Il viaggio di andata (di Lisa Marchetta)

Il viaggio di andata  (di Lisa Marchetta)

Scrisse Virginia Woolf: “Assolutamente consapevoli di stare nell’ombra, e tuttavia vivi a ogni tremore e baluginio dell’ esistenza, essi durano ed è ai greci che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione, del cristianesimo e delle sue consolazioni; e della nostra epoca(1)”. Questo al termine di un saggio che titolò: Del non sapere il greco.

È vero, i Greci durano; e informano la nostra vita. La loro eredità ci è stata affidata. Qualcuno, grazie a loro, costruì una cattedrale che volle chiamare Psicoanalisi. Questi fu Sigmund Freud. Qualcuno tentò invece, e temerariamente “di persona”, le imprese che i Greci ci hanno raccontato, realizzando nella sua vita il Mito. Ci riferiamo  naturalmente a Jung. Noi lasciamo che quel passato parli al nostro inconscio e ci tenga sospesi. Sospesi. Tra ieri, oggi e domani.

Ed è su quella sospensione che noi vorremmo riflettere. Per affermare, non senza enfasi, che è necessario affrontare i demoni. Quelli interni prima di quelli che stan fuori. Perché questo? Quali legami col mito? È un’intuizione, questa – rispondiamo – che ci proviene dalla letteratura sugli eroi, quella “vecchia” letteratura che riesce a stabilire un contatto diretto con le emozioni di chi l’ascolta o la legge.

Sicuramente ne fa parte l’Odissea, uno tra i nostoi  pervenuti  dal mondo greco, che a ben vedere racchiude il processo d’individuazione descritto dalla Psicodialettica(2). Un processo nel quale l’individuo attraversa tre fasi: stato di unità simbiotica, stato di separazione dialogica e stato di unità ritrovata ma non più confusa bensì distinta(3). E che dal punto di vista dell’ “eroe” che affronta il viaggio corrispondono ad una posizione di immobilità, di separazione dalla terra del padre e di riunificazione con la terra paterna. Odisseo si trova in uno stato di immobilità dalla partenza da Itaca fino alla vittoria su Troia; egli è “fuso” con la propria matrice itacese e nessun processo d’individuazione appare possibile: l’utilizzo della metis è immediato, non riflessivo. L’odissea ha inizio con il viaggio di andata, quando Ulisse affronta i demoni interni, quand’egli racconta, nella reggia dei Feaci, la partenza dalla sacra città di Ilio verso un mondo extra-umano. Come viene riconosciuto dagli studi di Heubeck e citati da Calvino:

“dunque è la novità dell’Odissea l’aver messo un eroe epico come Ulisse alle prese con streghe e giganti, con mostri e mangiatori di uomini, cioè in situazioni di un tipo di saga più arcaica, le cui radici vanno cercate nel mondo dell’antica favola, e addirittura di primitive concezioni magiche e sciamaniche(4)”.

La medesima cosa fece Jung quando, nel 1913-1914, si ritirò per confrontarsi con il proprio inconscio. Perché, cos’altro può essere la permanenza di Ulisse nel mondo “altro” se non la rappresentazione dell’incontro con una parte di sé sconosciuta? E, se è così, possiamo dire che essa, la parte sconosciuta, è l’inconscio? Si. Essendo l’Odissea un prodotto della psiche di Omero o di altri cantori, essa può rappresentare processi descritti attraverso l’arte del raccontare. La psiche di Omero racconta di Odisseo che racconta della propria partenza da Troia. E questa narrazione avviene attraverso uno strappo letterario, poiché il mondo “altro” è descritto da eventi differenti, qualitativamente differenti, rispetto a ciò che avverrà ad Itaca. Ci troviamo in una dimensione surreale dal nono al dodicesimo canto, quando Omero fa parlare Ulisse della permanenza nell’extra-umano. Dicevamo che l’eroe si trova nella reggia dei Feaci, dalla coppia Alcinoo e Arete, i due Reali. Egli ha bisogno di aiuto, di una nave precisamente, per tornare a Itaca. Deve svelare la propria identità ai sovrani e ottenere la loro benevolenza. Lo fa attraverso un favoloso racconto che tale e niente più rimarrebbe se non fosse per l’aggiunta di un aggettivo: doloroso. Odisseo definisce il ritorno proprio così, doloroso. E perché fa questo? E’ quindi avvenuto sul serio il viaggio nel mondo “altro”? Forse l’eroe lo crede. Ma, soprattutto, crede alla “perdita”. Nel viaggio di andata, quello che stiamo ripercorrendo ora, è in atto un processo di separazione che è lutto, e comporta dolore. Stiamo parlando dei compagni che giorno dopo giorno, evento dopo evento, Odisseo deve lasciare agl’inferi. Da subito i membri dell’equipaggio dimostrano di non sapersi orientare nel mondo extra-umano. I giovani Achei, di mano in mano che si procede nell’avventura, smettono di seguire Odisseo; i comandi del capitano per alcuni diventano incomprensibili, assurdi, tanto che alla fine l’eroe rimane solo. In questo mondo “a parte” vi sono cose che vengono punite con la morte: all’inizio l’avidità, poi la stoltezza, l’invidia e infine lo sprezzo verso gli dei. L’eroe, attraverso i misfatti dei compagni, vede la parte immonda dell’uomo. La vede, cerca di salvarla, infine la perde. Essi sono perdite di parti di sé, l’eroe si sta differenziando. Gli ultimi compagni di viaggio, puniti da Zeus, vengono inghiottiti da Cariddi. La nave entra nella nebbia che separa l’umano dal non umano, vi trova una grande bocca, e poi un’altra e un’altra ancora, fino a che nell’ultima, Cariddi, scompare. Oppure no? Solo l’eroe apparentemente sopravvive. Odisseo, aggrappato ad un ramo di fico, si mette in salvo lasciandosi cadere su un legno della nave rigettato da Cariddi, avanzo o dono del mostro. Con quel legno giunge all’isola di Ogigia. Qui è accolto dall’abbraccio potente di Calipso. Talmente potente da essere eterno. Odisseo ha infatti l’opportunità di entrare nella cerchia degli dei, di sostare per sempre nell’isola di Calipso; se così fosse l’Odissea sarebbe “solo” una favola e l’eroe il personaggio principale. Invece Odisseo tiene tristemente la testa tra le mani perché non riesce a scordare il ritorno. Chissà quanti tesori, durante la permanenza dalla dea, l’eroe ha potuto assimilare: i tesori emersi dal viaggio nel mondo surreale, l’inconscio. Tesori che gli serviranno quando giungerà ad Itaca ed altri demoni, quelli esterni, i Proci, dovrà affrontare. Arricchito, pronto per la traversata in mare su una fragile zattera, riparte. Qui termina il racconto di Odisseo, egli non dice altro, non può, ai due Reali, dire di più. Un altro viaggio, il vero viaggio di ritorno, la riconciliazione con Itaca, lo attende.

Note bibliografiche:

(1)  Woolf Virginia, Del non sapere il greco, in Voltando pagina, ed. Il Saggiatore, Milano, 2011, p.163

(2)  Rossi Luciano, Psicodialettica, ed. Quattro Venti, Urbino, 1999. In questo testo è possibile individuare le premesse teoriche della visione psicodialettica, sulla quale si base il nostro breve scritto

(3)  Il lettore troverà la descrizione dell’intero processo trasformativo nel Dizionario di Psicodialettica: http://www.psicodialettica.it/dizionario.htm

(4)  Calvino Italo, Le Odissee nell’Odissea, in Perché leggere i classici, Ed. Oscar Mondadori, Cles (TN), 2010, p.21

2 Risposte a “Il viaggio di andata (di Lisa Marchetta)”

  1. Cara Lisa, grazie!
    Forse gli albatri dovrebbero scrivere anche di Hoelderlin, il maggior poeta dialettico. Magari lo farò io, se il daimon mi sorreggerà. Altrimenti ne parleremo. Riporto per ora solo questa breve nota che ben si attaglia, credo, a quel mito da te con forza evocato.

    Le intuizioni mitiche le accettiamo senza fatica alcuna dell’anima. Ma noi moderni non possiamo, non vogliamo, fare sulle intuizioni mitiche alcun conto razionale. La sapienza antica non garantisce nulla a noi moderni. Essa è per noi, appunto, solo mito.
    Gli antichi apprendevano la conoscenza dai poeti. Noi moderni abbiamo perso i contatti con la poesia.
    Cosa è cambiato da allora, da quei tempi felici?

    Oggi … la natura … è vero … ancora fiorisce
    – come presso a poco ci dice Hoelderlin –
    ancora sorride, non invecchiata, l’immagine della terra,
    ancora ci sono i numi del Cielo,
    e sorgenti, e rive, e boschi, e alture,
    ancora vive l’etere,
    ancora si vedono i monti sui quali un giorno dio apparve ai profeti,
    i monti che erano le mense degli dei,
    ancora ci rallegrano i prati su cui essi camminavano come su verde tappeto,
    ma oggi, …
    oggi tutto questo, …
    è immediatamente presente solo per il poeta.
    Agli altri è concesso di trovarne un riflesso nella natura; …
    in una natura, tuttavia,
    che non è più stanza … di beati soggiorni.
    Ecco allora che cosa è cambiato:
    la natura non è più stanza di beati soggiorni;
    gli dei non vi soggiornano più,
    il mito non vi soggiorna più.

    Cosa dobbiamo farcene dunque oggi di questo linguaggio che non abita più fra noi?
    Che ce ne facciamo di un maschile-famminile ch’è personaggio d’altri tempi?
    Come li sistemiamo oggi l’androgino e il linguaggio che lo esprime? Come li sistemiamo nelle nostre strutture mentali di uomini moderni, da tempo abituati ad esprimerci col linguaggio del logos, della filosofia, del pensiero razionale?
    E infine. Come vogliamo far incontrare il maschile e il femminile? È per caso possibile far incontrare anche mythos e logos, che, come vedremo, possono esser considerati come il narrare femminile e il narrare maschile?
    Credo di sì. Credo che sia possibile.
    La sintesi dei due, mythos e logos, trova per esempio un suo raggiungimento nella ricerca illuminante ed appassionata della psicologia junghiana; ricerca che si situa in un territorio che è intermedio fra le sognanti regioni del pensiero mitico e i geometrici terreni di quello riflessivo.

  2. Grazie Luciano per le tue preziose parole. Esse attingono alla fonte del mythos e del logos facendo sentire a casa il lettore androgino.
    Se il logos, come hai scritto, soddisfa i moderni, il mythos appare invece congelato nella rappresentazione esterna a noi, ignorato nella manifestazione interna (dell’anima) e ,infine, se fluisce in qualche espressione viene congedato e giudicato inutile. Vorrei allora soffermarmi sul mythos e riportare le parole di un importante studioso dei miti, quelle di Kerenyi, : “ Vi sono forse epoche che solo in musica possono esprimere la loro più alta idea. Ma quella più alta idea è, in questo caso, qualcosa che non potrebbe essere espresso se non, appunto, in musica. Così anche per la mitologia. Come la musica ha anche un aspetto pieno di significato (…). Se tale significato si traduce così difficilmente nel linguaggio della scienza, è appunto perchè esso non può venire espresso completamente se non in forma mitologica.” Come la musica il mito richiede ascolto e partecipazione. La stessa cosa vale per la poesia. “Colui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla conoscenza” (R.M. Rilke). Si chiede e ci chiede Kerenyi:” dove è però la sorgente della mitologia? In noi? Soltanto in noi? Anche al di fuori, o soltanto al di fuori di noi? E’ questa sorgente che va cercata.” Hoelderlin conosceva questa fonte. Soggiornare nella sua dimora farà sentire anche noi, uomini moderni, più vicini a quei luoghi e a quei tempi di cui il poeta ha così tanta nostalgia.

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