutti abbiamo avuto, almeno una volta nel nostro lavoro, il dubbio che quella certa medicina sia stata prescritta più per sedare l’ansia del medico (nel caso dell’ansiolitico) o il suo senso di impotenza (nel caso dell’anidepressivo) che non quello del paziente.Inoltre dobbiamo fare attenzione a dei luoghi comuni clinici scientificamente mai dimostrati. Poco fa ho citato l’importanza degli antidepressivi nella cura delle depressioni maggiori. Ed oggi sempre più spesso si sente parlare della necessaria combinazione psicofarmaci + psicoterapia, al punto che nel servizio di psicologia dell’ASL dove io lavoro, arrivano sempre più pazienti mandati dal medico di base con questa specificazione : quella di aggiungere il mio intervento a quello farmacologico già in atto per garantire una sinergia efficace. Ma è proprio così che stanno le cose?Nel suo bel libro “La mente inviolata”(ed. Cortina 2001)  l’americano John Horgan così scrive :
“L’idea che la psicoterapia unita ai farmaci possa essere più efficace dei farmaci (e viceversa) non è stata confermata empiricamente. Anzi, è stata indebolita da una inchiesta su larga scala condotta nel 1995 da Consumer Reports, una rivista pubblicata dall’Associazione senza scopo di lucro Consumers Union” L’autore poi cita anche uno dei più rigorosi studi sulla depressione, il Treatment of Depression Collaborative Researche Program, avviato dal National Institute of Mental Health (NIHM) verso la fine degli anni 70. Lo studio coinvolse 239 pazienti depressi trattati per sedici settimane in tre diversi ospedali con 4 diversi metodi : a) terapia cognitivo-comportamentale; 2) terapia interpersonale ; 3) un antidepressivo triciclico (imipramina) ; 4) placebo e controllo clinico.Il risultato fu che nessuno dei quattro metodi risultò significativamente e nettamente migliore (o peggiore degli altri). In tutti e quattro i trattamenti si manifestarono miglioramenti importanti durante e dopo il trattamento. Solo il 24% dei pazienti però guarì dalla depressione al punto da mantenere uno stato di benessere nei 18 mesi successivi alla conclusione della terapia ed erano distribuiti in modo sostanzialmente omogeneo fra tutti e quattro i diversi gruppi.
Voglio poi sottolineare un aspetto concettuale molto importante, riferibile sempre a questa concezione dilatata e dilagante della depressione e che appare evidente in quell’articolo sulla depressione “sotto soglia”. Si tratta di una scotomizzazione tanto evidente quanto sconcertante : non viene quasi mai ipotizzato un qualche potenziale ruolo patogeno nell’ambiente in cui si trova la persona depressa, se non in termini estremi e vicini alla persecutorietà (come avviene nelle situazioni ora comunemente chiamate di “mobbing”). Di solito l’accento viene posto sull’individuo, che non è in grado di affrontare un ambiente sottointeso come normale. Il “difetto”, chiamiamolo così, è nell’individuo. Questo approccio, evidentemente, segna la sua origine concettuale in una medicina strettamente biologica, concentrata solo sul corpo individuale e sui suoi meccanismi interni. Ciò che trovo francamente deprimente (uso il termine tanto per stare in tema) ma anche e soprattutto pericoloso è la tendenza odierna di alcuni psicologi ad adottare questo stesso approccio in modo acritico, sulla spinta di un progresso delle cosiddette neuroscienze che – come hanno dimostrato Horgan ed altri – appare in realtà molto più sbandierato che reale.Vale la pena allora tornare allo studio più strettamente psicologico degli affetti depressivi.

La concezione psicodinamica della depressione.

In generale, storicamente parlando, sono stati proprio gli psicologi a cercare di superare la mera descrizione dei sintomi per tentare una comprensione psicodinamica della depressione. Viene in mente a tutti, ovviamente, la psicoanalisi (che è l’indirizzo a cui io faccio riferimento) anche se certamente il suo non è il solo contributo. Per non andare troppo oltre il tema della mia relazione, accennerò agli aspetti fondamentali della comprensione psicoanalitica della depressione in modo estremamente sintetico e scusandomi per la necessaria superficialità.
A mio parere, un aspetto fondamentale dell’approccio psicoanalitico è quello di considerare la depressione non tanto come entità nosografica quanto come sindrome, cioè insieme di sintomi che possono essere presenti in situazioni psicopatologiche diverse. Di fatto, la psicologia dinamica si interessa agli affetti depressivi e cerca di correlarli :1) a degli accadimenti relazionali specifici (e relativi modelli di relazioni oggettuali);
2) a dei tipi specifici di angoscia ed alle conseguenti difese messe in atto per il suo controllo;
3) alle principali istanze intrapsichiche coinvolte (ad es. Ideale dell’Io piuttosto che SuperIo).Semplificando all’estremo, possiamo dunque riconoscere tre grandi tipologie di situazioni depressive proprio in base a questi criteri che tengono conto della triade angoscia e difese – relazione oggettuale – istanze principali coinvolte.
– Avremo quindi affetti depressivi di matrice nevrotica laddove è in causa il SuperIo, il senso di colpa, le difese più evolute (come la rimozione, la razionalizzazione, la formazione reattiva) e l’angoscia di castrazione sottoforma di punizione (temuta ma anche attesa) nonchè un rapporto clinicamente evidente tra affetti depressivi ed inibizione pulsionale (sia libidica che aggressiva).- Avremo invece una depressione di matrice psicotica laddove vi sia una angoscia relativa ad un oggetto perduto diventato interno al sé per i meccanismi difensivi dell’identificazione e dell’introiezione, l’uso di altre difese arcaiche come il diniego, la proiezione e dove i sentimenti di dipendenza ma soprattutto di rabbia sono rivolti contro il sé confuso con questo oggetto perduto.- Avremo infine quel mare magnum definito come “borderline” nel quale gli affetti depressivi appaiono correlati soprattutto all’Ideale dell’Io, ai sentimenti di vergogna (più che di colpa come nella forma nevrotica) allo smacco narcisistico conseguente all’angoscia dell’abbandono (in tutte le sue forme e declinazioni) e difese, quale la scissione, che spesso comportano anche una significativa tendenza all’agire.
Al di là di questi schemi forzatamente semplificati, è interessare ricordare quanto materiale è stato prodotto in termini di ipotesi eziopatogenetiche psicologiche da parte della psicoanalisi fin dall’inizio del secolo scorso e poi, in anni più recenti, dalla cosiddetta scuola della psicologia dell’Io e delle relazioni oggettuali.A volte sorrido nel pensare, di fronte al medico che sempre più spesso invia al nostro servizio di psicologia il recente vedovo o vedova con la diagnosi di “depressione reattiva” ed a cui è già stato sollecitamente prescritto un antidepressivo, che direbbe quel dottore se io gli citassi il Freud che parla del lutto (del normale processo di lutto) come situazione antitetica della depressione, come ricorda Nancy McWilliams nel suo recente testo “La diagnosi psicoanalitica” :
“Freud fu il primo a paragonare e a contrapporre le condizioni depressive (melanconia) al lutto normale ; egli vedeva la differenza più significativa tra i due stati nel fatto che nelle normali reazioni di lutto si percepisce il mondo esterno impoverito in qualche aspetto importante (per esempio, la perdita di una persona di valore), mentre nelle condizioni depressive ciò che si sente perduto o danneggiato è una parte del Sé. Per certi versi, quindi, la depressione è l’opposto del lutto e le persone che vivono un lutto normale non diventano depresse, anche se nel periodo che segue il lutto o la perdita sono profondamente tristi.” La frase che chiude questa citazione, oggi come oggi, non sarebbe creduta ed accettata non solo dalla cosiddetta gente comune, ma nemmeno dalla maggioranza dei medici ed anche degli specialisti della salute mentale. Non è importante in sè questa affermazione teorico-clinica di Freud (che, come qualsiasi altra, può essere oggetto di discussione) quanto il fatto che essa, probabilmente, più che essere considerata discutibile sarebbe considerata concettualmente insostenibile ed assurda. E ciò proprio perché anche la tristezza, la tristezza del lutto normale citata da Freud è oggi considerata, tout court, una forma di depressione clinica e quindi un preciso disturbo di ordine psicopatologico da trattare sia psicofarmacologicamente che psicoterapeuticamente.

Di fronte ad una diagnostica sintomatologica psichiatrizzata, che tutto schematizza e nulla tenta di capire, si può solo cercare di voler andare oltre alla superficie della descrizione sintomatica. Certo non ignoro, oltre ai rischi d’uno spaccio psicofarmacologico, anche quelli di una troppo frettolosa ed incauta interpretazione profonda delle cause psicologiche della depressione (come di altre forme psicopatologiche). Anche gli schemi psicoanalitici possono essere usati come arme improprie per non pensare e non capire, per etichettare frettolosamente il paziente in una delle strutture di personalità in cui noi abbiamo già a priori deciso egli debba collocarsi. Ma quantomeno un certo ascolto del paziente viene di per sé offerto dall’ascolto psicologico, a differenza della frettolosa visita psichiatrica, almeno in linea generale. Quello che noi psicologi – a mio parere – dovremmo aggiungere è l’attenzione alla relazione che il paziente (il depresso come tutti gli altri) instaura con noi. La diagnosi andrebbe fatta a partire anche dalla relazione oggettuale, dall’angoscia e dalle difese osservabili nell’hic et nunc della relazione terapeutica, con noi come osservatori partecipanti. E’ la cosa più difficile, ma anche la strada metodologicamente più produttiva oltre che umanamente più corretta, almeno a mio avviso. In questo compito, secondo me, ci può essere di molto aiuto anche la conoscenza della depressione che può esserci fornita da altre scienze umane, nonché dall’arte e dalla letteratura.
Per una concezione umanistica della depressione.

Il mio tragitto professionale, che sta per compiere ormai un quarto di secolo, da qualche tempo mi ha portato ad apprezzare sempre di più il contributo che alla psicologia può essere dato dalla letteratura.
Restando nel nostro specifico campo professionale, l’approccio umanistico e fenomenolgico, è stato storicamente quello più attento a questa esigenza. Ne è particolare testimonianza, in Italia, l’opera sostanzialmente solitaria condotta dallo psichiatra Eugenio Borgna. Se ci riferiamo in particolare al nostro tema, quello della depressione, non si può fare a meno di citarlo. Nel suo bel testo “Noi siamo un colloquio”(Feltrinelli 2000) , dove prende una chiara posizione fin dal titolo, egli così scrive alla fine del quarto capitolo intitolato “La tristezza leopardiana e la tristezza che si nasconde nella musica” :
“Non c’è una sola condizione depressiva, ma ci sono modi diversi e forme diverse di viverla. La tristezza leopardiana non è la tristezza motivata (neurotica) e la tristezza psicotica (la tristezza che fa parte della depressione-malattia : della malinconia clinica) ha in sé qualcosa di diverso, ma di egualmente significativo, da l’una e dall’altra. Queste distinzioni che sono venuto delineando nel corso di questo capitolo, sono non di rado ignorate ed allontanate dalla riflessione critica e diagnostica ; nel senso che si è trascinati nel vortice delle semplificazioni e non si parla se non di “depressioni” : senza analizzarne linee tematiche e fenomenologiche.Al di là delle cose descritte e tematizzate nel volgere dei capitoli di questa seconda parte, non posso non ribadire fino in fondo come queste distinzioni si manifestano, e possono essere colte, nella misura in cui ci accostiamo ai pazienti con una radicale disponibilità umana : decifrando il farsi ed il disfarsi degli eventi vitali (delle penombre) che hanno solcata e hanno attraversata la loro vita. Nel senso della bellissima parola kafkiana, scrivere ricette è la cosa più semplice del mondo; ascoltare la gente che soffre, e chiede l’aiuto del medico, è la cosa più difficile e nobile.
Ricchissimo è il discorso di Borgna che cita, in questo libro come del resto in tutti i suoi altri, una serie di testimonianze artistiche sul tema della depressione. Nomina, oltre al Leopardi dello “Zibaldone” anche il Marai delle Braci, le poesie di Edith Sodergrand, il Thomas Bernhard del “Il soccombente”  nonché la musica di Beethoven, di Mahler e di Schubert.E’ indubbio il fatto che spesso la letteratura e l’arte in genere riescono a descrivere molto meglio e a spiegare più profondamente dei trattati scientifici le complessità e le sottili sfumature dell’animo umano, sia che esso soffra di depressione che di altri disagi. Del resto – a noi come psicologi – sarebbe utile una conoscenza, oltre che letteraria ed artistica, anche antropologica e storica.La depressione, chiamata in origine “melanconia, è parola che viene dal greco “melas” + “cholè”, cioè bile nera . Fu proprio Ippocrate nel V sec. A. C. a fare una prima descrizione clinica della depressione, ipotizzando quella “dottrina degli umori” che resse per molti secoli e che vedeva nella depressione una malattia prevalentemente autunnale in cui un eccesso di produzione di atrabile era la causa dei sintomi osservati nella persona depressa.Come al giorno d’oggi, nell’epoca greca, le prime ipotesi mediche sulla depressione non erano psicologiche ma organiche. Tuttavia sia la cultura greca prima che quella romana poi, consideravano come strettamente collegati quello che noi oggi chiamiamo il disturbo psichico – e la depressione in particolare – e l’attività creatrice artistica.La letteratura sa spesso essere descrittivamente più ricca di qualsiasi manuale di psicopatologia perché quelle dell’autore sono testimonianze emotive dirette, scritte dall’interno del mondo sofferente dello stesso autore. Vale la pena ricordare in proposito “Il male oscuro” di Giuseppe Berto e le poesie di Emily Dikinson. I poeti rappresentano, all’interno del mondo artistico, un campione ancora più rappresentativo di questa sensibilità e di quella capacità intuitiva che permette loro di comunicare con il linguaggio primario proprio dei sogni e delle fantasie inconsce. Come del resto disse Freud : “Spesso io sono arrivato faticosamente lì dove ho trovato che già era stato un poeta.” Particolarmente indicativo è poi quanto scrive Rainer Maria Rilke nel suo “Lettere ad un giovane poeta” :
“Voi avete avuto molti e grandi tristezze, che se ne sono andate. E dire che anche quel loro andarsene fu per voi difficile ed irritante. Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano piuttosto passate attraverso di voi. Se molto in voi non si sia trasformato, se in qualche parte, in qualche punto del vostro essere non vi siate mutato, mentre eravate triste. Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore ; come malattie che vengono trattate superficialmente ed in maniera sconsiderata, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e si raccolgono nell’intimo e sono vita, sono vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire”.
Trovo bellissime queste parole di Rilke e, ancor più, inconsapevolmente ricche di indicazioni per i clinici, se loro vogliono ascoltare davvero questo tipo di messaggi. Rilke accenna alle possibilità trasformative della depressione e indica delle direzioni che noi psicologi potremmo cercare di seguire, rafforzando – io credo – anche la peculiarità del nostro specifico professionale.

Lo psicologo in ascolto della depressione.

Prima di addentrarmi nel discorso specifico dello psicologo in ascolto del paziente depresso, vorrei premettere due punti importanti.
Il primo lo titolerei “depressione endogena versus depressione psicogena”. Si tratta dell’arcinota differenziazione diagnostica – che tutti noi ricordiamo fin dai banchi dell’Università – tra una depressione “interna” che viene dal di dentro ed una che proviene invece da cause esterne. Tutti i manuali riportano questa differenza e la significano in termini di comprensibilità causale. La prima è una depressione che non ha motivi riconoscibili ed è quindi più grave, da trattarsi prioritariamente se non esclusivamente con farmaci ; la seconda ha invece cause psicologiche e relazionali più evidenti e quindi può essere trattata in via elettiva dalla psicoterapia.
Confesso di non essere mai stato del tutto convinto da questa distinzione e di esserne ancora meno convinto oggi. Certo esistono delle depressioni clinicamente più gravi di altre ; ma ritengo pericoloso e fuorviante differenziarle in termini di riconoscibilità delle cause. Molte volte infatti – se si ha il tempo e soprattutto la voglia di indagare e capire – si trova che ciò che era apparentemente incomprensibile non lo è più .
Il secondo punto lo potrei chiamare “depressione come fattore positivo di maturazione psichica”: si tratta di una concezione della depressione antitetica a quella che attualmente va per la maggiore. Senza scomodare ancora Rainer Maria Rilke e per rimanere nel nostro ambito di specialisti, vale la pena di citare il concetto di “posizione depressiva” di Melanie Klein. Va ricordato come secondo la Klein, nello sviluppo psicologico normale del bambino, dopo la fase schizoparanoide compare quella depressiva. Essa permette al bambino di riunificare e riconoscere la madre come oggetto totale e non più scisso tra parti buone e cattive, di percepire la sua dipendenza da lei, riconoscere la sua esistenza autonoma, inibire la propria aggressività e, attraverso la riparazione, arrivare ad una relazione d’amore oggettuale matura e differenziata. Questa nozione della Klein appare clinicamente molto importante soprattutto ai giorni nostri, in cui – sia tra i pazienti che tra i cosiddetti soggetti normali – si riscontrano sempre più frequentemente quelle cosiddette personalità narcisistiche nelle quali non è stato mai dato di sperimentare davvero questa depressione normale e (aggiungerei) sana, nel senso che permette un riconoscimento reale dell’altro come distinto dai propri bisogni. Del resto, anche senza scomodare le complesse teorie kleiniane, chiunque di noi si occupi di adolescenza sa empiricamente quanto vera sia la definizione che diede Winnicot della adolescenza normale come un “faticoso superamento della depressione” insita nell’abbandono del mondo infantile, dei suoi investimenti, dei suoi oggetti.
Lo psicologo è secondo me una figura che ha tutte le migliori potenzialità ed occasioni per poter proporre al paziente una rilettura ed una riformulazione della sua domanda. Sappiamo come la nostra specifica competenza ci chiami ad una attenta analisi della richiesta. In particolare, lo psicologo del SSN si trova in una postazione – da un lato più difficile – ma dall’altra anche privilegiata per poter far questo, come cercherò di spiegare più avanti.Col paziente depresso, secondo me, noi dobbiamo tenere ben presente questi due punti appena illustrati. Non è facile : ma chi – se non noi psicologi anzitutto – può cercare di verificare quanto sia vera quella presunta incomprensibilità delle cause che fa pendere la diagnosi verso l’endogeno e, quindi, verso un certo tipo di approccio terapeutico? Agli psicologi – dai pazienti soprattutto – è dato un certo credito in termini di attenzione disponibile. Lo psicologo ascolta, si prende tempo, fa più colloqui e non solo una breve visita con appuntamento di controllo mesi dopo. Così di solito è visto, previsto ed atteso dagli utenti stessi.
Dall’altra, lo psicologo è anche quello più vicino alla normalità (e su questo, a torto o ragione, viene poi comunemente differenziato dallo psichiatra) : ma non solo e non tanto per il tipo di pazienti che vede, quanto per la sua formazione che prevede e presuppone una attenzione ai vissuti interni del suo interlocutore, vissuti nei quali tra il normale ed il patologico c’è un continuum che permette a questo professionista un altro tipo di sguardo ed un altro ascolto rispetto a quelli tipicamente medici.
Un piccolo esempio clinico di questo diverso sguardo è, per esempio, l’attenzione che noi possiamo riservare all’adolescente che vive una situazione di dolore di tipo depressivo. Spesso è possibile applicare concretamente quel mio precedente discorso sui mezzi espressivi “artistici” che parlano dei vissuti depressivi e li illustrano. Non occorre aspettare l’ improbabile arrivo in ambulatorio di un futuro Giacomo Leopardi ancora imberbe. Basta solo informarsi, a tempo e modo debito, dell’esistenza di un diario nel cassetto del nostro ragazzo o ragazza. Che spesso, comunque, contiene dei tentativi poetici che al di là del valore letterario, sono estremamente importanti ed anche commoventi. Resto sempre stupito, in quest’epoca di sms imperanti, di quante ragazze ma anche ragazzi tengano un diario e di quante cose emotivamente significative riescano a scriverci. Ma anche chi non tiene diari, quasi sempre ascolta musica, cita testi di canzoni, ha i suoi idoli musicali mai casuali : anche quella è una grande fonte di informazione, perché adorare Kurt Cobain (il leader suicida del gruppo Nirvana) non è la stessa cosa che stravedere per Marilyn Manson e ciò proprio in termini di modelli identificatori seppur parziali.L’anno scorso ho avuto in terapia un adolescente di 17 anni, e la seduta più terapeutica fu proprio quella in cui lui mi portò alcuni testi dei Nirvana. Parlammo anche a lungo di cosa gli ispirasse una copertina di uno dei CD del gruppo, intitolato “In utero”, dove c’è una foto un neonato che nuota in una vasca d’acqua dalla configurazione assolutamente amniotica.Tutto questo, con il rispetto comunque dovuto ai manuali diagnostici ed alla loro utilità, non lo si troverà mai nei vari DSM o ICD o nelle scale di autovalutazione, o nelle symptoms check lists. Sono sempre più convinto che una diagnosi non la si fa solo sui sintomi (che spesso sono mutevoli ed ingannevoli, soprattutto nella clinica borderline ed in quella adolescenziale che è di per sé “al confine” tra infanzia ed età adulta). La si dovrebbe fare anche a partire da un vero ascolto, dalla relazione che si crea nel tempo di questo ascolto : ascolto del paziente e di noi che stiamo ascoltando lui. Dire che un paziente ha una angoscia depressiva abbandonica è un concetto diagnostico psicodinamico utile, dire che egli cerca una relazione analitica in cui appoggiarsi ad un Oggetto idealizzato completa e conferma tale diagnosi ; ma se io come psicologo non considero e non percepisco questa relazione d’appoggio analitico con me in seduta, se evito di vedere nel paziente davanti a me l’angoscia alla sola fantasia che io posso in qualche modo abbandonarlo, ecco che io mi chiamo fuori da una relazione e da una reale possibilità terapeutica.Un altro esempio clinico significativo di quanto voglio dire sono quei pazienti che vengono in consultazione in una condizione depressiva collegata alla fine di una relazione sentimentale che li lascia sgomenti, increduli e confusi. Il rischio che io vedo in un approccio diagnostico frettoloso e troppo sbilanciato nel senso di sostenere (con la classica formula del “sostegno psicologico”) il narcisismo più o meno ammaccato del paziente è quello di perdere una fondamentale occasione per riflettere sulla natura di questa rottura del legame, sulle aspettative consapevoli e non, sulle spiegazioni del perché è andata male. Dare gli psicofarmaci e sostenere una persona in modo acritico magari confermandole semplicemente che effettivamente è stato vittima di un partner cattivo e perfido non è un buon intervento psicoterapeutico. Lo è spesso sul piano sintomatico soggettivo. Il paziente sta meglio e spesso anche rapidamente. Ma a che prezzo? Quello magari di diventare cinico, di trasformarsi a sua volta in predatore sentimentale all’insegna di un principio più o meno consapevole che così suona : “adesso faccio io agli altri quello che è stato fatto a me”. Soggettivamente il paziente non è più depresso. Ma in termini relazionali quanto possiamo dire che funzioni davvero meglio. ?Questo è uno dei problemi clinici a mio parere più grandi e più sottovalutati. Chiunque abbia un minimo di pratica clinica e di onestà intellettuale ha avuto esperienza diretta od indiretta di pazienti depressi trattati in psicoterapia con successo sintomatico soggettivo, ma anche con sviluppo reattivo di un narcisismo secondario ipertrofico che li trasforma da depressi in persone boriose, polemiche e talvolta strafottenti. Io stesso mi sono trovato in un paio di miei casi a vedere questo tipo di esito, più o meno duraturo nel tempo. E questo aspetto clinico rappresenta anche una sfida anche rispetto alla valutazione dell’efficacia delle psicoterapie basata esclusivamente su questionari di autovalutazione sintomatica compilati dai pazienti stessi.L’affetto depressivo non dovrebbe essere visto sempre e comunque come un virus pericoloso contro cui sparare ad alzo zero con psicofarmaci e psicoterapie di sostegno da overdose.Un certa quota di depressione – nella vita e nella psicoterapia – a volte serve come base emotiva di partenza per arrivare ad un esame di realtà più valido, per analizzare quanto ci si mette anche del nostro nel cacciarsi nei guai, nel farsi trattare male dal partner, nel considerare realisticamente anche i nostri errori. Lo psicologo del servizio pubblico può forse avere un certo vantaggio rispetto al libero professionista in questo senso. Oggi infatti tende a svilupparsi una cultura in cui il paziente è cliente. Ed il cliente – come si dice nel mercato – ha sempre ragione. Ma non è vero che il paziente ha sempre ragione. Lo psicologo bravo non è quello che al suo paziente dice sempre “hai ragione : è tutta colpa di tua moglie se sei depresso”. Come non è un medico bravo quello che dà lo sciroppo per la tosse al suo paziente che fuma due pacchetti di sigarette al dì così da confermargli un alibi di cura. Noi mettiamo il paziente di fronte alla realtà, poi lui è libero di scegliere. Non dovremmo essere maestri che danno compiti a casa. Come non dovremmo essere mercanti che incensano il cliente (per poi magari turlupinarlo). Come psicologi del servizio pubblico non siamo pagati direttamente dall’utente e forse anche questo può facilitarci in questo compito di non essere compiacenti (una reciproca compliance?) col paziente che cerca un dottore che gli dica solo “sì hai ragione tu”.A volte ci sentiamo noi stessi un po’ depressi per i risultati speso non rapidi e non eclatanti del nostro lavoro. E qualche volta questo può essere utile per farci riflettere su quel che facciamo. Ma a volte sottovalutiamo anche le nostre stesse possibilità, che a volte sono più ampie di quello che noi stessi crediamo.Un ultima cosa prima di concludere. Mai come oggi, nell’Occidente tecnologiocamente avanzato, s’è vista una così massiccia negazione della morte, della sofferenza e dei limiti intrinseci alla vita umana : le tracce di ciò si vedono ovunque, dal dilagare dell’uso delle droghe ai tentativi di clonazione umana. Il discorso è enorme e, a parte il tempo già troppo lungo che mi sono preso, scivolerebbe forse troppo nel filosofico. Per rimanere nel nostro piccolo (si fa per dire) della clinica, credo che ognuno di noi si sia trovato di fronte a pazienti in cui – se non unico – il prevalente agente patogeno depressivo sta comunque proprio nella paura della morte, dell’invecchiare, dell’essere malati e non più belli, giovani e forti. Anche e soprattutto in questo caso noi dobbiamo chiederci quale sia davvero l’obbiettivo del nostro intervento : se far sparire in qualche modo il dolore o  ridargli un senso come qualcosa di compatibile alla nostra vicenda umana.
Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Fabrizio Rizzi  è Dirigente Psicologo presso la prima Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’Azienda sanitaria provinciale di Trento. Esercita la professione di psicologo psicoterapeuta dal 1978. E’ autore dei romanzi Diario di bordo (Bollati Boringhieri, Torino,2000) e Non c’è ombra che sia più oscura (Clinamen, Firenze, 2002) oltre che di numerose pubblicazioni scientifiche relative soprattutto all’adolescenza.
Citazioni bibliografiche :

Bisiacchi P. e coll. : L’aderenza del paziente alle cure : primi dati di una ricerca longitudinale.(Atti del Convegno “Decisione e ragionamento in ambito medico”, Trento, 2002)Borgna E. : Noi siamo un colloquio – Feltrinelli, Milano, 2000Horgan J. : La mente inviolata – Cortina, Milano, 2001McWilliams N. : La diagnosi psicologica – Astrolabio, Roma, 1999Rizzi F. : Non c’è ombra che sia più oscura – Clinamen, Firenze, 2002