L’approccio ai disturbi della condotta alimentare: la sfida e la necessità di lavorare integrati

di Nicola Artico
Dipartimento di Salute Mentale, Livorno

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Sommario:

Premessa.

 In cosa ci interpellano i DCA.

 Il problema mente-corpo e la sua espressione nei DCA

 Costruire l’aereo mentre si vola.

 Chi si cura dei curanti?

 Lo psicoterapeuta ed il Sistema-Curante, nessi e distinzioni.

 Il processo di cura ovvero:

la storia dell’incontro di un equipe di operatori sanitari-con-storia con un paziente-e la-sua-famiglia-con-storia.

 Perché è efficace e conveniente lavorare in gruppi multiprofessionali allargati.

 Lo psicoterapeuta ideale.

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Premessa

Nel luglio del 2003 si conclude presso l’asl dove opero, organizzato congiuntamente dai servizi della salute mentale degli adulti e quello dell’infanzia adolescenza, un lungo aggiornamento. Durato quasi un anno ha visto psicologi, psichiatri (degli adulti e dell’infanzia), medici internisti e pediatri insieme anche ad una rappresentanza di educatori professionali, dietisti, infermieri ed assistenti sociali confrontarsi e riflettere sul tema dei disturbi della condotta alimentare (DCA).

La clinica di questi disturbi appare ai nostri occhi in continuo crescendo, inoltre questo particolare malessere sembra interessare un mix di sofferenza psichica e fisica essendo, alla fine il corpo, insieme oggetto e soggetto di questa sofferenza. Per questa ragione vengono spesso attivati, nel tentativo di fronteggiare questo importante disturbo psichico il cui rapporto con il somatico è particolarmente stringente, operatori di varie specialistiche e formazioni culturali.

Questo contributo rappresenta, alla fine di questo percorso, un generale ripensamento sul mio operato e su quello delle equipes in cui mi sono trovato a lavorare. Sulle difficoltà e sulle pratiche che questa casistica crea nei servizi e su come il tutto possa/debba essere supervisionato da una riflessione teorica sempre aggiornata.

Nessun vertice osservativo è mai neutro, né di chi parla né di chi ascolta questo non è mai un problema e diventa invece una risorsa se si ha la cura di esplicitarlo.

Pertanto il mio punto di osservazione è quello di uno psicologo clinico ed uno psicoterapeuta che ha scelto di lavorare nei servizi, allevato all’interno del movimento della Terapia Familiare italiano e che, ovviamente, ne ha seguito tutta la ricca ed articolata evoluzione soprattutto negli ultimi 15 anni. La riscoperta del “mondo interiore” nostro e dei nostri pazienti, la rivalutazione e la pratica di un percorso terapeutico anche individuale ad orientamento dinamico[1], una cornice epistemologica di tipo costruttivista nella sua derivazione del costruzionismo sociale.

 

In cosa ci interpellano i DCA.

Tra le varie e variabili (nei periodi) psicopatologie che attraversano un servizio di salute mentale moderno i DCA mantengono una loro specificità oltre che gravità, per incidenza ed invalidazione psicologica e, non di rado, fisica. Tuttavia essi mostrano anche alcune concordanze con altri quadri soprattutto di personalità[2]  da cui sono sostenuti, quadri personologici che peraltro sostengono anche altri tipi nosografici come i disturbi di personalità propriamente detti, le tossicomanie, alcuni severi casi ossessivo-compulsivi e le depressioni cliniche.

Sull’elemento depressivo soggiaciente anche nei DCA vale forse la pena fare una breve riflessione – come ci ricorda L.Cancrini [3] -sulla difficoltà di fare diagnosi di depressione perché essa spesso è mascherata dall’uso di alcol o di droghe. Dal mio seppur limitato osservatorio clinico credo che anche un certo modo di usare il cibo (o automedicamenti vari) sia in modo anoressizzante oppure con grandi abbuffate possa esser spesso letto come un insieme di tentativi per sedare un sottostante ma soprattutto in-dicibile (letteralmente) profondo stato di melanconia.

Ma forse la domanda che questo tipo di utenza e spesso le loro famiglie ci presentano si disvela agli occhi dei servizi per tre elementi che la rendono particolarmente drammatica:

1-        la spesso giovanissima età dell’insorgenza;

2-        il richiamo, soprattutto nei casi “restrittivi” o “misti” al tema della morte o, comunque, di un serio danneggiamento organico;

3-        la particolare resistenza ai vari tentativi di cura.

Sul secondo punto vorrei fare una riflessione in parte autobiografica. Credo che chi lavora nella nostra specialistica, a differenza di altre (la medicina interna, la chirurgia ecc..) si confronti di fatto molto poco con il tema della morte o, comunque, della morte dei propri pazienti. Durante il mio primo tirocinio interno presso un S.P.D.C. (reparto con posti letto di psichiatria) il mio anziano e colto caporeparto mi portava con sé anche in giro per l’ospedale a fare con lui le consulenze in altre specialistiche. Valutai, allora giovanissimo psicologo, come nonostante la clamorosità di alcune sindromi psichiatriche che potevo osservare nel “nostro” reparto raramente ci si confrontava con la morte, a differenza di quello che osservavo nelle altre degenze. Questo fatto, in qualche modo, mi rassicurava. Ho più di un’impressione che questo elemento giochi un ruolo nella frettolosità oppure, nell’espulsività o se vogliamo nell’inadeguatezza che spesso i servizi di salute mentale sembrano mostrare davanti a questi casi. Si osserva, mi pare con una certa significatività, un particolare rischio da parte delle equipes curanti di cadere o nella trappola dell’eccessivo disimpegno-espulsione o, all’opposto, nell’ invischiamento o affiliazione-salvifica.

Infine non c’è dubbio, ed il corso ce l’ha sottolineato, che questi casi ci interrogano su alcune dimensioni e competenze che non abitano propriamente nella nostra specialistica. Il quadro neuroendocrino, alcune complicazioni internistiche quando non cardiologiche possono assumere rilievo e, come sempre, rilevanza, nell’attribuzione emotiva e psicologica che l’equipe curante da una parte e i pazienti e le loro famiglie dall’altro ne danno. Credo che sia difficile non evidenziare come i DCA siano situazioni in cui l’elemento bio-medico incontra quello psicologico. Sono questi i casi dove la dialettica e l’interdipendenza mente-corpo si palesa brutalmente all’occhio dei clinici.

Il problema mente-corpo e la sua espressione nei DCA

Come ho già detto questa lavoro è per me anche l’occasione per tentare di rimettere un po’ di ordine su alcuni temi cruciali, veniamo quindi al primo.

La forte e visibile espressione somatica di questo disturbo rievoca il tema un tempo pensato come due “cose” distinte una chiamata ‘corpo’ ed una chiamata ‘mente’ l’argomento, come sappiamo, è insieme affascinante ed antico (res cogitans e res extensa).

Se vogliamo presentarla in un modo più moderno potremmo parlare di un uomo-macchina, immerso nel suo mondo fisico e soggetto alle sue leggi e di un uomo-persona che svolge attività simboliche e comunicative, che possiede una coscienza, stati soggettivi, ecc.

Ma come interagiscono e come comunicano queste due entità?, che nessi ci sono tra la salute e la malattia fisica e mentale?

A questa domanda non è mai stata data una risposta soddisfacente e, sarebbe stato improprio, pretendere che lo facesse il nostro corso.

Però il nostro sapere ha camminato ed oggi forse c’è un po’ più di luce dove ieri c’era solo ombra ma, soprattutto, la gran parte della comunità scientifica ha smesso di fare “l’errore di Cartesio”.[4]

Questa difficoltà ha portato la società scientifica ad organizzarsi (quando non arroccarsi!) con alterne vicende sui due corni del problema, negando talvolta l’esistenza dell’una e talvolta dell’altra componente, riducendo l’essere umano a mero corpo o, più di rado, a una mente. Naturalmente ogni “punto di vista” in senso non solo mefaforico, anche il più radicale ha una sua ragione d’essere solo a condizione che ci si ricordi che è frutto della prospettiva visuale che ci siamo potuti permettere[5] nell’osservare qualcosa.

Gregory Bateson[6] cercò di offrire una lettura più feconda (non più vera) di questo problema formulando tra i primi il concetto di spiegazione “informazionale” o “cibernetica”, nella quale, a differenza della spiegazione riduzionistica, acontestuale e impersonale tipica delle scienze fisiche, hanno importanza fondamentale il contesto e l’osservatore.

Possiamo accettare che lo stesso fenomeno (si pensi ai DCA ma anche a tutte le varie psicopatologie) viene descritto ed interpretato in modo diverso da diversi osservatori e in contesti diversi. Ma soprattutto è l’osservatore, con i suoi interessi, capacità, scopi, pregiudizi e meccanismi fisiologici e con la sua storia, che rileva e interpreta il fenomeno e ne costruisce la descrizione-spiegazione nell’ambito del contesto osservativo.

E’ infine bene aggiungere[7] che ogni informazione può essere rappresentata e comunicata solo grazie ad un supporto materiale, ma non può essere ridotta a questo supporto.

Il nesso cervello o soma da una parte e stati mentali o relazionali dall’altro appare evidente.

Pertanto se con Gregory Bateson consideriamo l’uomo-macchina e l’uomo-persona come due distinti principi esplicativi (e non ontologici, per non ricadere nelle difficoltà del dualismo cartesiano) cooperanti e tra loro intrecciati, il problema mente-corpo potrebbe risultarci più trattabile.

Del resto, visto che l’argomento è la capacità di integrarsi e di lavorare integrati (non certo di fondersi o ancor peggio confondersi) dovremmo abituarci a pensare il “multiverso” di opinioni circolanti più come una opportunità che come un rischio. Infatti lo scopo in campo scientifico e quindi in campo psichiatrico e psicologico non è quello di occuparsi di “Verita” (con la maiuscola, tema che può essere lasciato solo a Sacerdoti di ogni fede, religiosa, scientifica o politica che sia, quando intesa come fede[8]) ma, più artigianalmente, di costruire qualcosa di appropriato per alleviare un po’ le sofferenze di vivere delle persone, in modo ragionevolmente accettabile; soprattutto da queste.

Ma cosa vuol dire appropriato? Per alcuni fenomeni (la medicina e la psichiatria ne sono esempio vivente), in virtù di ragioni storiche o sociali (ad esempio una certa tradizione scientifica), esiste un punto di vista abituale e consolidato, che è più appropriato (ma non più vero) degli altri perché consueto ed accettato nell’ambito di quella cultura. Potremmo chiamare questo insieme stabile di punti di vista osservatore collettivo o inter-soggettivo, per es. la comunità degli scienziati.

Ma, più in piccolo ed in locale, la comunità degli operatori di un Dipartimento provinciale o addirittura di un servizio.

Avanzo l’ipotesi che un gruppo di lavoro possa essere pensato come un osservatore collettivo e che, pertanto, risponda alle stesse leggi. La prima delle quali è stata enunciata da Maturana e Varela[9] ossia l’osservatore (gli osservatori) non può (non possono) essere fuori dal sistema osservato e – soprattutto – che ogni osservazione è una descrizione dell’osservatore (medico, equipe ecc..), per cui le modalità ed i contenuti appartengono al dominio descrittivo dell’osservatore.

Insomma è ineludibile prevedere ed inserire sé stessi ogni volta proviamo a descrivere qualcosa o qualcuno.

Trovo di conseguenza utile accettare che il sistema-curante sia un sistema autoosservante dentro al quale ci sono – contemporanemante – gli operatori ed i pazienti; il tentativo (o processo) di cura si realizza allorché il sistema-dei-curanti si lega, si intreccia, si contamina con il sistema-dei-pazienti e prova ad operare una comune costruzione di significati ed un comune movimento evolutivo. E’ molto evidente e condiviso che, per es. lo psicoterapeuta, entra (per varie porte: individuali, familiari ecc..) nel sistema-terapeutico in atto e prova a costruire con il paziente e la famiglia un diverso modo di connettere significati[10].

E’ invece meno frequente riflettere su cosa e da cosa è composto quell’insieme di sintomi, emozioni e pensieri che si presentano ai nostri consulti. Anche da quanto evinto dal corso credo si possa dire che l’errore più comune sia pensare che noi incontriamo i nostri utenti “tabula rasa” ossia senza storie di significato (spesso sanitario) alle spalle.

Non di rado l’equipe di un servizio si va a “legare” (formando il tutto del sistema terapeutico curanti-curati) con molti altri attori (spesso medici, psicoterapeuti, infermieri, dietisti) già all’opera più o meno attivamente. Questo di per sé può non essere un problema – invece – per chi voglia operare come un equipe integrata, ignorarlo o non prevederlo diventa un problema.

A questo punto è possibile operare una prima sintesi. Credo sia ragionevole affermare che l’integrazione, lungi dall’essere una giustapposizione di saperi o di pratiche, sia intanto costituita da questa consapevolezza di inter-dipendenza non solo all’interno dell’equipe ma anche rispetto ad attori che si muovono fuori dai confini geografici del servizio. Avanzo pertanto una prima lettura che lavorare integrati vuol dire – intanto – provare ad amministrare invece di subire questi diversi livelli:

-inter-dipendenza dentro l’equipe;

-inter-dipendenza dell’equipe dentro la macro-rete di aiuto naturale e professionale

Questo sforzo, che può a tratti apparire improbo, trova invece una sua possibilità (come cercherò di approfondire in seguito) a condizione che il gruppo curante riesca a fungere da contenitore pensante ed autosupportante quel tanto che basta da non fuggire troppo od agire troppo. Quel tanto che basta da poter tollerare (insieme) il buio nella mente che a tratti, queste difficili situazioni e famiglie ci impongono, costringendoci, spesso, a funzionare come loro.

 

Costruire l’aereo mentre si vola.

L’aggiornamento, svolto da diversi docenti con diverse pratiche e saperi ma anche rivolto a diversi professionisti con diverse pratiche e saperi ha messo in evidenza la crucialità di un elemento, peraltro, già noto: comunicare non è spostare un “pacchetto” d’informazioni da un posto ad un altro, è molto, molto di più. Siccome il linguaggio e la possibilità di comprendersi, senza snaturarsi, emerge come conditio sine qua non la possibilità di lavorare integrati vale la pena soffermarcisi un attimo.

Chi opera nei servizi spesso viene avvolto da una sorta di spirale istituzionale per cui non può o non riesce[11]  a proteggere il suo tempo per pensare e per parlare. E’ come se ci venisse chiesto continuamente di pilotare e di costruire aereii sempre più efficienti (ma che inoltre costino sempre meno!) ma si trovasse singolare che per far questo gli equipaggi debbano ogni tanto interrompere il volo, atterrare.

E’ mia profonda convinzione che la variabile ‘tempo’ debba essere trattata esattamente come una qualunque variabile di quelle che compongono il gesto curativo, non come una sorta di richiesta impropria. Il tempo va trattato come il ‘farmaco’, gli ‘esami di laboratorio’, ‘l’adeguatezza degli ambienti sanitari’, la ‘relazione con il paziente’. Va richiesto, valorizzato e non sprecato esattamente come le altre. Ha però, soprattutto nel nostro campo, una qualità in più; se non ne possiedi abbastanza sprechi tutte le altre!

Se poi si tratta di affrontare con serio impegno un lavoro come quello sui DCA, si deve fare realisticamente i conti con lo stato dell’arte della nostra cultura medica in questo campo. Sapere cosa le scuole di Medicina insegnano ed essere insieme prudenti e realistici.

Inoltre personalmente trovo inutile quando non francamente disfunzionale vivere o presentare la multiprofessionalità come un “mito” organizzativo. Aspetto questo nei servizi pubblici ‘territoriali’ non così infrequente, come se alla domanda cosa fate tutti insieme la risposta implicita fosse non lo sappiamo però stiamo tutti insieme[12]. Come penso importante, ed anche in questo mi sento rinforzato dal corso, che i saperi non debbano avere confini ma le pratiche professionali si. Altrimenti nel migliore dei casi avremo la confusione nel peggiore la malpratica e la negligenza.

La multiprofessionalità funziona invece ogni volta che emergere come una necessità, un modo di lavorare più confortevole ed insieme più efficace. In questo senso il confronto con la più monoprofessionale cultura ospedaliera è da un lato più difficile ma, da un altro, stimolante, perché ci costringe ad uno sforzo di rigore maggiore. Molte meno infatti sono le cose che vanno da sé, così come va conquistata, con validi argomenti e non certo con precetti[13], una più accurata cultura psicologica.

Del resto, anche questo mi sembra il corso l’abbia fatto affiorare, una cultura psicologica delle malattie non si improvvisa; nemmeno sui DCA.

A questo proposito mi pare opportuno richiamare una scaletta di priorità che risulta essenziale anche a chi opera veramente in contesti fortemente bio-medici e di emergenza. Mi capita di dovermi occupare formativamente di operatori della Centrale 118 oppure del Pronto Soccorso. Ebbene anche in quei contesti appare ineludibile dominare, pena serie disfunzionalità, alcune “regole” di psicologia della comunicazione:

-la componente cooperativa, che attiva una responsabilità reciproca per il successo dell’interazione e una serie di sottili adattamenti tra gli interlocutori;

-la possibilità di comunicare solo se esiste tra i partecipanti uno spazio comune di conoscenze, credenze ed aspettative “grounding”;

-chi ha più potere nella relazione comunicativa in atto ha più responsabilità sull’esito della stessa.

Cooperazione, spazio comune di conoscenze, potere e responsabilità sugli esiti comunicativi. Sono dimensioni centrali nel lavoro integrato ma che si possono conquistare solo con una lunga e paziente pratica comune. Meglio, molto meglio se sorvegliati anche da una teoria e da un progetto.

 

Chi si cura dei curanti?

Chiunque, psicoterapeuta ma non solo, abbia fatto più di un incontro con pazienti anoressiche e/o bulimiche e le loro famiglie, oltre che con le tre emergenze (giovane età, morte, resistenze) già citate si è trovato quasi certamente confuso e disorientato dai processi emotivo-comunicazionali a cui è stato esposto.

I “fumogeni” multicolori che invandono le stanze di consultazione sono composti di dinamiche comunicative che hanno a che fare, spesso, con: coalizioni tra alcuni membri agite in privato ma negate in pubblico; tradimenti emozionali forti ma non commentabili; genitori che hanno storie difficili ma che non possono raccontare nemmeno a sé stessi; la sfida come elemento talvolta esplicito talvolta più sotterraneo; la infinitamente dolorosa percezione, spesso del paziente sintomatico, di avere un “difetto in sé stesso”, “dentro di sé” al punto da renderli talvolta inconsolabili talvolta reattivi-provocativi su un continuum con in mezzo tante sfumature. Ma – soprattutto – un modo molto rigido e coeso di presentare sé stessi ed i problemi.

Tra le varie cose su cui il corso ha fatto riflettere c’è senz’altro quello di non considerare mai abbastanza un errore l’idea che le dinamiche psicologiche sopra esposte riguardino ‘solo’ gli “psico-professionisti”. Lasciando, come dire “in pace”, tutta l’ampia rete di operatori medici e sanitari che, a vario titolo, si trovano ad occuparsi del problema. Al contrario non solo le modalità sopra sintetizzate non possono risparmiare nessuno ma, semmai, il problema sarà che quando queste toccano personale tradizionalmente meno avvertito o preparato in questo ambito esse possono, in modo anche decisivo, danneggiare o compromettere seriamente anche gli interventi di quel personale che ci si aspetta essere professionalmente più strutturato in quel campo.

Se accettiamo invece di pensare l’equipe curante allargata come un ‘osservatore collettivo’ agente, inter-agente e re-agente, con il sistema degli utenti, nell’accezione teorico-epistemologica precedentemente esposta, potremmo passare dall’idea di Terapeuta (unico) a quella di Sistema Curante (collettivo).

Senza dubbio la tempesta emozionale che uno psicologo o psicoterapeuta si trova davanti durante il lavoro con i DCA riguarda lui ed il suo contesto (od il co-terapeuta se ce l’ha). Come molte “manovre” relazionali è assolutamente utile ed opportuno che avvengano in ‘quel’ contesto di consultazione, con ‘quel’ clima, con ‘quelle’ regole[14]. Del resto viene strutturato volutamente un setting[15] di lavoro proprio nella convinzione (talvolta speranza) che in quella sede si possa, meglio che in altre, ricostruire insieme ai pazienti nuovi significati emotivo-cognitivi oppure amministrare le tensioni.

 

Lo psicoterapeuta ed il Sistema-Curante, nessi e distinzioni (attraverso le parole di uno dei miei Maestri).

E’ parere largamente condiviso (anche durante il corso) che quando uno psicoterapeuta viene in contatto con un gruppo emozionalmente assai coeso (la famiglia) quello che accade dentro di lui può essere compreso solo se si fa riferimento al bisogno, da cui egli è naturalmente condizionato, di organizzare l’esperienza emozionale da cui si sente invaso. Che egli lo faccia utilizzando schemi analoghi a quelli utilizzati all’interno del gruppo familiare è probabile soprattutto in due condizioni:

– quando l’esperienza emozionale attiva conflitti nevrotici non risolti al suo interno (il contro-transfert descritto inizialmente da Freud);

– quando, per un motivo qualunque, il suo bisogno di organizzare mentalmente l’esperienza non gli consente di tollerare il buio nella sua mente per il tempo necessario a proporre forme diverse di organizzazione per tale esperienza.

L’effetto sui comportamenti e sull’emozioni che si determina, tuttavia, è praticamente lo stesso perché tutto si svolge, nell’inter-azione tra famiglia e psicoterapeuta, come se il terapeuta accettasse le indicazioni che provengono dalla famiglia per organizzare i dati che entrano nel campo della sua esperienza. Fin qui le parole di L. Cancrini[16] lo stesso autore di seguito completa il suo pensiero dicendo che ha già discusso altrove, nel libro citato nella mia nota, il modo in cui queste indicazioni diventano dati per il terapeuta che le riconosce, ma lacci o vincoli per quello che non le vede e obbedisce a loro.

Anticipo fin da subito l’idea da molti, soprattutto in ambito sistemico-relazionale, condivisa, che i suddetti contromovimenti emotivi ed il conseguente “appannamento emozionale” non riguardi solo gli psicoterapeuti ma, seppur in modo diverso per grado e situazione, anche tutti gli operatori che si occupano del caso. Semmai, con l’aggravante, di non averne nessuna o scarsa contezza. Di seguito e per tutte le cose già scritte non è diffile intuire come, infine, sia tutto il Sistema-Curante che perde di capacità. Ancora Luigi Cancrini ci suggerisce che l’errore consiste nella accettazione acritica e non consapevole di alcune di tali indicazioni. Accettando uno dei punti di vista (o versioni) proposte dalla famiglia il terapeuta cade in una trappola comunicativa partecipando ad un gioco di alleanze interno al sistema. Ma, e ciò mi sembra ancor più decisivo per tutto il Sistema-Curante, ci si nega inoltre, ciò facendo, all’ascolto e alla comprensione di elementi, inutilmente segnalati dai cosiddetti “dati-spia”, in grado di mettere in crisi la versione dal terapeuta (o, dai curanti) ) fatta propria. Nei DCA questo livello appare ancora più difficile da gestire non solo per il numero di operatori che si occupano a vario titolo del caso ma, soprattutto, per il clima di urgenza e pressione ambientale-sanitaria a cui pediatri ed internisti, per es. sono particolarmente sensibili.

 

Il processo di cura ovvero:

la storia dell’incontro di un equipe di operatori sanitari-con-storia con un paziente-e la-sua-famiglia-con-storia.

Da un lavoro di gruppo sul pensiero di G. Bateson condotto da Giovanni Di Cesare e Saverio Provenzale è nato un breve ed interessante articolo dall’evocativo titolo “La struttura che connette…….le storie.”[17]Si ricorda che il grande epistemologo inglese ha sempre avuto due esigenze complementari ed antagoniste. Da un lato l’esigenza di connettere, strutturare, le conoscenze in un modo sistematico e razionale in modo da renderle comunicabili, confrontabili, confutabili, in una parola “scientifiche”. Dall’altro la consapevolezza del limite sacro della conoscenza razionale, consapevolezza del limite che si fa etica, estetica[18], storia.

Ecco perché, ci viene ricordato, parlare di ‘struttura che connette’[19] ci rimanda spesso a parlare di storie che connettono in un legame intimo, inscindibile per cui ci riconosciamo come strutture con storie o come storie strutturanti la realtà.

Insomma nella salute mentale come nella malattia le storie hanno a che fare con le strutture e viceversa anche se si possono, e talvolta si deve, tracciare confini e distinzioni.

Del resto gli esseri umani (e quindi gli opertori e gli utenti) pensano per storie. C’è la storia di una nascita, la storia di una separazione, la storia di una perdita, la storia di una malattia, la storia di una terapia ecc.

Però, lavorare con le storie di casi difficili come i DCA, mette a dura prova le nostre storie personali, professionali e dei servizi dove operiamo. Forse, ciò che qualifica un buon servizio, è proprio quanto riesce a riconoscere, rispettare e riattivare le storie: degli operatori e – quindi – degli utenti.

Perché è efficace e conveniente lavorare in gruppi multiprofessionali allargati.

Nei DCA come nei casi psichiatrici complessi, il primo problema appare combattere la solitudine dell’operatore.

La tentazione più frequente, altrimenti, può essere il disimpegno o l’ipercoinvolgimento gli errori più comuni quelli di fare degli agiti o, comunque, di allentare fino all’espulsione[20] dal servizio la presa in carico. Probabilmente, almeno in alcune situazione di franca gravità, è più facile cadere nell’ipercoinvolgimento forse ancor di più per operatori di area medica rispetto a quelli di area psi. Alcuni autori Guggenbuhl-Craig (1978) sostengono che dietro l’eccessivo coinvolgimento dell’operatore nelle richieste dell’utente c’è la “naturale paura di ritrovarsi di fronte ai propri sentimenti di impotenza”.

Questo livello, evidentemente, dovrebbe essere previsto ed amministrato dentro l’equipe curante.

L’elemento della gravità produce come primo effetto, che operatori che non sono tradizionalmente abituati a lavorare insieme vi si trovano costretti, pressati anche da più o meno congrue istanze ambientali. Il contesto che si va a determinare rischia pertanto di non essere il miglior momento per generare un apprendimento collettivo in questo senso, anche durante il corso rispetto ad alcune situazioni particolarmente difficili, ne abbiamo avuto evidenza.

Diventa allora prioritario costruire una geografia definita di operatori che vengano deputati a questo tipo casi, in quanto, per favorire una integrazione di saperi e – quindi – di pratiche, bisogna imparare a conoscersi, a fidarsi. Non solo gli stati mentali degli utenti devono essere compresi ma anche come questi alterano quelli degli operatori del Sistema-Curante.

Non è così ovvio accettare, soprattutto per operatori di formazione bio-medica (ma talvolta meno comprensibilmente anche per gli altri), che è molto utile avere più ‘descrizioni’ dello stesso problema e che – anzi – è proprio dalla doppia quando non multipla descrizione di un fenomeno che si possono cogliere differenze e – quindi – informazioni importanti.

Del resto, i livelli di criticità di questi pazienti sono talmente vari per stato fisico e stato mentale che appare ineludibile mantenere un flusso continuo di passaggio di notizie tra i curanti.

Come costruire un sistema che permetta tutto questo non era oggetto del corso ma rimane, a mio parere, uno snodo critico e di non facile soluzione che, probabilmente, troverà un suo scioglimento se i vantaggi per gli operatori supereranno gli svantaggi nel costruire un percorso organizzativo.

Forse però, il primo e più immediato vantaggio potrebbe consistere nel favorire una condivisione garantita da momenti più o meno strutturati di una super-visione di buona qualità, esaustiva ma non esauriente né tanto meno permanente. Intesa come una relazione di aiuto per chi fa un mestiere di aiuto che favorisca l’obiettivo ultimo di formare gruppi di auto-supervisione gli unici, credo, che i servizi pubblici possano veramente permettersi strutturalmente.

 

Lo psicoterapeuta ideale (in un equipe ideale)

Concludendo vorrei ipotizzare prendendo a prestito le parole di M.L. Vittori[21] il ruolo che immagino dovrebbe avere un’ipotetico psicoterapeuta ideale all’interno del lavoro integrato.

“Il terapista a cui vorrei assomigliare, più come “regista” si propone come “narratore”: raccoglie le storie delle famiglie (ma è attento anche a quelle dei colleghi nota mia) si sofferma sulle suggestioni che ne derivano e utilizzando se stesso e le proprie “risonanze”, riconnette i punti nodali in nuove storie, che amplificano risorse e restituiscono diversi significati, il tutto in un processo terapeutico che si configura come co-costruttivo e co-evolutivo”. Aggiungerei, almeno quanto basta perché si osservi una ripresa del ciclo vitale. La remissione completa del sintomo, soprattutto nei DCA, anche se può seguire questa riattivazione di un progetto di vita interrotto, non dovrebbe essere l’unico indicatore da tenere presente.

Riguardo poi il lavoro in equipe (ideale) ed al “clima” interno mi piace richiamare ancora una volta le parole di G.Bateson su quanto il contesto permetta di attribuire significati agli scambi relazionali, su quanto la rappresentazione che i partecipanti hanno di sé e dell’altro sia importante e ancora di più la rappresentazione che ognuno ha di ciò che l’altro pensa di lui. A volte, come è stato da altri notato, ciò è rilevabile semplicemente dagli sguardi che gli operatori si scambiano. Gli sguardi, prima ancora delle parole.

Credo infine che, per chiunque voglia realisticamente creare una equipe di lavoro che sia integrata e che integri pensieri ed emozioni non si possa che passare, alla fine, dalla valorizzazione consapevole di questa dimensione a partire, come sempre, da quello che abbiamo e da quello che siamo.


 


[1] Anche se su cosa si debba oggi intendere per psicologia dinamica lungo e articolato dovrebbe essere il discorso.

[2] Si pensi ai vari sottotipi di organizzazione di personalità “border”; “dipendente”; “ossessivo-compulsivo”; “narcisista” secondo la classificazione di M. Selvini Palazzoli A. Sorrentino. e coll.

[3] Cancrini L., (2002), La depressione in psicoterapia. In ECOLOGIA DELLA MENTE, 2, Il Pensiero Scientifico, Roma.

[4] L’ho indicato tra virgolette anche perché è il titolo di un’affascinante saggio del Neurologo portoghese-americano Damasio edito da Adelphi.

[5] Oppure che abbiamo scelto? Qui il tema diventerebbe complesso per trattarlo in questa sede.

[6] Il cui pensiero e riflessione epistemologica è uno dei fari più importanti e più potenti che illuminano la tenebre in cui spesso mi incammino.

[7] Come ci ricorda Giuseppe O. Longo, Ordinario di Teoria dell’Informazione all’Università di Trieste

[8] A questo proposito nel Medio Evo si poteva dire che se la teoria non si accorda con i fatti, tanto peggio per i fatti.

[9] Maturana H, Varela F, (1985), Autopoiesi e cognizione, Marsilio

[10] Perché l’uomo-persona ha a che fare con l’uomo-macchina.

[11] La responsabile del servizio dove opero sa che ho, in questo senso, un’opinione piuttosto radicale. Credo che sia utile assumere solo il punto di vista che i servizi sono – alla fine – quello che fanno e quindi quello che scelgono. E’ noto infatti che, a parità di condizioni, servizi diversi fanno scelte diverse. Le equipes sono definite più dalle loro scelte che dalle loro contingenze.

[12] Che a sua volta si regge sull’altrettanto implicita natura bio-psico-sociale delle malattie ma talvolta ne copre l’inadeguatezza ad affrontarla.

[13] Tanto meno se fatti solo di richiami etici o morali.

[14] Al contrario le stesse manovre svolte in contesti ambulatoriali molto diversi, in teoria anche dagli stessi operatori quando addirittura da operatori professionalmente diversi poco o troppo autodidatticamente preparati in campo psicologico, rischia di produrre danni psicologici ed in generale al processo terapeutico anche difficilmente reversibili. Infatti, non si rifletterà mai abbastanza, come non solo la malpratica farmacologica o di laboratorio ma anche quella psicologica possa indurre danni rilevanti ai pazienti. Talvolta i più rilevanti.

[15] Ed un corrispondente training specialistico oramai sempre quadriennale.

[16] Da un interessantissimo articolo dal titolo “Il controtransfert e la didattica della psicoterapia: riflessioni di un formatore sistemico su un testo di Kernberg”, (1995) . In ECOLOGIA DELLA MENTE, 2, Il Pensiero Scientifico, Roma. Il tema era già stato discusso e sviluppato in un suo libro, Cancrini L. (1987), Psicoterapia: grammatica e sintassi, NIS, Roma

[17] .(1999) In ECOLOGIA DELLA MENTE, 2, Il Pensiero Scientifico, Roma.

[18] Non solo come bellezza ed armonia ma penso anche nell’accezione più etimologica del termine  lat. scient. del sec. XVIII Aesthetica, deriv. di gr. aisthetikós “che è in grado di sentire” da aisthánesthai “percepire” sec. XVIII

 

[19] Creare connessioni tra fatti ed eventi fisici o psicologici è, all’interno di questo paradigma, la principale funzione mentale anzi coincide con il concetto di MENTE ed è qualcosa che contiene ma non riassume il SistemaNervosoCentrale. Infatti, nell’approccio ecologico, si deve legare un AMBIENTE all’encefalo perché emerga e possa essere descritto un processo mentale.

[20] Talvolta tacita, silenziosa.

[21] Vittori M.L., (1996), Il Terapeuta faliliare nel DSM: storia di un’esperienza. In ECOLOGIA DELLA MENTE, 2, Il Pensiero Scientifico, Roma.