Le depressioni materne nel periodo perinatale

di Monique Bydlowski

(Monique Bydlowski è psichiatra e psicoanalista, direttrice di ricerca all’INSERM, responsabile del laboratorio di ricerca presso il reparto di Maternità Port Royal, “Psychopatologie de la Périnatalité”, Hôpital Tarnier, Parigi. –

Questo lavoro è stato presentato al Seminario su “Maternità e disagio psichico”, svoltosi a Firenze, presso il Centro di formazione Il Fuligno, il 24 settembre 2010, organizzato dal Servizio di Salute mentale Infanzia e Adolescenza dell’ASL di Firenze- Sud Est in collaborazione con l’A.F.P.P. E’ stato pubblicato nel numero 45/2011 della rivista “Contrappunto” corredato dalla bibliografia francese e sul sito www.maternitainteriore.com

Traduzione di Luigia Cresti e Laura Mori)

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Cenni storici

La follia puerperale e gli infanticidi neonatali sono conosciuti da sempre. La maternità può essere l’occasione di patologia mentale e di disturbi del comportamento di diversa gravità. Nel XIX secolo, quando si costituì il sapere psichiatrico, Esquirol propose la “follia della puerpera” o quella della nutrice come modello della mania. Il suo allievo F. Marcé, nel 1858,  catalogò un gran numero di casi psichiatrici materni insorgenti intorno alla nascita; spesso confusi con le “febbri da latte” (complicazioni infettive del parto attualmente scomparse), gli incidenti psichiatrici peri-  e post- natali sono stati progressivamente ben individuati.  Più recentemente, l’epidemiologia moderna mostra la predominanza femminile degli stati depressivi nella popolazione generale.

Si tratta di donne di 25-45 anni (E.F. Paykel, 1991) e questa fascia di età è anche quella delle gravidanze e delle maternità e della vulnerabilità psichica che le accompagna.  Parallelamente i lavori epidemiologici anglosassoni (B. Pitt, 1968; P.J. Cooper et al., 1988; J. Cox, 1989; R. Kumar & K.M. Robson, 1984) studiano le depressioni peri e post natali (PND=post natal depression). Altri studi si riferiscono alla loro dimensione psicodinamica e alle prospettive terapeutiche.

Le depressioni post-natali

Per qualificare questi stati si è imposto il termine di “depressione”. Il termine stesso merita una discussione: sul piano fenomenologico evoca la tristezza dell’umore, il disinteresse per gli oggetti abituali, il rallentamento psichico che si può anche misurare (O. Rosenblum, 1995). D’altronde, da un punto di vista psicodinamico, il termine di depressione indica la perdita dell’oggetto esterno o interno, il sentimento di lutto. Il  termine di depressione non ha una sua specificità ma permette essenzialmente ai professionisti di comprendersi fra loro.

Con l’espressione “depressione materna” possiamo così descrivere degli stati psichici molto diversi sia nelle loro manifestazioni cliniche che nella  prognosi e che hanno mobilitato l’interesse della comunità scientifica a causa del loro impatto negativo sul bambino. La depressione atipica post-natale  Minuziosamente descritta dagli psichiatri anglosassoni (B. Pitt, 1968; J. Cox, 1989; R. Kumar & K.M. Robson, 1984; M.W. O’Hara, 2001), la depressione atipica può a volte diventare una vera patologia mentale. Essa non deve essere trascurata nè dall’ambiente della puerpera né dai professionisti. L’auto-questionario EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale), messo a punto da Cox et al. nel 1987, ne ha permesso il dépistage in maniera facile ed affidabile dall’ottava settimana dopo il parto.  Questa patologia colpisce almeno il 10 per cento delle puerpere; spesso è massicciamente e curiosamente sottovalutata, il malessere silenzioso delle madri può passare inosservato. Non è senza dubbio inconcepibile essere depresse quando l’immagine convenzionale e idealizzata della giovane madre è quella di una donna appagata? Le donne stesse non osano confessarlo e prendono a pretesto la fatica e le cure da dare al neonato per non consultare uno specialista.

Nel caso di una prima maternità le giovani madri fanno fatica a decifrare il disturbo psicologico che le opprime,tanto più che il loro corpo subisce anche delle modificazioni ormonali. Se esse non hanno la possibilità di beneficiare di un ambiente protettivo e caloroso il loro malessere rischia di durare. Inoltre l’idealizzazione della nascita umana predomina sia tra i familiari della puerpera che tra  i professionisti e rende difficile distinguere le situazioni patologiche. È  spesso il medico generico o molto più tardi il pediatra consultato a comprendere retrospettivamente il profondo malessere che queste madri hanno attraversato e continuano a provare.  Eppure le manifestazioni compaiono già dalle prime settimane dopo il parto.

Dopo che è passato il clamore dei giorni che seguono la nascita, la giovane madre resta affaticata, non si adatta al carico sia emotivo che pratico rappresentato dalla presenza del  neonato e si ritira in un disinteresse e in un rallentamento che devono mettere sull’avviso l’ambiente. Secondo J. Cox il quadro è completo e tipico dalla sesta o ottava settimana.  Questa depressione postnatale è torpida, dura dei mesi senza miglioramento spontaneo e, non curata, trasforma il primo anno di vita comune con il bambino in una prova dolorosa. Essa rischia inoltre di intralciare il primo sviluppo del piccolo poiché lo scambio quotidiano e gioioso con una giovane madre è un nutrimento vitale essenziale.

Il punto importante è in effetti la ripercussione  dello stato materno sulle interazioni precoci che la madre sviluppa con il suo bebè. L’empatia materna è necessaria per creare lo stato emotivo del bebè ed è un prerequisito alla costituzione dell’intersoggettività. E. Tronick (1984) ha dato un modello di questi dis-funzionamenti interattivi mettendo a punto il dispositivo della “still face”; questa prova si svolge in modo sperimentale in laboratorio con una diade madre-bebè di circa 5 mesi , reputata sana. In un primo tempo la consegna data alla giovane madre è di giocare in modo naturale con il bebè; in un secondo tempo le si chiede di cessare ogni comunicazione e restare impassibile; i due tempi sono filmati.

Nel corso del primo tempo il gioco interattivo tra madre e bebè comporta delle mimiche, dei vocalizzi e dei sorrisi condivisi; nel secondo tempo si osserva che il  bebè cerca prima di “rianimare” la madre, e siccome, seguendo la consegna, lei non reagisce, il bambino si affatica, piange un po’, poi si ferma e si ritira lui stesso dalla comunicazione (E. Tronick e M.K. Wendberg, 1997).  Per gli sperimentatori questo ripiegamento del bambino è illustrativo di ciò che succede quando una madre è depressa, incapace di essere in empatia e in sincronia con il suo bebè e nessuna persona proveniente dall’ambiente del bebè è in grado di sostituire questa funzione.

In altre situazioni cliniche il malessere silenzioso della madre  è minore, mentre domina l’ansietà. In questi casi le interazioni con il bambino possono essere al contrario iperstimolanti, ma discordanti con i bisogni spontanei del bebè e quindi patogene.  Gli studi epidemiologici di L. Murray et al. (1996) hanno mostrato che il 25% dei bambini esposti alla depressione postnatale erano a rischio di disturbi dello sviluppo cognitivo e affettivo. In uno studio longitudinale di molti anni l’autrice mostra che questi disturbi saranno, quanto  meno, responsabili di disadattamento scolare.

I lavori attuali concordano sull’esistenza di fattori che accentueranno il rischio del determinarsi di questi stati depressivi postnatali. Abbiamo già considerato quello che rappresenta l’idealizzazione della nascita e della maternità, che rende ciechi alle situazioni non conformi ad un modello ideale. Le condizioni socioeconomiche in ambienti sfavorevoli sono altri fattori di rischio: precarietà sociale, solitudine, assenza del compagno e della famiglia capaci di contenere la puerpera e di supplire a una temporanea debolezza se il parto è stato complicato. Ugualmente negativi sono la ripresa troppo precoce del lavoro e lo svezzamento che comporti una separazione brutale dal bambino.

Altri fattori di rischio sono delle condizioni particolari che accompagnano la nascita, quali  la prematurità e l’ospedalizzazione del neonato o una precedente morte fetale che tende a polarizzare la giovane madre verso tematiche di lutto non risolto.  Il trattamento della depressione atipica è necessariamente relazionale; esso è  ostacolato dalla reticenza a consultare e sarà spesso l’atonia del bebè che segnalerà la presenza del disturbo. Il ristabilirsi della funzione materna nella giovane donna può essere facilmente ottenuto da curanti che siano non tanto super qualificati, ma attenti e disponibili. È spesso più facile farlo sottoforma di visite a domicilio (L. Appleby, 2001; L. Conquy et al., 1998).

Le psicosi acute postnatali riguardano soltanto una puerpera su 2-3mila, ma la loro comparsa nella fase perinatale è sempre spettacolare. Si tratta molto frequentemente di giovani donne primipare e senza antecedenti , per le quali  sarà elevato il rischio di recidiva nella gravidanza successiva. La clinica è così poco specifica che questa patologia non figura così com’è nelle classificazioni moderne di salute mentale, tipo DSM-IV.

Il quadro clinico si instaura bruscamente fin dalle prime settimane del post-partum; si tratta sia di uno stato melanconico acuto con prostrazione e rischio di suicidio- e questo suicidio coinvolge spesso il bambino- sia di uno stato maniacale mescolato a elementi depressivi improvvisi e il rischio è identico. A volte il quadro è quello di una bouffée delirante acuta (BDA) che si associa a disturbi dell’umore e a disturbi della coscienza; molto spesso vi è un diniego della nascita del bambino.

Non vi è alcuna difficoltà a identificare la psicosi  quando ci si trova davanti alla confusione e all’aumento dell’eccitazione; non c’è nessuna correlazione tra la prognosi e il carattere rumoroso dei disturbi, che induce ad offrire un trattamento attivo; la durata spontanea è relativamente breve, da qualche giorno a qualche settimana. Si tratta di norma di una donna che ha già partorito da meno di sei settimane; il primo segno di sofferenza psichica è spesso l’insonnia, la puerpera non ha ripreso il suo ritmo di sonno dopo il parto, circostanza ancora aggravata dalle cure verso il nuovo nato. La preoccupazione dell’ambiente e la paura giustificata dell’infanticidio condurrebbero spesso a misure di isolamento della giovane madre e di separazione dal bambino; ma tale separazione aggrava il diniego della nascita e pregiudica la costituzione del legame madre-bambino.

Tutte le strategie terapeutiche moderne tendono ad evitare questa separazione, istituendo sia una ospedalizzazione congiunta madre-bambino in un reparto specializzato sia una presa in carico ambulatoriale (con ospedalizzazione di giorno e di notte) se è possibile una collaborazione terapeutica con la famiglia.  Va ricordato che le prime Unità Psichiatriche Madre-Bambino, create da C. Kumar in Inghilterra (1984), avevano proprio l’obiettivo di lottare nello stesso tempo contro il rischio infanticidio e contro gli effetti peggiorativi della separazione. In genere la guarigione clinica viene ottenuta in poche settimane, grazie  al mantenimento del legame tra madre e bambino e ai neurolettici appropriati.

 Nel 1961, P.C. Racamier ha pubblicato uno studio relativo a quindici donne ospedalizzate in ambiente psichiatrico chiuso, dopo un episodio di psicosi puerperale. L’abilità di questo autore è di aver mostrato che questi casi, nonostante fossero segnati dal marchio della patologia grave, testimoniavano il sopraggiungere di cambiamenti reversibili dello psichismo concomitanti alla maternità. Ne ha generalizzato l’esistenza forgiando il concetto di “maternalità”; la psicopatologia postnatale anche grave sarebbe dunque l’evoluzione conflittuale di processi normali. P.C. Racamier ha avviato così una concezione psicodinamica e psicoanalitica dei disturbi della maternità.

Gli stati psichiatrici cronici preesistenti alla maternità

La gravidanza e la maternità costituiscono circostanze che favoriscono lo scompenso di situazioni psicopatologiche rimaste latenti dalla fine dell’adolescenza; esse sono spesso contenute  e restano latenti grazie ai trattamenti ambulatoriali con neurolettici, ma la gravidanza porta con sé il rischio di uno scompenso. Si può presentare così tutta la gamma delle psicopatologie adulte, come gli stati affini alla psicosi maniaco depressiva (PDM): depressioni profonde, tentativi di suicidio, sub-eccitazione cronica. Anche l’infanticidio neonatale può essere in rapporto con  questa condizione, spesso misconosciuta  e bruscamente riacutizzata dalla gravidanza e dal parto.

La prima maternità può talora portare in luce anche una schizofrenia rimasta fino ad allora latente. Questa pesante patologia pone una notevole difficoltà di presa in carico quando esplode in un ambiente ostetrico non preparato ad affrontare la malattia mentale. Anche in questi casi si dovrebbe tentare un intervento  congiunto  rivolto al bebè e alla madre, sia nell’Unità Psichiatrica Madre-Bambino sia in consultazioni ambulatoriali madre-bambino, ricorrendo a tutte le possibilità offerte dai sistemi socio-sanitari (ostetriche e puericultrici a domicilio, Protezione Materno-Infantile, collegamenti con i Servizi per l’Infanzia e l’Adolescenza).

In tempi più recenti sono state individuate le patologie borderline (O.F.Kernberg,1989; G.Apter-Danon,2004), caratterizzate dall’impulsività incontrollata,i passaggi all’atto anziché la fantasmatizzazione, il ricorso alle droghe. Le giovani donne di questo tipo presenteranno una difficoltà particolare a entrare in sincronia ed empatia in maniera continuativa col proprio bebè (L.E.Crandell et al.,2003). L’intervento psicodinamico  Attualmente si sa che la nascita di un bebè fa rivivere ad ogni genitore, e in particolare alla giovane madre, i momenti conflittuali della  prima infanzia e le difficoltà  dell’attaccamento vissute personalmente: la comprensione psicodinamica dei disturbi psicopatologici post-natali  poggia perciò su due assi.

Il primo asse è quello che attiene alla relazione d’ambivalenza insita nel legame che la neo-madre  stabilirà col proprio neonato; per quanto desiderato sia il bambino, in una qualche misura  egli si  impone  necessariamente come un rivale narcisistico; ogni madre deve confrontarsi con la “violenza fondamentale” (J.Bergeret, 1970) inerente all’essere umano che suscita tale rivalità. Una donna sana, con un solido narcisismo, avrà la capacità di lasciare il posto ad un altro, il proprio bambino, senza provare il sentimento o la paura di essere distrutta, e riuscirà ad integrare tali sentimenti  in una corrente di tenerezza e creatività.

Al contrario una donna con basi narcisistiche fragili sarà in difficoltà di fronte a questa violenza interna, senza riuscire ad erotizzarla, e la sua ambivalenza nei confronti del bambino prenderà il sopravvento. Si può comprendere quindi quanto sia difficile per donne narcisistiche  “borderline” l’adattamento alla maternità; il rischio in tali casi non è tanto quello della loro depressività, quanto piuttosto che esse assumano comportamenti inadeguati con il bambino, quali violenza, negligenza o viceversa  un eccesso di sollecitudine non adeguata.

L’altro asse di comprensione della psicopatologia materna è quello del fallimento della funzione di contenimento per la futura madre; intendiamo dire cioè che le donne che hanno subito esperienze di carenza precoce si troveranno in difficoltà durante la gravidanza e dopo la nascita del bebè. Il bambino, in quanto rappresentante di un oggetto interno minaccioso, potrà essere vissuto come persecutore.

La donna, pervasa dalla vergogna di non essere conforme al suo ideale di madre, non potrà far altro che deprimersi o difendersi di fronte all’irruzione delle richieste insostenibili del bambino. Per i fautori della teoria dell’attaccamento sono cioè i disturbi precoci del proprio attaccamento, vissuti un tempo da questa donna, che le renderanno così difficile vivere il  post-nascita del proprio bambino (R.Kumar, 1994). Prospettive terapeutiche.

Il trattamento di questi stati depressivi è reso più difficile anche dal contesto: l’atteggiamento frequente di incredulità dell’ambiente circostante,l’esigenza di cure al neonato rendono la donna poco disponibile e poco incline a lamentarsi per il proprio stato; eppure gli effetti negativi,che non mancheranno di farsi sentire nei mesi seguenti, rendono il trattamento davvero urgente. Una volta finito il periodo di frequentazione della Maternità, vi è il rischio che l’unico professionista consultato sia il pediatra; ma  le buone parole non bastano più di fronte a questa patologia incipiente ed è necessario perciò avviare un trattamento relazionale. Bisogna intervenire al più presto anche per i sintomi del bebè che “tradurranno” il disagio materno: disturbi digestivi, difficoltà di addormentamento, pianti e grida eccessivi sono gli indizi precoci più frequenti delle difficoltà materne, poiché il bambino non aspetta! Egli rischia di essere colpito nel procedere del suo sviluppo.

Sono state proposte diverse strategie terapeutiche (M.Bydlowski, 2000; N.Guédeney-P.Jeammet, 2001), le quali hanno in comune il fatto di proporre alla giovane donna l’intervento di un interlocutore stabile; la terapia deve  essere portata avanti  per un periodo di 3 o 4 mesi ed essere avviata al più presto, una volta messa a punto la diagnosi, cioè  intorno alla quarta e la  sesta settimana dopo la nascita.

Una terapia adeguata dovrà associare una somministrazione farmacologica leggera a consultazioni psicoterapeutiche; una soluzione più semplice è quella di organizzare visite a domicilio dei giovani genitori che hanno difficoltà a spostarsi, da parte di professionisti formati e supervisionati, psicologi o puericultrici. In questi diversi tipi di approccio l’alleanza terapeutica con la  puerpera la potrà aiutare nell’arco di qualche mese ad acquisire fiducia nella propria capacità materna. Si tratta di interventi semplici durante cui la madre avrà la possibilità di esprimere ad un interlocutore disponibile la propria ambivalenza nei confronti del bambino, distaccarsi da immagini materne interne troppo rigide ed idealizzate,riqualificarsi come madre accettabile per il proprio bambino e  “oggettivarlo”  maggiormente.

Nel periodo post-natale, come durante la gestazione, si possono ottenere buoni risultati terapeutici con mezzi relativamente limitati.  Attualmente molte équipes  ostetriche sono impegnate  nel progetto di prevenzione pre-natale; il loro compito è quello di individuare, alla fine della gravidanza o subito dopo la nascita, le madri che presentano rischio di trascuratezza o maltrattamento involontario, affidandole agli specialisti della salute mentale. Questi devono, in situazioni spesso difficili, organizzare un piano terapeutico in cui la madre trovi al contempo un contesto sufficientemente contenitivo ed uno spazio stabile ed affidabile di elaborazione psichica della propria ambivalenza verso il bebè, dalla quale essa è spesso sopraffatta. L’obiettivo è quello di migliorare lo stato depressivo e quindi l’interazione con il bambino, senza avere la pretesa di modificare la  base  nevrotica.

Il blues postnatale

Rimasto a lungo di competenza esclusiva degli ostetrici, e privo di incidenza patologica, il blues ha recentemente mobilitato l’interesse dei ricercatori della perinatalità. Si tratta di uno stato clinico completamente differente dalle situazioni prima  descritte e così frequente da essere considerato normale; esso colpisce infatti più di metà delle puerpere. Coloro che si occupano della nascita conoscono da sempre questo momento emozionale incomprensibile,non grave, fatto di lacrime, di tristezza improvvisa e transitoria, che sopraggiunge proprio nei giorni in cui si dovrebbe  celebrare un avvenimento felice.

Gli ostetrici  hanno denominato questo stato “disforia”  (o “sindrome del terzo giorno”), ma il termine “blues” è più evocativo, in quanto ci rinvia alle melodie nostalgiche che cantano l’Africa perduta.  E’ questo un evento che costituisce una rottura nel comportamento della giovane madre; è uno stato insolito e non motivato dalle circostanze psicologiche esterne. Le donne sono preavvisate della possibilità che si verifichi questo stato, se lo aspettano; vi si abbandonano più facilmente  quando vi è un contesto ambientale contenitivo che può rassicurarle, come la presenza del partner o della nonna materna; in questa prospettiva il blues costituirebbe addirittura un lusso di cui non può disporre una giovane madre isolata che si trovi in un contesto difficile, che non le consente una regressione psichica.

Il blues si sviluppa tra il secondo e il decimo giorno del post partum, con dei picchi di intensità intorno al terzo-quinto giorno (H.Kennerley, D.Gath,1989; A.L.Sutter et al,1995)) e si risolve spontaneamente in una decina  di giorni. Il quadro clinico è dominato dai pianti, sfasati rispetto ai  sentimenti, la labilità dell’umore,lo stato di esaltazione  e una certa confusione; i pianti consistono in crisi di lacrime sporadiche (Yalom et al.,1968; J.A.Hamilton,1962) e costituiscono l’emblema del blues, secondo Kennerly e Gath (1989). Essi si accompagnano raramente  alla tristezza, in quanto le donne parlano piuttosto di lacrime di gioia; l’umore è molto labile, con sbalzi repentini nel corso di pochi minuti durante la stessa giornata; lo stato di esaltazione , intesa come un sentimento di felicità intensa e di grande eccitazione,  è frequente.

Da notare che il termine  usato in francese (élation) è un anglicismo che descrive una grande gioia, che comporta però l’impressione di una minaccia, il che ci fa ipotizzare la percezione di una dimensione trasgressiva  nella nascita. Per alcuni (V.Glover, 1994) questa sub-eccitazione corrisponderebbe ad una tendenza ipomaniacale, seguita da depressione; per altri  autori (N.M.C. Glangeaud-Freudenthal,2002; K.M.Bailara et al., 2006) l’élation  rappresenterebbe una forma non patologica di variazione dell’umore, una iper-reattività emozionale; secondo B.Pitt (1973) vi si aggiunge una certa confusione nei primi giorni del post-partum.

L’ambiente circostante spesso reagisce a questa tristezza,a questi accessi emotivi insoliti solo  con la banalizzazione. La causa del blues  è complessa: in esso si assommano la fine dello stress della gravidanza e del parto con delle nuove condizioni ormonali. Lo si paragona anche al movimento depressivo che segue una prova intensa, sportiva o intellettuale. Ma il blues può essere considerato soprattutto la traduzione emotiva di un doppio fenomeno: da un lato la nascita ha come corollario la sensazione  di perdita della gravidanza, di lutto di questo oggetto interno che, silenziosamente, accompagnava la donna da molti mesi; d’altra parte la neo-madre sperimenta una sorta di denudamento psichico, che le permette di sintonizzarsi  col proprio neonato. In questo periodo post-natale il “cristallo” dell’Io materno- secondo la metafora di Lebovici- verrebbe in parte a disorganizzarsi e potrebbe conseguentemente stabilirsi  il collegamento con i bisogni del neonato.

Il blues testimonierebbe questa disorganizzazione, costituendo la esacerbazione  di questa preparazione da parte della madre a cogliere gli indizi  provenienti dal suo bambino; tutto ciò spiegherebbe il carattere universale di questo fenomeno. Alcuni lavori attuali si concentrano sulla comprensione del blues come un momento indicativo delle  trasformazioni  psichiche verificatesi e che segna la fine del processo della gravidanza.

Esso tradurrebbe quel “disordine aleatorio” che, secondo J.Rochette (2006), si determina alla nascita prima che, una volta passata la tradizionale quarantena che chiude questo periodo, la madre e il bebé  possano trovare la loro “velocità di crociera” e il loro stile interattivo. Per F.Drossart (2004) è a questo punto che si presenta il “fantasma del bambino morto”, fantasia infanticida così frequente nel periodo post natale , la quale segnalerebbe il “vuoto di affetti” di questo momento. Si fa l’ipotesi che possa esservi uno sviluppo differenziato della diade nel primo trimestre a seconda che  la giovane madre abbia manifestato o no un blues.

L’interesse attuale per questa manifestazione, priva di significato peggiorativo, può essere anche così formulato: se è vero che il blues indica la capacità empatica della madre e la sua attitudine a provare lo stato emozionale del proprio bebè, lo stile interattivo successivo della diade potrebbe portarne traccia (S.Bydlowski-Aidan, tesi di laurea).  In rari casi, quando il blues è grave e dura più di otto giorni, esso può essere comunque il precursore o il seguito di una vera e propria depressione post-natale (L.Fossey et al., 1997); in tal caso si impone allora di considerarlo un evento patologico e cercare un aiuto specialistico.