Le supervisioni

Le supervisioni (*)

di Maria Antonietta Trasforini (**)

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 (*) tratto da: M. A. Trasforini, “Psicologi in supervisione: precorsi di professionalizzazione nei servizi”, F Angeli ed, Mi, 1994(**) Maria Antonietta Trasforini insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Ferrara. Si è occupata di professionalizzazione nella modernità (nella medicina, nella psicoanalisi, della psicologia e nell’arte), È autrice di La Professione di Psicoanalista (1991), Psicologi e Supervisione (1994), Arte in città. Arte, Pubblici e Gallerie a Bologna (2003), Donne d’arte (2006), nonché curatrice di Arte a parte. Donne artiste fra margini e centro (2000).
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Approfittiamo per ringraziare la prof.ssa Trasforini e la casa editrice Franco Angeli per averci voluto concedere la possibilità di pubblicare questo capitolo (il terzo) del testo “Psicologi in supervisione”.Chi volesse dare un’occhiata all’offerta libraria della F. Angeli può farlo a partire dalla pagina web: www.francoangeli.it Non abbiamo riprodotto figure, tabelle e riferimenti al campione presenti in appendice nel testo originario: ce ne scusiamo con il lettore.
– La redazione

Le attività di supervisione praticate a vario titolo da psicologi e psicologhe che lavorano nei servizi, sono state ricondotte a tre tipi:

quelle ricevute, che comprendono quelle ricercate o acquistate nel mercato privato e quelle invece organizzate all’interno del servizio o comunque dei servizi; e quelle offerte dagli stessi psicologi a colleghi o ad altri operatori nel/nei servizio/i.

Nei tre tipi la definizione di supervisione resta invariata, è cioè quella situazione in cui un operatore impegnato in una azione terapeutica (o comunque ad ‘alta densità relazionale) all’interno dei servizi, decide di confrontarsi con una figura professionale esterna al setting, una figura che ha il compito di ‘restituire’ uno sguardo su quella stessa situazione terapeutica e – in essa – sul rapporto terapeuta – paziente.

 

1. Supervisioni ricevute: supervisione o formazione?

Per il tipo di diffusione riscontrato, si può senza dubbio affermare che quella della supervisione è una pratica costitutiva sia della formazione che dell’attività professionale dello/a psicologo/a nei servizi. Infatti tutti/e gli/le intervistati/e del campione, tranne uno, dichiarano di aver finora ricevuto nel corso della propria carriera lavorativa delle supervisioni: da un minimo di 2 a un massimo di 7 (fig. 5). Per la maggioranza (n. 22) si tratta di un pacchetto misto, comprendente supervisioni private e supervisioni ricevute nel/nei servizio/i. In 12 casi, distribuiti fra i vari indirizzi, si profilano invece situazioni ‘pure’: ovvero 6 persone hanno fatto solo supervisioni private e 6 hanno fatto solo esperienza nel pubblico[1] .

L’analisi che segue è basata sulle 152 supervisioni dichiarate dai 34 intervistati e rappresentano, per quanto è stato possibile ricostruire, la totalità delle supervisioni sostenute dagli stessi. Ogni supervisione è individuata dalla presenza di un supervisore (in alcuni casi più di uno), un incontro che ha dato luogo ad una esperienza circoscritta nel tempo e nello spazio, individuale o di gruppo, iniziata e già terminata oppure ancora in corso. Alcune supervisioni (una minoranza) hanno avuto la forma di contenitore, ovvero di un luogo in cui ‘scorreva’ o era passato in un tempo dilazionato più di un supervisore: si tratta in genere di casi di supervisioni lunghe e svolte nel servizio. Nella maggioranza dei casi tuttavia si tratta e si è trattato di esperienze ben circoscritte e riconoscibili.

Nella quasi totalità delle supervisioni (tranne 2), esse sono state svolte quando gli/le intervistati/e erano già assunti/e nel servizio pubblico e vanno quindi lette come eventi facenti parte di un contesto professionale e formativo.

E proprio questo è il passaggio difficile da districare. Nel corso del lavoro infatti si è potuto verificare come supervisione e formazione si sovrapponessero in continuazione con conseguenze rilevanti sia da un punto di vista teorico che operativo. Come distinguere dunque la supervisione dalla formazione? Quando una supervisione può essere considerata formativa, come parte di un percorso di apprendimento, e quando invece essa è uno strumento finalizzato alla soluzione o alla ‘azione’ su un caso difficile? Oppure si può addirittura affermare che la supervisione è sempre formativa come sembrano sostenere molti fra gli/le intervistati/e?

La risposta non è semplice, anzi, come ha sintetizzato con una battuta uno psicologo (24.4, P): “la supervisione è un oggetto misterioso…”. Prescindendo dalla definizione ‘canonica’ – data dalla maggior parte degli intervistati, psicodinamici o sistemici, che vede nella supervisione il luogo di analisi del controtransfert o comunque del relazione e delle dinamiche intervenienti fra terapeuta e paziente, – si è invece cercato di inquadrare la supervisione come un oggetto complesso, caratterizzato cioè dalla compresenza di numerosi aspetti e non tanto riducibile ad un’unica visione.

Per salvaguardare e valorizzare questo carattere molteplice, sono stati utilizzati almeno tre punti di osservazione: 1) quello soggettivo, di definizione, che esplicitasse ‘cosa si intendesse per supervisione’; 2) quello operativo, che tenesse conto dei ‘contenuti’ della supervisione, ovvero ‘in cosa consistesse’; infine 3) quello temporale, che collocasse la supervisione all’interno o all’esterno del percorso formativo.

Si tratta, come si può constatare, di punti di osservazione fra loro disomogenei, che tuttavia consentono di attribuire a questo ‘oggetto’ un volume a più facce.

 

 

2. Alcune definizioni ‘soggettive’

 

II criterio soggettivo è stato ricostruito a partire dalle risposte alla richiesta di definizione della supervisione. Quelli che seguono sono i tipi attorno ai quali è stato possibile aggregare le diverse definizioni in base all’enfasi posta su di un aspetto piuttosto che su di un altro.

Nel primo gruppo di definizioni l’accento è posto sull’aspetto strumentale, vale a dire finalizzato all’affrontare un caso o dei casi, e/o contrassegnato da una dimensione circoscritta (quale appunto la dichiarata acquisizione dello strumento).

Nel secondo gruppo sono raccolte le definizioni che pur sottolineando la finalizzazione ad un caso inscrivono la supervisione in un progetto più ampio, enfatizzandone la funzione di apprendimento non terminabile.

Al terzo gruppo infine sono ricondotte le definizioni con accenti misti, in cui la supervisione è la forma specifica di formazione fornita dai servizi agli operatori, un modello che riflette e restituisce la tipicità e forse l’unicità del rapporto formazione/supervisione che si è andato costruendo all’interno dei servizi.

Rispetto a queste tre tipologie gli orientamenti si mescolano, non si delineano cioè nette aggregazioni su un gruppo o sull’altro in base all’orientamento, così come non si possono fare valutazioni quantitative con un gruppo di risposte più numeroso di un altro. Le definizioni infatti non sono esclusive, si da anzi il caso che uno/a stesso/a intervistato/a si possa ritrovare sotto due diverse definizioni, per aver diversamente inquadrato le proprie diverse esperienze di supervisione lungo il proprio percorso personale e professionale.

Vediamo ora i singoli raggruppamenti illustrati anche da brani di interviste.

Un primo gruppo, in cui sembra prevalere l’aspetto ‘strumentale’, sono riconducibili quelle risposte che individuano nella supervisione un luogo in cui “qualcuno di esterno… possa aiutare nella conduzione di un caso clinico, (essere) un punto di riferimento” (34.15, S), “una guida metodologica alla conduzione del caso” (25.7, S), oppure “il momento in cui – soprattutto per quei casi per i quali non riesco ad avere una chiarezza io o per i quali ho bisogno di confrontarmi -, posso ricevere quei flash che mi permettono di prendere la giusta distanza dall’oggetto” (38.4, S).

Un motivo che ricorre in più di una risposta è quello del ‘vedere’, ovvero della costruzione di un nuovo sguardo diretto al caso e a sé medesimi/e, quasi a recuperare l’etimo del termine supervisione come ‘vedere sopra’: allora essa rappresenta la “possibilità di valutare un caso con altri occhi, e avere una visione più realistica” (33.4, S), per “valutare i casi con un occhio che prima non avevo” (33.9, S), insomma una “tecnica per la quale si può vedere il caso sotto altri aspetti che prima non vedevi” (9.5, P/A). E ancora “la possibilità di liberare tutto il materiale che hai dagli aspetti emotivi che ti impediscono di vedere le cose in maniera obiettiva” (10.4-5, P). Ovviamente in questo gruppo di risposte rientrano anche coloro che dichiarano esplicitamente la finalità formativa di una certa supervisione:

avevo bisogno di fare un lavoro più esplicitamente didattico… La supervisione aveva finalità di istruire (35.8, P/A).

Il secondo gruppo di risposte, definibile come ‘essenzialista’, non solo vede nella supervisione un momento formativo in itinere, ma ne enfatizza l’aspetto di non terminabilità. Essa è così vista come un luogo in cui si costruisce qualche cambiamento, è una riflessione, un comportamento, una modalità, un tentativo che ha per effetto il fatto che uno si porta a case delle cose, non solo le porta a casa perché qualcuno gliele da, ma perché le porta a casa lui, le fa sue (36.12, P/A).

Oppure come uno strumento/luogo inscindibile dal lavoro psicoterapico:

la supervisione è un oggetto inerente alla psicoterapia, non si può fare psicoterapia se non c’è un controllo di supervisione… è imprescindibile dal lavoro che si fa (11.4, P/S).

Così la supervisione deve essere costante… anche se cambiano le problematiche su cui si va a lavorare. Adesso la supervisione più importante è quella che tende non più al dato tecnico, quindi alla lettura, alla diagnosi, quanto a quello che è veramente il lavoro dell’analista… in quella situazione specifica (32.8, A).

Fra la prima tipologia ‘strumentale’ e questa seconda ‘essenzialista’ si colloca un ulteriore modello, quello di chi ha frequentato a lungo una supervisione che è stata formazione, contenitore, ecc. e che viene riattivata in un momento di bisogno:

ricorro abitualmente alla supervisione nel momento in cui ho una situazione che mi preoccupa (15.7, P).

Un terzo gruppo di risposte è infine quello che mette in luce la peculiarità delle supervisioni fatte nei servizi. È la posizione di coloro che hanno fatto prevalentemente, o esclusivamente, formazione attraverso le supervisioni offerte dai servizi fino a segnalare i rischi di esperienze non scelte:

… dopo tante scelte fatte dal servizio, volevamo andare un po’ sul sicuro, altrimenti rischiavamo di avere tra i piedi diverse supervisioni e di non averne una che rispondesse a questo tipo di nostra richiesta (32.12, A).

In questi casi è difficile fare la distinzione fra la dimensione di supervisione e quella di formazione, poiché – come nel caso di questa stessa intervistata – le supervisioni hanno modificato il mio modo di fare terapia… tutto direi… dall’approccio iniziale alla lettura della situazione, a decidere se fare terapia o meno, all’arrivare al come fare, cosa scegliere, se individuale, di coppia, familiare, ecc. fino ovviamente all’arrivare a me e quindi alla mia progressiva modifica nei confronti della terapia in corso. Quindi tutto. Ho cominciato talmente presto che direi che è cresciuta con me… (32.18, A).

Questa mescolanza sembra connotare la storia dei servizi, come dice quest’altra intervistata a proposito di una supervisione/formazione dei primi anni ’80, richiesta dagli operatori:

noi abbiamo iniziato a lavorare in un determinato modo e abbiamo cercato di approfondire… è una storia vissuta. È la storia dei servizi, del cambiamento del modo di lavorare in questi anni… (quella supervisione) è stata un’occasione che ci veniva data… cioè che partiva dalla nostra richiesta, non dico mia personale, ma… anche degli altri colleghi coi quali si è lavorato in questi anni, ma era anche un bisogno di approfondire ed organizzare il modo di lavorare nel servizio (10.11, P).

Anche in questa terza tipologia si scorgono elementi che la accomunano alla seconda; insomma più che ricondurre queste definizioni a posizioni fisse, è più opportuno pensare a diverse enfasi a seconda del momento, del ciclo di vita professionale e personale degli individui. In questo modo ogni supervisione sembra occupare un posto diverso e avere un accento diverso nella storia individuale. È il caso di questa intervistata (13.16, P) che ha così sintetizzato le sue 4 esperienze di supervisione:

La più importante è l’ultima, quella individuale su un unico caso, con quella continuità. Però direi che… nella prima (supervisione) ero presente ma non attivamente. Nella seconda ero presente anche con quello che sapevo fare, perché era possibile presentare un caso e parlare della propria esperienza, delle proprie difficoltà. Nella terza c’era la persona (il supervisore) che poteva dare questo esempio di stile professionale in cui io ritrovavo molte cose, che mi sembravano affini… ma con risonanza positiva, cioè quello che diceva non era estraneo ad un modo di pensare, c’era una corrispondenza. L’ultima è stata forse quella in cui ero più coinvolta direttamente come persona.

E proprio perché il tema che lega i percorsi formativi è quello di ‘apprendere dall’esperienza[2], le storie di apprendimento professionale si intrecciano e si legano alla storia di crescita personale:

 

… se penso a quando ho iniziato a lavorare… alle incapacità, al non sapere come porsi di fronte al lavoro, … posso dire di avere imparato molte cose attraverso queste esperienze, anche attraverso un singolo caso, molte cose che possono essere riportate ad altri casi… ho forse imparato anche delle cose su quello che è il mio atteggiamento di fronte ai pazienti… Cose personali ma anche professionali… (13.16, P).

 

Criterio operativo e criterio temporale

 

Un altro percorso per giungere ad individuare e distinguere gli aspetti formativi della supervisione ci viene dall’esame, prima singolo poi incrociato, delle risposte alle domande ‘se la supervisione fosse avvenuta durante la formazione’ e in ‘cosa essa consistesse’. Si è dunque utilizzato sia un criterio temporale che un criterio operativo.

Se si assume il criterio temporale (costruito appunto come risposta alla prima domanda) si ricava che nel 40% dei casi si tratta di supervisioni compiute durante l’epoca formativa (tab. 5), incluso un 18% di casi di training istituzionale (tab. 6). Accanto a questo 40% di epoca formativa, un ulteriore 25% è stato comunque ‘considerato’ formativo dagli/lle intervistati/e, a cui va aggiunto un altro 3.3% di ‘formazione/aggiornamento’ (tab. 5). Da questa risposta risulta dunque che, tenendo conto della dimensione temporale, l’aspetto formativo interesserebbe la grande maggioranza, pari al 69% di tutte le supervisioni contro un 31% di supervisioni per così dire strumentali, fuori dalla formazione (tab. 6).

Se si introduce invece il criterio operativo, relativo cioè al contenuto della supervisione (in risposta alla seconda domanda), i risultati si capovolgono. Infatti riaggregando le descrizioni di ogni supervisione sotto le due grandi categorie ‘prevalenza del lavoro sul caso’ o prevalenza dell’”aspetto formativo” (vale a dire presenza di elementi di apprendimento dello strumento, di aggiornamento, di lavoro di organizzazione del servizio, ecc.), si ottiene la seguente suddivisione (tab. 6): nel 69% delle supervisioni prevale l’aspetto di lavoro sul caso – con una sottolineatura della parte tecnica e di professionalità -, mentre nel restante 31% è prevalente l’aspetto di formazione/apprendimento/lavoro nel servizio. Sotto questo profilo si può dunque affermare che il lavoro sul caso è molto consistente e che il carattere strumentale finisce per prevalere su quello formativo.

Per trovare una via di uscita fra queste due visioni così contrapposte e speculari, si è utilizzato un ulteriore indicatore che considera sia il criterio operativo (prevalenza del lavoro sul caso o dell’aspetto formativo) sia le motivazioni di ricorso alla supervisioni (tab. 6). Questa combinazione ha fornito una distribuzione più articolata e forse più rispondente alla realtà: un primo gruppo di supervisioni, che potremmo definire ‘pure’ ovvero volte alla soluzione, al lavoro su casi, è pari al 42.8%; un secondo gruppo comprendente la formazione ‘pura’ è pari al 14.4%, infine in un gruppo misto del 42.8% confluiscono sia le supervisioni svolte durante il training (14.5%) che le esperienze miste (16.6% e 11.7%).

È probabile che quest’ultima distribuzione sia appunto la descrizione più rispondente alla realtà, poiché oltre a comprendere le varie enfasi che sono comunque presenti nelle risposte, tiene conto sia del criterio operativo che di quello temporale e sembra infine rispettare i diversi accenti personali rispetto alle diverse esperienze.

Per sintetizzare si può dunque affermare: che l’aspetto prevalentemente o esclusivamente formativo, che ad una prima lettura sembrava caratterizzare gran parte delle supervisioni, viene decisamente ridimensionato; che è molto consistente il gruppo di supervisioni volto esclusivamente al lavoro sul caso; e che infine nel gruppo ‘misto’, anche questo consistente, si riflette la tipicità e la peculiarità delle supervisioni nei servizi, laddove effettivamente gli aspetti per così dire applicativi si mescolano all’apprendimento di strumenti.

Le riflessioni che si possono a questo punto avanzare vertono sulle ragioni presumibilmente all’origine della sovrapposizione o confusione fra supervisione e formazione.

Il primo è certamente riconducibile alla forte influenza del modello psicoanalitico, un modello che tende a fare della supervisione un momento di formazione permanente, un processo cioè che ‘raffina’ e perfeziona la persona, ritenuta ‘strumento’ per eccellenza della relazione terapeutica. Questo modello forse transita ambiguamente nell’offerta dei supervisori, specie quelli di formazione psicoanalitica. In realtà il riferimento a questo modello ‘elitario’ appare oggi inadeguato oltre che poco praticabile. Infatti già difficilmente realizzabile per poche persone anche nel privato (e i tempi interminabili di ‘riproduzione sociale’ degli psicoanalisti lo dimostrano), esso poteva forse funzionare come punto di riferimento quando gli psicologi erano pochi. Oggi invece, di fronte ad una quantità di certo cambiata e ad una sorta di proletarizzazione della figura dello psicologo, non solo nei servizi ma anche negli altri luoghi di lavoro, il modello ‘elitario’ rivela ancor più la sua inadeguatezza.

Un secondo motivo forse all’origine della sovrapposizione è solo in parte riconducibile al primo e può essere intravisto nella parallela crescita, personale e professionale, che può caratterizzare una supervisione, laddove la crescita personale può legarsi a importanti percorsi di emancipazione dalla/e figura/e del/i supervisore/i.

La terza ragione di confusione infine è in un certo senso indotta e/o derivata da quella che si è in precedenza definita ‘l’offerta dei servizi’. E la situazione in cui la supervisione anche da un punto di vista formale è ambiguamente definita e classificata come formazione o aggiornamento, ecc.:

 

Il mandato dell’Usi la chiama formazione… bisogna chiamarla formazione/aggiornamento, però di fatto poi porti verbali di gruppo, casistica, fai della supervisione (9.25, P/A).

 

L’intreccio e la sovrapposizione di questi motivi sembra produrre un ambiguo effetto di distorsione percettiva da parte dello psicologo proprio nella rappresentazione del proprio sé professionale. Si avverte cioè uno scarto fra quello che lo psicologo dice di sé (o pensa di dover o poter essere) e quello che effettivamente fa: da una parte un perfettibile e mai raggiunto modello, dall’altra invece una forte autonomia professionale e operativa già ‘raggiunta’. In molti casi insomma il riferimento privilegiato al modello di formazione ideale della psicoanalisi sembra prevalere sulla descrizione dell’operativa realtà di lavoro fino a condizionarne la valutazione. Pare insomma ancora in parte attiva ed operante la sindrome dello psicoterapeuta ideale – già colta da Minguzzi (cit., 215) – ovvero il pensare che la figura dalla professionalità ideale sia molto prossima, se non coincidente con quella dello psicoanalista. E questa convinzione ha una qualche conseguenza nella definizione sociale della professione di psicologo poiché si origina qui la sfasatura fra ‘il fare e il dire’: ovvero fra un’operatività ormai ben definita per modi e contenuti e una rappresentazione del proprio sé professionale che proprio perché continuamente idealizzato rischia di uscirne ridotto o sminuito.

 

 

3. Caratteristiche delle supervisioni ricevute: nel privato, nel pubblico e costi

 

Nel descrivere le supervisioni la prima distinzione da introdurre riguarda il contesto, ovvero il ‘luogo’, l’ambiente in cui esse sono state acquistate, acquisite, offerte: supervisioni private, ricercate e acquistate su di un mercato privato, oppure ricevute o promosse nel o dal servizio.

Queste specificazioni terminologiche non sono superflue, servono invece a descrivere un insieme di situazioni e combinazioni molto più complesso e articolato di quanto si potesse supporre all’inizio della ricerca.

Il dato più rilevante riguarda la presenza dei servizi nell’organizzazione. In oltre la metà delle 152 supervisioni rilevate (il 53.3%) il pubblico ha svolto un ruolo organizzativo o comunque attivo (fig. 6): il 48.7% di queste sono state direttamente organizzate dai servizi (o da quello dell’intervistato/a o da un altro servizio, o altro ente pubblico), mentre in un altro 4.6% di casi il servizio è stato in qualche modo presente. E questo avviene ed è avvenuto nonostante da un punto di vista formale e burocratico non si parli di supervisioni ma, come si è in precedenza visto, di formazione e aggiornamento.

Per contro, il 46.7% di casi (71 supervisioni) è costituito da supervisioni private, ovvero autonomamente ricercate dall’intervistato/a fuori dal servizio pubblico (fig. 6). Anche in questo caso però non significa che esse siano state a totale carico dell’operatore/operatrice, cioè a costi esclusivamente privati. Un’indicazione in questo senso viene dalla voce ‘costi della supervisione’ (fig. 7): mentre in circa il 54% dei casi ha pagato il servizio, in quanto organizzatore, i costi esclusivamente privati sono pari a circa il 29% dei casi, meno cioè della quota di supervisioni organizzate privatamente; si delinea infatti una percentuale del 7.2%, in cui compare un rimborso parziale o totale di queste ultime.

I costi privati si riducono ulteriormente se si introduce l’elemento di riconoscimento formale, ovvero la partecipazione del servizio in termini di orario (oltre che eventualmente di spesa). Solo in una supervisione su 5 circa (= 20.4%) non c’è stato alcun riconoscimento, ne in termini di orario ne in termini di rimborsi; nel restante 74% dei casi il servizio ha ‘contribuito’ in qualche modo (fig. 8): o perché diretto organizzatore, o sotto forma di congedo straordinario (orario di lavoro senza copertura delle spese), o sotto forma di ‘comando’ (orario di lavoro e copertura delle spese), o, infine, con modalità combinate o miste. Poiché ogni servizio ha certamente avuto la propria storia di contrattazioni individuali e/o di gruppo con le strutture, non si possono ovviamente fare troppe generalizzazioni. Ma non si può nemmeno affermare che sempre gli operatori abbiano richiesto senza successo riconoscimenti: ci sono state infatti situazioni in cui, per espressa intenzione degli/lle interessati/e, il riconoscimento non è stata chiesto.

In ogni caso è certa una attiva e consistente presenza del pubblico, che peraltro non sembra essere recente, ma sembra invece avere radici lontane e in qualche modo intrecciate alla storia di Welfare di questa regione. Questi interventi infatti possono essere visti come strutture di retroterra del Welfare, strutture che ‘producevano’ – o contribuivano a produrre – coloro che a loro volta producevano e offrivano servizi.

Per quanto indicato da numeri non ‘grandi’, il peso percentuale delle supervisioni organizzate dai servizi che è andato certo crescendo nel corso degli anni ’80, è infatti già rintracciabile negli anni ’70. A quell’epoca esse rappresentavano il 38.5%, negli anni 80-85 il 44%, in quelli successivi (86-89) il 53%; nei tré anni 90-92 infine, questa quota per quanto leggermente diminuita (48.1%) continua a rappresentare poco meno della metà delle supervisioni rilevate (fig. 9).

Non è possibile per ora verificare se sia effettivamente in atto una controtendenza, con una possibile ripresa delle supervisioni private, a causa di una restrizione di queste attività da parte dei servizi, dovuta a tagli di spesa, oppure se si tratti di un fenomeno casuale e transitorio. Certo è che qualche intervistato (ad esempio 31.15, S/P), riferendosi in particolare a supervisioni didattiche organizzate all’interno del servizio, non ha mancato di sottolineare come “all’epoca (anni ’80) era ancora possibile questo tipo di operazioni che erano molto costose…”, mentre oggi queste stesse attività sono forse più difficili da realizzare.

Ciò che sembra comunque ben delineato è un processo che potrebbe essere definito di progressiva intenalizzazione della funzione ‘supervisione’ da parte del servizio pubblico. Cosa significa e come la si può individuare? Analizzando i dati incrociati per epoca, ovvero anno di inizio della supervisione per ‘tipo di riconoscimento’ (tab. 7) si intravede una tendenza indicativa del rapporto ‘supervisioni, operatori, servizi’.

Esaminando gli anni dall’80 al ’92 (relativi a 128 supervisioni) si possono individuare almeno tre fenomeni:

– la modalità di riconoscimento nella forma di ‘comando'[3] ha un andamento percentuale che decresce dal 1980 al 1992 (passando dal 38.8%, a 36.5%, a 33.3%): ciò significa che gli operatori fanno supervisione fuori dal loro servizio (anche in altro servizio o nel privato) e che questa loro attività viene ‘riconosciuta’;

– decresce nettamente anche la modalità ‘nessun riconoscimento’, che nei 12 anni in questione passa da 28.6% a 14.8%: ciò sembra indicare una diminuzione delle forme solo private di supervisione;

– cresce invece, e nettamente, la modalità ‘organizzata dai servizi’, che passa da 14.3% della prima metà degli anni ’80 al 37% dei primi anni ’90: ciò significa che gli operatori fanno supervisione sempre più dentro ai loro servizi.

Questa lettura sembra sintetizzare il tracciato della ‘funzione supervisione’ nel corso degli anni ’80: riconosciute dai servizi agli operatori che le svolgono ‘fuori’, progressivamente le supervisioni vengono organizzate dentro al servizio, diventando sempre più una funzione e un’offerta anche interna. Anche sotto questo profilo va ovviamente vista oltre che un mutamento di sensibilità (tecnica, culturale e politica) rispetto a tematiche come quella della formazione nei servizi, anche una diversa capacità locale di contrattazione fra i vari soggetti e operatori verso le strutture.

Nel loro complesso questi dati sembrano ormai indicare l’esistenza e l’operatività di un regime ‘misto’, pubblico/privato, sia per quanto riguarda i costi delle formazioni che i costi e l’organizzazione delle supervisioni, un sistema che si è andato costruendo fin dalla fine degli anni ’70 e che ha avuto la sua svolta e il suo consolidamento nella seconda metà degli anni ’80.

Il risultato è oggi una presenza propositiva ed organizzativa del pubblico, un attore sociale almeno comprimario al mercato privato, del quale ha forse finito per modificare alcuni aspetti.

Senza dare nulla per scontato, si tratta ovviamente di vedere se gli anni ’90 modificheranno e in che senso questa realtà.

 

 

4. Altre caratteristiche: orientamenti, durata, luoghi

 

Gli orientamenti

 

Tornando alla descrizione delle supervisioni ricevute e in particolare agli orientamenti, il profilo che ne esce è senza sfumature. Come già a proposito delle formazioni anche rispetto alle supervisioni quello decisamente prevalente è l’indirizzo psicodinamico che rappresenta circa il 64.5% delle totale delle supervisioni, mentre quello sistemico, il più consistente degli altri, è pari al 21.1%, seguito da altri orientamenti pari al 12.5% (fig. 10)[4]. Va segnalato che l’indirizzo junghiano, che pure ha una certa diffusione in Italia, è invece completamente assente nei servizi.

Anche in questo caso si profilano per gli operatori esperienze miste, soprattutto nel caso in cui le supervisioni siano state organizzate dai servizi, ma non solo. Nella tabella 8 si possono infatti osservare gli incroci fra orientamento della supervisione e orientamento prevalente della formazione dello/a psicologo/a: anche se la maggioranza di supervisioni psicodinamiche (76.5%) sono state ‘frequentate’ da psicodinamici, così come la maggioranza di supervisioni sistemiche (78.1%) sono state analogamente ‘frequentate’ da sistemici, esiste una quota restante di fluttuazione, ‘ibrida’, in cui le frequentazioni si sono certamente incrociate. È il caso descritto da più di un/a intervistato/a e sintetizzato da affermazioni quali “era molto interessante l’integrazione fra diversi orientamenti” (26.18, P). Certo è che soprattutto le supervisioni organizzate dai/nei servizi sono state un’occasione per queste forme di esperienze ‘pluraliste’ e di scambio. È il caso di quest’altra intervistata (9.17, P/A) ad orientamento prevalentemente psicodinamico:

 

io con altri scelsi un sistemico, – che però aveva avuto anche una formazione di tipo analitico -, perché con l’utenza che c’era, si voleva fare un lavoro soprattutto con le famiglie, quindi di gruppo.

 

Ferma restando la prevalenza quantitativa delle supervisioni ad orientamento psicodinamico, va tuttavia rilevata una certa equilibrata redistribuzione dei diversi orientamenti per tipo di organizzazione – dei servizi o privata -: sul totale infatti delle supervisioni ad orientamento psicodinamico (pari a 98) esattamente la metà è stata organizzata dai servizi e l’altra metà è privata, così come sul totale delle supervisioni ad orientamento sistemico (pari a 32) la metà è stata a sua volta organizzata dai servizi e l’altra metà è privata (fìg. 11).

In termini relativi, e non assoluti, i dati indicano dunque che i servizi non hanno organizzato ‘più’ supervisioni di un certo orientamento piuttosto che di un altro orientamento.

Le ragioni della prevalenza quantitativa di un indirizzo su di un altro sono probabilmente complesse, e vanno in genere ricercate in forme di consuetudine, ovvero in una progressiva presenza e risonanza nei servizi di alcuni supervisori, o dei loro gruppi di appartenenza, figure che, facendosi conoscere, hanno progressivamente creato ‘mercato’. Nell’esaminare infatti i percorsi e i modi in cui gli operatori sono giunti a quel supervisore è interessante ad esempio notare come fra quelle organizzate dai servizi (tab. 9) abbia un certo rilievo la modalità che si potrebbe definire ‘informazione circolante tra colleghi’ (ovvero supervisore già conosciuto in supervisione di servizio, oppure scelto da colleghi, oppure indicato da colleghi), modalità che caratterizza il 41.4% di queste supervisioni. L’elemento fondamentale è quello della fiducia in chi indica, in chi si fa garante, una fiducia che funziona da amplificatore e che va a definire una sorta di vero e proprio ‘circolo sociale’ degli psicologi (Kadushin, 1966).

Fra quelle non organizzate dai servizi invece (tab. 9) la modalità più consistente è quella delle supervisioni facenti parte dell’organizzazione del training (il 28.8%), seguita dal caso in cui i supervisori appartengono alla stessa scuola o allo stesso orientamento (27.3%) o sono raggiunti – percorso forse simile – per conoscenza diretta, per fama (24.2%).

Va infine segnalata un’altra modalità, ovvero il percorso ‘di ritorno’ dal supervisore conosciuto nel pubblico allo stesso nel privato, per continuare una esperienza incominciata ed evidentemente ritenuta importante (9.1%). Anche questo elemento indica la circolarità o permeabilità che ormai lega le due sponde, quella pubblica e quella privata, del mercato della formazione.

Analizzando questi percorsi invece in chiave di supervisione ‘scelta o non scelta’, l’aspetto non scelto è decisamente prevalente:

sommando infatti le supervisioni in cui i servizi sono direttamente coinvolti (49.6% e 3.5%) e le supervisioni previste nel training (13.5%) si raggiunge circa il 66%, contro un 34% di ‘scelte’ (tab. 9). È chiaro che l’aspetto ‘non-scelto’ va contestualizzato: per quanto riguarda il training la scelta è ovviamente precedente, mentre la possibilità di partecipare alla scelta dei nomi dei supervisori nel servizio o di orientarla è condizionata dal grado di centralità o marginalità istituzionale del ruolo ricoperto dell’intervistato/a all’epoca della supervisione.

Al di là delle posizioni singole, ciò che va comunque sottolineato è che un consistente peso orientativo – se non decisionale – sembra essere quello svolto dai gruppi di colleghi o dello stesso servizio o di altri servizi. In effetti il gruppo, – nella forma di équipe, di gruppo di lavoro, di discussione, ecc. – sembra aver svolto per queste generazioni di psicologi un ruolo molto importante, capace in qualche modo di supplire alla mancanza di storia collettiva e professionale precedente, fino a fornire le basi per un’identità professionale(Angelini, cit., 16). Sotto il profilo della scelta dei supervisori, il gruppo di colleghi referenti sembra aver comunque funzionato da vera e propria stazione informativa.

Questa cultura non individuale e gruppale – e a proposito del proprio lavoro di psicologo, un intervistato ha detto “se uno lavora non può pensare di lavorare da solo” (24.7, P) – si riflette anche nella modalità di svolgimento delle supervisioni: prevale infatti la modalità di gruppo (5-10 persone o più di 10) che riguarda il 56.2% del totale, mentre le supervisioni individuali sono pari al 19.2% e quelle di coppia o a tre persone coprono il 9.3% (fig. 12). Come è ovvio attendersi la modalità individuale è tipica solo delle supervisioni non organizzate dai servizi, mentre fra quelle organizzate dai servizi prevale il gruppo di 5-10 persone.

Una intervistata (36.11, P/S) a proposito della dicotomia individuale/privato e gruppo/pubblico ha ad esempio rilevato:

È una grande differenza che non ha nessuna valenza in positivo… Quella privata è un progetto legato al servizio, ma allo stesso tempo personale… è tutta un’altra cosa… richiede una presenza, viene analizzato su questo, deve valutare come tradurre l’operatività, cioè tutto un lavoro mentale, psicologico, attivo… (Nel servizio invece) se il supervisore viene una volta al mese, una volta la settimana, viene lì, sei in gruppo, (il caso) lo porti tu oppure lo porta un altro. Sei meno impegnato a tradurre cose non note… Ripeto è una grande differenza, il gruppo e il singolo, cioè il pubblico e il privato.

 

 

La durata

 

Delle 152 supervisioni la gran parte (pari a circa F80%) sono supervisioni terminate. Di queste più della metà (il 48%) ha avuto una durata di 1 o 2 anni, il 18.9% dai 3 ai 6 anni mentre quelle di durata inferiore ad un anno sono pari al 12 % (fig. 13). Se è irrilevante la percentuale (1.4%) di supervisioni lunghissime (di 9-10 anni) va comunque notato che circa il 9.2% (facenti parte delle non ancora terminate) ha una durata che va dai 4-7 anni agli 11-12 anni (fig. 14) che potrebbe farle confluire nelle supervisioni lunghe.

Considerando le supervisioni terminate si segnala una tendenza ben delineata ad un accorciamento: mentre negli anni ’70 le supervisioni di 1-2 anni erano percentualmente equivalenti a quelle di 3-6 anni (entrambe a quota 46%), nel decennio degli anni ’80 invece le prime coprono il 55.8% circa di tutte le supervisioni di quegli anni (48 su 86), mentre le seconde sono pari al 25.6% (22 su 86) (tab. 10). La tendenza all’accorciamento è generale e prescinde sia dall’orientamento che dall’ambiente di organizzazione (privato o del servizio): la si riscontra infatti sia nelle supervisioni organizzate dai servizi che in quelle non organizzate dai servizi, ovvero quelle private (fig. 15), sia per quelle ad orientamento psicodinamico che per quelle ad orientamento sistemico (fig. 16).

Un tale andamento va forse collegato ad una progressiva prevalenza della modalità strumentale e finalizzata a degli scopi (affrontare i casi) rispetto ad una modalità ‘stanziale’, in qualche modo ri-conducibile al modello formativo e ‘interminabile’ della psicoanalisi. Il modello ‘interminabile’ ha forse caratterizzato la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, mentre a partire dai secondi anni ’80 la tendenza sembra essere quella descritta.

Una spiegazione può essere cercata proprio nell’affacciarsi del pubblico sul mercato: il fatto cioè che i servizi siano diventati un così importante acquirente (di supervisioni) ha forse segnato e modificato lo stesso ‘prodotto’, rendendolo cioè più agile o più confacente alle esigenze organizzative e formative dei servizi. Insomma ci si potrebbe trovare di fronte ad un vero e proprio caso di ‘contaminazione’, una situazione in cui il pubblico con la sua domanda, le sue esigenze e, non ultima e non meno importante, la sua capacità di acquisto, ha modificato l’offerta del privato, facendo prevalere un modello di supervisione finalizzato e circoscritto nel tempo, più strumento e meno contenitore.

 

 

I luoghi

 

Un’altra indicazione circa l’uso delle risorse formative regionali o extraregionali la si ricava dalla località di svolgimento delle supervisioni e dalla sua evoluzione nel tempo. Se rispetto alla sede di lavoro la metà circa delle supervisioni si è svolta in città diversa da questa, comportando dunque uno spostamento (fig. 17), dal punto di vista puramente geografico invece (fìg. 18), nel 64% dei casi si tratta di supervisioni svolte in regione, con una gran parte a Bologna (il28.7%). Della quota fuori regione (36%) il polo più forte è senza dubbio Milano col 20%, mentre il restante si distribuisce fra Roma, Firenze, Padova, alcune città della Lombardia, e una modalità mista fra la città di lavoro e Roma, Milano o Firenze

Analizzando il fenomeno nel corso del tempo (fig. 19), si rileva che la quota di supervisioni svolte in regione – già consistente degli anni ’70 (58.3%) – è andata via via aumentando nel corso degli anni ’80, passando dal 58% nel primo quinquennio al 73.2% nel secondo quinquennio. Negli anni ’90 si assiste invece ad una diminuzione (59.3%) in lieve controtendenza agli anni precedenti: anche in questo caso il tempo indicherà se ci si trova di fronte ad una vera controtendenza o se si tratta di casualità.

Il fenomeno nella sua distribuzione temporale è probabilmente il risultato di fattori concomitanti e non in alternativa l’uno all’altro:

ovvero una effettiva crescita di risorse regionali, una loro maggiore valorizzazione, e infine una maggiore ‘attrazione’ dei servizi. Si può cioè pensare che siano diventati più numerosi i supervisori della regione e/o che si sia cominciato a ricorrere di più ad essi; oppure che sia aumentato il pendolarismo sulla regione di supervisori esterni forse in concomitanza con l’aumento delle supervisioni organizzate dai servizi e nei servizi; infine è anche probabile che supervisori esterni siano oggi più disposti, più preparati e più interessati di un tempo a lavorare per i servizi, per la ricchezza di esperienze cliniche che l’utenza dei servizi è in grado di offrire. È probabile siano vere molte di queste spiegazioni.

 

 

4.I supervisori

 

Chi sono i supervisori degli psicologi nei servizi pubblici? E possibile tracciarne una sorta di profilo prevalente?

Con qualche cautela la risposta è positiva. In alcuni casi infatti gli intervistati non hanno dichiarato il nome del supervisore, mentre in altri casi si sono mostrati poco informati sulle caratteristiche professionali dei loro supervisori[5] .

Stando indicativamente ai dati rilevati e considerando le distribuzioni dal punto di vista dei singoli supervisori – e non della loro appartenenza a gruppi, correnti o scuole -, si disegna un panorama abbastanza variegato, ben lontano da situazioni di monopolio da parte di qualcuno o di rendita di posizione da parte di altri. D’altro canto se si guarda alla notorietà o meno dei nomi segnalati, vengono sì indicati alcuni supervisori molto conosciuti ma anche (la maggioranza) numerosi altri molto meno famosi.

Sintetizzando dunque le caratteristiche prevalenti si giunge al seguente identikit[6]: il supervisore tipo è medico, uomo, libero professionista, psicoanalista.

Esaminiamo ora le singole caratteristiche.

La grande maggioranza dei supervisori è di formazione medica (circa il 61%), contro una minoranza, comunque consistente, del 27% di non medici; nella quota restante rappresentata dalle situazioni con più di un supervisore si collocano probabilmente sia medici che non medici (fig. 20).

In effetti analizzando i gruppi di appartenenza dei supervisori, nel 36% circa dei casi essi appartengono a gruppi in cui è decisamente prevalente la componente medica (fig. 21): Spi, Tavistock, Psicoterapia e Scienze Umane, scuola di via Ariosto. Restando ai gruppi di appartenenza la seconda associazione più consistente è quella dei Sistemici (15.2%), mentre nell’aggregato maggioritario (47.7%) è raggruppata una ventina di altre associazioni.

Una seconda caratteristica significativa riguarda la loro collocazione professionale e lavorativa (fig. 22): il 65.4% dei supervisori è libero professionista, l’8.3% è docente universitario, mentre il 12% invece è operatore del SSN, di un servizio diverso da quello degli/delle intervistati/e. Va infatti rilevato come le supervisioni svolte da questi ultimi non siano state classificate come ‘supervisioni fatte da colleghi’ provenienti da altro servizio; sono state invece indicate alla stregua di supervisioni fatte da un libero professionista esterno al servizio[7]. Nel 56% dei casi sono supervisori uomini, nel 36% sono donne, mentre nella quota restante, trattandosi di più di un supervisore, non è possibile distinguere (fig. 23).

L’ultima caratteristica infine, ma non la meno rilevante, riguarda la specializzazione, che riprende ed enfatizza il peso degli orientamenti psicodinamici: il 50.7% dei supervisori è psicoanalista con una forte prevalenza di psichiatri/neuropsichiatri (fig. 24).

La supervisione in quanto tale sembra dunque essere una prerogativa quasi esclusiva di una figura di ‘tipo’ libero-professionale esterna al servizio, con un profilo dominante che sembra riprodurre e riportare all’interno dei servizi la tipologia prevalente del mercato privato.

Ma anche in questo caso la situazione è in realtà meno monolitica di quanto possa apparire ad un primo esame. Infatti se è vero che i caratteri dominanti sono quelli descritti, non va tuttavia sottovalutato il rilievo dei caratteri ‘non-dominanti’: in particolare l’essere donna e/o non medico e/o operatore del SSN, presi insieme o singolarmente assume un peso che non può essere trascurato, soprattutto in prospettiva. Percentuali come quelle descritte sono infatti consonanti a tendenze osservabili proprio nelle libere professioni psicoterapiche: in particolare la tendenza alla demedicalizzazione – ovvero alla perdita di peso della formazione medica – e alla femminilizzazione che già si possono osservare proprio nel gruppo tradizionalmente più ‘medicalizzato’, quello degli psicoanalisti freudiani della Spi (Trasforini, cit., 75-91).

 

 

6. Supervisioni erogate

 

Accanto alle supervisioni ricevute, un altro aspetto che la ricerca ha messo in luce è quello rappresentato dalle cosiddette ‘supervisioni erogate’.

In mancanza di una definizione più soddisfacente, col termine ‘supervisioni erogate’ si sono intese sia le attività di supervisione in senso stretto, che quelle di consulenza e di supporto, che gli psicologi offrono ad altri operatori dello stesso servizio o di altri servizi, rispetto ad un caso oppure in una situazione di emergenza oppure in una normale situazione di lavoro.

Questa definizione nel corso delle interviste ha in realtà finito per svolgere la funzione di ‘contenitore’ comprendente un ventaglio piuttosto largo di attività che non sembrano trovare altrimenti collocazione. Poiché non è semplice ne la definizione ne la descrizione operativa di questo insieme di attività, e non è d’altronde possibile fare troppe generalizzazioni, si è preferito restituirne la complessità attraverso i molti usi.

Al di là dei diversi contenuti, ciò che accomuna tali attività è la ‘posizione’ dello psicologo, una posizione esterna al luogo di azione dell’altro operatore, che riproduce appunto quella del supervisore nella supervisione per così dire classica. Il contesto è sempre un contesto istituzionale e gli interventi in genere riguardano quelle figure professionali dei servizi (quali assistenti sociali, educatori, ecc.) con ‘una forte responsabilità nei riguardi delle fasce più deboli della popolazione (handicappati, anziani, minori a rischio, ecc.) in un ruolo che prevede una prolungata esposizione al rapporto con l’utente e la famiglia’ (Badolato, Collodi, cit., 204). Non sfugge ovviamente il peso e il rilievo che su questa attività viene ad avere l’esperienza delle supervisioni ricevute: essa ne costituisce una sorta di riproduzione e riapplicazione, lungo un riconoscibile – e peraltro dichiarato dagli intervistati – percorso di continuità.

Data la variabilità e la disomogeneità di questa pratica, non è stato possibile operare su ciascuna supervisione erogata la stessa precisione descrittiva delle supervisioni ricevute. Meno puntuale e più quotidiana, più diffusa e meno codificabile, essa è infatti inscrivibile, come molti intervistati hanno dichiarato, nel lavoro quotidiano del servizio. I dati rilevati vanno pertanto presi più come indicatori qualitativi che non quantitativi, anche se non mancano alcuni suggerimenti in questa direzione che riguardano la diffusione, la frequenza e il luogo.

Partiamo dunque da questi ultimi.

Nonostante molti distinguo e precisazioni, solo 4 dei 35 intervistati dichiarano di non erogare supervisione, mentre 25 dichiarano di praticarla e altri 3 dichiarano di fare solo consulenze o lavoro di équipe (3 risposte mancano). La frequenza è disomogenea: fra coloro che la praticano, o l’hanno praticata, alcuni (6) dichiarano di averne fatte ‘tante’, altri (5) dichiarano di farla ‘regolarmente’, altri ancora (11) dichiarano di averne fatte ‘alcune, o poche o pochissime’ (il dato manca in 6 casi). Circa la metà (12) di coloro che dichiarano di fare supervisione la fanno solo o prevalentemente nello stesso servizio, mentre quasi altrettanti (13) anche o solo fuori dal proprio servizio. Per la maggioranza (17 intervistati/e) si tratta di un ‘intervento’ su casi di altri operatori mentre per altri 5 l’intervento riguarda anche l’organizzazione del lavoro. A ribadire infine la non eccezionalità di questa attività è il dato relativo alla scadenza: più della metà delle risposte (62%) si riferisce a supervisioni che hanno o hanno avuto una scadenza programmata (settimanale, o quindicinale o mensile), mentre nei casi restanti si è trattato di interventi suggeriti dal bisogno dell’operatore o dalla contingenza della situazione.

Passando ora alle caratteristiche generali e qualitative di questa pratica, una prima osservazione da farsi riguarda l’atteggiamento degli/delle intervistati/e nelle definizione di questa attività ovvero una tendenziale reticenza a definirla ‘supervisione’:

 

Io non oso chiamarla supervisione, perché ho un concetto della supervisione di chi ha un’esperienza piuttosto lunga in determinati campi, io la chiamerei piuttosto consulenza (9.29, P/A); sarebbe pomposo chiamarla supervisione (24.14, P); forse è un eccesso chiamarla supervisione però… (19.21, P).

 

Tale atteggiamento reticente si è spesso modificato nel corso dell’intervista, fino a riconoscere, attraverso diversi passaggi e distinzioni, il carattere di supervisione ad alcune attività, quasi che solo passando attraverso uno sguardo esterno (in questo caso in quello di chi faceva l’intervista) lo/a psicologo/a si ‘autorizzava’ a parlare di supervisione:

 

Non era una supervisione vera. Altre cose informali nel servizio sì, a dei giovani, … gli altri non la considerano tale, ma anche lì, informalmente. Alla fine di un colloquio, oppure per un caso molto impegnativo (36.11,P/S).

 

Da parte di alcuni/e non è vista come supervisione nel caso si tratti di colleghi, mentre lo è nel caso di altri operatori:

 

Io non ho fatto supervisione, io ho fatto il supervisore, ma questo ad educatori e questo da anni (32.19, A).

 

Questa affermazione sembra indicare una forma di scissione fra la forma e il contenuto della supervisione. Tale scissione valorizza l’esistenza di una sorta di gerarchia professionale che da una parte enfatizza il sistema delle relazioni e dei rapporti e dall’altra proietta le sue conseguenze sulla definizione di supervisione o addirittura sottostà sia alla definizione che alla pratica della stessa. Il dichiarare infatti che si fanno supervisioni nei servizi è dichiarare il contenuto di un’attività (ad esempio ‘un intervento su un caso’). Il dichiarare invece che si è anche supervisori, ma solo con certi operatori nei confronti dei quali esiste una ‘più elevata’ posizione gerarchica, rinvia alla convinzione che la supervisione comporti necessariamente una dissimmetria, con un supervisore che rispetto al supervisionato ha ‘un di più’ non solo di sapere ma anche di status[8].

Ancora una volta ci si ritrova di fronte ad una realtà operativa, ad un lavoro sul contenuto a cui non sembra corrispondere una adeguata rappresentazione o una adeguata forma.

 

 

Una tipologia

 

A partire dalle risposte fomite è stato possibile ricostruire una tipologia orientativa con modelli che più che escludersi a vicenda, in genere coesistono, disegnando una significativa mappa di attività. Quelle che seguono sono i tre tipi identificati in base all’utenza (cioè ai supervisionati) e ad alcune caratteristiche di svolgimento: 1) supervisioni nel gruppo di colleghi/e (psicologi/ghe), 2) supervisioni a/fra colleghi/e (psicologi/ghe), 3) supervisioni ad altri operatori.

Va premesso che le più numerose sono quelle del terzo tipo, che le prime due sono state tenute distinte nonostante abbiano più di un tratto in comune, e infine che la vera differenza è fra queste prime due e la terza. Tutti e tre i modelli sono invece accomunati dall’oggetto che è dato in genere da uno o più casi e dall’essere svolte come normali attività di servizio.

 

1. Il primo tipo descrive una situazione interprofessionale di discussione e scambio fra colleghi dello stesso servizio in un gruppo di lavoro con cadenze periodiche. Sono luoghi di discussione dei casi, spesso risultato di un’autorganizzazione spontanea da tempo praticata nei servizi:

 

Noi come settore, … psichiatria infantile e psicologia dell’età evolutiva… avevamo settimanalmente una discussione di tutti i casi… Ciascuno in quel contesto offriva quanto era di propria pertinenza, una supervisione al collega, all’analista, e viceversa. Perché questo è un dato importante della cultura dei servizi… offrire una consulenza e una supervisione su alcuni aspetti nei quali c’è maggiore competenza… (37.20, S).

 

Fra colleghi la supervisione è anche vista come un “tentativo di unificare una risposta attraverso una metodologia comune” (38.1, S).

 

Noi abbiamo fissato due ore al lunedì mattina… ci troviamo in gruppo e si parla di casi… È stata una cosa molto spontanea… abbiamo sentito l’esigenza di avere uno spazio nostro per fare nostre cose, invece di correre come dei matti… Il lavoro che facciamo è una cosa molto mista, forse non la si può chiamare supervisione per certi aspetti… se si considera solo quello. Stavo pensando che forse si fa supervisione a tutta un’altra serie di persone… di figure professionali… Se l’educatore si trova in un momento particolare chiede… di poter parlare di una determinata situazione in questo caso tu gli fai supervisione (15.12-13, P).

 

Ci sono anche situazioni in cui la cornice e la funzione della supervisione è ben delineata:

 

Attualmente io faccio supervisione a colleghi se lo chiedono e quindi a loro discrezione, finora in gruppo strutturato… Quando loro hanno necessità io sono lì (32.20, A).

 

Fino al caso in cui è auspicata la creazione di una vera e propria situazione stabile di supervisione all’interno del servizio:

 

… Io sto maturando negli anni la convinzione che è assolutamente indispensabile. Nel mio caso ho fatto riferimento al privato perché nel mio orientamento non avevo la possibilità di farla nel servizio pubblico, perché non ci sono colleghi che abbiano una formazione avanzata nel mio stesso orientamento. Così è stata una causa di forza maggiore. Al di là di questo sarebbe molto utile potere mantenere il lavoro di supervisione all’interno del servizio, almeno all’interno del gruppo di colleghi, un gruppo ristretto… (22.10, P).

 

2. Il secondo tipo si riferisce ad uno scambio duale, fra colleghi/e psicologi/ghe in caso di difficoltà. Prevale qui il carattere occasionale – anche se sono state segnalate situazioni di confronto duale regolare – e il bisogno di un parere esterno. A differenza dalla prima tipologia che ha un carattere più strutturato, questa seconda modalità è più informale, mirata all’operatività e fondata sulla fiducia “Sto facendo questa cosa, cosa ne pensi?” (37.20, S). Un intervistato (24.7, P) aggiunge che questa attività è “possibile su base volontaria e di fiducia reciproca” in modo sia informale che formalizzato.

 

Ci sono delle situazioni – dice un altro (26.21, P) – in cui di fatto si viene richiesti, implicitamente più che esplicitamente a un ruolo di supervisori. Cioè una domanda del tipo: cosa ne pensi di questo caso che seguo io? Oppure, ho fatto così, cosa ne pensi? Al di là delle definizioni formali… di fatto diventa supervisione, ma niente di strutturato ne di formalizzato… A me è capitato che ci fossero colleghi psichiatri che mi hanno chiesto di parlare di un caso seguito da loro… senza usare la parola supervisione, di fatto la funzione era questa informale o occasionale. E mi è accaduto più di una volta… (26.26, P).

 

Come sottolinea quest’altro intervistato (37.18, S) c’è comunque una differenza importante fra questi tipi di supervisione e quella con un supervisore che viene da fuori:

 

Direi che è una supervisione culturalmente diversa da quella a cui siamo abituati, perché non parte dal presupposto di maggiore competenza, contando su colleghi che hanno grosso modo un’esperienza pari alla mia in termini lavorativi. È basata sul criterio dell’osservatore esterno ed è la proposizione del modello che noi abbiamo appreso… con la differenza che là c’è una supervisione anche gerarchica.

 

C’è anche una forma supervisione ‘indiretta’ rivolta ai colleghi più giovani che ha lo scopo di “togliere i colleghi dai guai” (31.21,S/P).

Non mancano però forti riserve da parte di qualcuno, convinto invece che il gruppo paritario dei colleghi non consenta l’esistenza di un primus inter pares:

 

Credo che la supervisione fra colleghi non sia proponibile. Credo che complicherebbe i rapporti di colleganza se uno di noi facesse supervisione agli altri. Noi stiamo cercando di vedere se fare una supervisione di gruppo in cui si discute insieme, ma in cui nessuno è supervisore del gruppo. Nel momento in cui abbiamo avuto voglia di supervisione, anche come coordinamento degli psicologi, abbiamo chiamato uno psicoanalista. Avremmo potuto chiamare un collega di un’altra Usi (35.14, P/A).

 

3. Il terzo tipo infine si riferisce all’attività prevalente, ovvero il lavoro di consulenza e/o supervisione a operatori di professionalità diversa. Individuale o di gruppo, con carattere periodico e concordato oppure occasionale e basato sull’urgenza, essa è in genere rivolta alle seguenti tipologie di operatori e comporta una qualche forma di asimmetria: assistenti sociali, infermieri, educatori, insegnanti, assistenti domiciliari e di comunità, ostetriche, fisioterapisti, logopedisti, ecc.

Anche in questo caso si riscontra una iniziale negazione a definire supervisione questa attività:

 

non la erogo a psicologi ma a figure professionali del pubblico, quindi non si tratta di una supervisione vera e propria con i connotati specifici della supervisione che io ho ricevuto (18.12, P).

 

Un’altra intervistata (13.16, P) si riferisce qui al lavoro di seguire

 

gli educatori che seguivano bambini difficili, però io non la ritengo una supervisione… per me il discorso della supervisione è più legato allo specifico professionale e non ad altre professionalità. Magari si fa anche tutti i giorni sul lavoro, col servizio sociale, si discutono i casi che vengono seguiti, forse anche quella è supervisione.

 

Supervisione per l’intervistata è quella su casi a colleghi che fanno una valutazione diagnostica o che fanno psicoterapia. La supervisione che lei fa è di un altro tipo,

 

ovvero aiutare l’altro a leggere una situazione, anche in termini dinamici, ma non finalizzato ad un lavoro clinico che l’altro fa, ma ad un intervento o educativo o sociale o d’altro, ma sempre una lettura rispetto al caso (13.17, P).

 

E ancora un’altra intervistata (19.21, P) afferma a proposito di un suo lavoro con un logopedista:

 

Forse è un eccesso chiamarla supervisione, però diciamo che come taglio era più su un taglio psicodinamico di ciò che accedeva fra il riabilitatore e il paziente… una metodologia nel senso di richiedere comunque che l’operatore possa riflettere su qualche cosa che sta andando oltre la proposta tecnica.

 

 

7. Il sapere flessibile dello psicologo

 

Se è vero che le caratteristiche di questa attività non consentono di parlare di supervisioni in senso stretto e secondo il modello prevalente della pratica psicoanalitica – che spesso fa da sfondo e riferimento -, ciò che si configura è forse un’altra attività, a cui andrebbe trovato un nuovo nome. Una pratica complessa, a più facce, che comporta elementi di sostegno operativo, controllo di qualità sugli interventi di altri operatori e infine orientamento delle loro attività rispetto ai casi che seguono. Con essa lo psicologo sembra svolgere un ruolo di snodo, di transito di conoscenze, di trasmissione nel sociale delle stesse, mettendo in atto una ricaduta di una tecnica, di un metodo di relazione, di uno ‘sguardo’ appreso prevalentemente nella supervisione a modello psicoterapico, ma non solo lì: è un ruolo di ‘formazione’ e di ‘informazione’. Quello descritto sembra insomma essere un luogo privilegiato di quel processo di diffusione di strumenti e modelli interpretativi legati alla psicoterapia che però non si esauriscono in essa. È una sorta di trasmissione a catena: il supervisore psicoanalista trasmette allo psicologo, lo psicologo trasmette agli altri operatori.

Tale funzione di trasmissione ha anche formalmente un riscontro empirico: la gran parte deglidelle intervistati/e svolge o regolarmente o occasionalmente una qualche attività di vera e propria formazione, ancora rivolta ad altri operatori (scuola infermieri, insegnanti, ecc.) per lo più nel pubblico e consistente in un vero e proprio insegnamento (es. seminali, lezioni ma anche discussione di casi, ecc.)[9].

L’intervento dello psicologo sembra dunque direttamente o indirettamente investire e modificare tutte le altre professionalità presenti nei servizi, con una funzione di integrazione, orientamento, sostegno, costante, contingente o emergenziale a secondo delle circostanze, con l’effetto comunque di costituire e costruire un quotidiano raccordo e punto di comunicazione fra varie figure professionali e varie aree, ‘omogeneizzando’ gli interventi. Si intravede forse quella cultura che va oltre “la tecnicalità delle singole professioni, per dare spazio ad un orientamento all’utente, condiviso e consapevole tra tutte le categorie di operatori” (Carli, cit., 13).

In questo ruolo sembra insomma oggi risiedere una delle specificità funzionali dello psicologo rispetto all’organizzazione e forse alla stessa qualità del lavoro ‘di confine’ di un servizio. E la qualità di questo intervento sembra essere tipica dello psicologo e non spartibile con altri, ad esempio con i medici.

Figura bifronte, da una parte lo psicologo volge ancora la propria attenzione (o aspirazione) ad un modello ideale esterno da sé (lo psicoanalista), da cui ha comunque tratto e trae modelli di professionalità e rinforzo della stessa (una professione che nella realtà è sempre meno pura e sempre più contaminata in molteplici attività); dall’altra parte, di fatto, se ne è allontanato, avendo nel frattempo costruito e definito spazi propri di azione, di relazione e dunque di professionalità.

E a questi spazi lo psicologo per primo dovrebbe forse cominciare a riconoscere più specificità ed più autonomia.