Il Malte a Roma

di Lisa Marchetta

 

                                                                                                                 (…)

                                                                                                                 Sei che muore (umer): che fortuna

                                                                                                                 in te iniziare, in te finire, Rainer!

                                                                                                                 attraverso il tavolo, in occhio sconfinato

                                                                                                                 brinderò con te con un rumore zitto

                                                                                                                 di vetro contro vetro? Non bicchieri

                                                                                                                 si sfiorano – io e tu: la nuova,

                                                                                                                 terza cosa (…)

                                                                                                      (CVETAEVA, Deserti luoghi, 419)

 

 

 

            Al termine della lettura dei Quaderni di Malte Laurids Brigge[1] ero di ritorno da Roma, dove avevo potuto ammirare il nostro importante patrimonio artistico, rimanendone abbagliata. L’intenso chiarore non aveva tuttavia oscurato la mia coscienza letteraria.  Vi affioravano, ostinati, brani di una precedente lettura, Lettere a un giovane poeta[2], e l’assimilazione delle impressioni nell’esperienza artistica:

 

  A Roma siamo giunti circa sei settimane fa, in un periodo in cui ancora era la vuota, la torrida, la febbrosa Roma (…). Si aggiunga poi che Roma, se ancora non la si conosce, nei primi giorni appare triste e opprimente: per l’aria esangue e cupa di museo che esala (…). Infine, dopo settimane di quotidiana ripulsa, si ritorna, sebbene ancora un po’ storditi, in sé, e ci si dice: no, qui non c’è più bellezza che altrove, e tutti questi oggetti ammirati per generazioni, corretti e ricomposti da mani di manovali, non significano nulla e non hanno cuore né valore; c’è tuttavia molta bellezza, perché ovunque c’è molta bellezza. Acque infinitamente piene di vita scorrono sugli antichi acquedotti dentro la grande città e danzano nelle molte piazze su bianche conche di pietra, dilagano in ampie, spaziose vasche e mormorano il giorno e innalzano il loro canto alla notte, che qui è grande e stellata e con venti di velluto. E ci sono giardini, memorabili viali e scalinate, scalinate concepite da Michelangelo, scalinate costruite a immagine di cascate d’acqua, che ampie e declivi generano gradino da gradino come onda da onda. Forti di tali impressioni ci si raccoglie, si ritorna in sé dalla pretenziosa varietà che qui chiacchiera e parla (e quanto è loquace!), e si impara lentamente a riconoscere le pochissime cose in cui permane l’eterno che si può amare, e la solitudine a cui si può sommessamente avere parte”[3].

   

            Le parole di Rilke fluivano in un solco della mia coscienza, fino a inondarla alla fine del viaggio; durante il ritorno, conclusa la lettura dei Quaderni, sentii la necessità di scrivere le mie prime, urgenti impressioni:

 

Ho appena terminato i Quaderni di Rilke. Quest’opera mi appare come la trascrizione dei paesaggi dell’anima di un uomo divenuto artista. Rilke è il Malte. Il Malte mentre attraversa i luoghi del non essere. E li attraversa con il suo essere. Il Malte è una figura di mezzo che percorre territori senza tempo e senza spazio. Qui trova un seme che, di tanto in tanto, si presta a manifestarsi per ciò che è, è stato, sarà: l’amore e la sua negazione. Non esiste una parola, unica e definitiva, che possa indicare questo percorso. C’è solo la ricerca e la rappresentazione del suo risultato. L’uso della parola, nei Quaderni, è finalizzato a lasciare “una” immagine: quella di un fiume che scorre e nella cui corrente si può trovare un qualsiasi oggetto. Il fluire del fiume verso un mare più profondo e vasto è solo una possibilità sfiorata. La limpidezza dell’acqua non è in superficie, ma in sotterranei giochi di parole che casualmente sono rimasti attaccati alla pelle di un essere umano. Più che di terrore, la cornice del romanzo è di angoscia e lascia emergere un disegno pieno di ossessioni, timori, disgusti, pudori. Ma, come dal ribollimento del calderone di una strega possono venire a galla “oggetti” di ogni tipo, così, dalla penna di cui è padrone l’inconscio, s’effonde il sublime profumo di una donna vestita di bianco.

I Quaderni sono la testimonianza di una ricerca.  Non importa che lo specchio vada in pezzi, importa che un frammento di vetro ritrovato non possa più riflettere l’immagine di colui che guarda. Solo in questo modo, quando si guarda e non si riconosce, l’uomo nuovo sprofonda nell’abisso e poi s’innalza verso il cielo, dove ritrova quel seme che è sempre stato suo.

  

            Per diversi anni lessi altri autori e non mi occupai più di Rainer Maria Rilke. I frammenti dei Quaderni si erano depositati nel mio subconscio letterario e solo di tanto in tanto qualcuno di essi riaffiorava alla mia coscienza, come un oggetto smosso dal fluire del mare, trascinato da un’onda e abbandonato a riva. Allora, nel tentativo di penetrare la storia di questo relitto recuperato, finivo con l’esserne incantata e rapita. Nel loro insieme, i Quaderni sono sempre stati in me confusamente presenti, come un mistero, come una stella di cui si sa “solo” il nome, invisibile agli occhi perché oscurata dalle nubi.

            Quando decisi di riordinare le riflessioni originate da “vecchie” letture, riesumai l’appunto scritto in treno. Poteva avere un senso? Il senso andava trovato – mi dissi – diventando investigatrice dell’anima rilkiana. Investigare l’anima… ma come? Già Lou Salomè aveva indagato sul tema, cosa ne fu ricavato? Un profilo clinico e qualche dettaglio sulla sua “vita di coppia” con Rilke.  Credo che a Lou sia sfuggita la “verità” del poeta.

            Al di là di diagnosi, descrizioni cliniche e interpretazioni, mi chiedevo se l’autore delle Elegie Duinesi[4] e de I Sonetti a Orfeo[5], due opere piene di dolce e potente poesia, fosse lo stesso uomo che aveva scritto in prosa i frammenti dei Quaderni, angosciosi, sconnessi, faticosi a leggersi per la luce accecante e per certe mostruosità evocate.

            E’ certo che Rilke non approverebbe l’intento di uno sterile studio. Come in vita si teneva lontano da giudizi e commenti che proliferavano intorno alla sua opera, egli, dall’invisibile mondo in cui si trova, non leggerebbe, ora come allora, una sola riga di quel che “si dice” di lui. Allora mi sono detta: proverò a cercare Rilke accanto alla fonte, dove scaturiscono due opposte correnti, vivificante l’una e dissolvente l’altra. Il poeta è giunto alla sorgente: si è accostato, si è dissetato, si è fatto conoscere ed ha amato. Cercherò la fonte. Per procedere, per andare oltre la sorgente o al di là, – in un cielo dove dimora Dio – occorrerà immaginare la figura di Rilke amalgamata a quel tutto cui anelava, fuso con “la donna poetessa” celebrata in vita, Marina Cvetaeva. Ho quindi deciso che fosse Marina a guidarmi.

            Nel 1926 Rilke e Cvetaeva sono protagonisti di uno scambio epistolare intensissimo e febbrile: Marina scaglia saette di pensieri di cui Rainer riordina pazientemente la traiettoria; i due si trovano nel paese dell’indicibile, dove è così difficile ascoltare – e vedere – il suono, le particelle di cui è composto. L’indicibile si può esprimere solo attraverso parole che sono tutt’uno con l’anima del qui e ora, che non conosce scogli, non conosce lo spazio e il tempo e fulminea tocca e fugge dall’anima desiderata. Cvetaeva e Rilke si comprendono da poeta a poeta, da anima ad anima. La ricerca del linguaggio, di un preciso linguaggio poetico, stabilisce il legame tra i due; la certezza di esprimere la verità del momento fa tutto il resto. Cvetaeva riesce a costruire una potente trasfigurazione dell’opera rilkiana in una relazione poetica ed epistolare[6].

            Rainer e Marina non si sono mai fisicamente incontrati, ma nelle lettere i loro corpi si sono espressi scrivendo, si sono toccati durante la lettura, generando un‘emozione che è stata scintilla o fiamma o fuoco, tensione verso la relazione con l’altro:

 

  Scrivo come Tu scrivi e come Te scendo un paio di gradini dalla frase verso il mezzanino delle parentesi, dove i soffitti sono bassi e ancor profuma di rose un tempo fiorite[7].

 

            I due poeti traducono le loro emozioni in immagini, capovolgono le parole, si esprimono con doppi sensi, segni grafici, assonanze, allitterazioni: tutto è utilizzato per trasmettere il ritmo del battito del cuore che vuole possedere i concetti. E che vuole, infine, la relazione.

            Cvetaeva scrive di poter rinunciare all’uomo Rilke: non le interessa trascorrere del tempo con lui o intrufolarsi tra i tanti legami ordinari del poeta; ma un “attimo” dopo si smentisce e identifica il poeta con l’uomo, desiderando un incontro amoroso. Marina scrive senza indossare abiti; nuda come alla nascita, si guarda e si ritrae dettagliatamente: allega una fotografia scattata dal suo orecchio poetico e sviluppata dalla sua psiche ingegnosa, poi la dona senza riserve all’amato.

            La poetessa sa di Rilke, sa dell’uomo: conosce la sua solitudine e le sue paure; in passato erano chiare anche al poeta, nei tempi in cui scriveva del Malte, il protagonista dei Quaderni, figura psichica uccisa dalla penna dello scrittore e dalle cui ceneri nacque l’uomo operaio di poesie. Ma il Malte, emblema creato dalla psiche di Rilke, dorme profondamente nel luogo in cui ha avuto origine: morto nel romanzo, continua a vivere nella psiche del poeta. Egli è figura che rappresenta la metamorfosi: materia informe che precede l’archetipo. Il Malte è tutto chiuso in se stesso: un intruglio di sostanze variegate di cui si distinguono magicamente i singoli elementi, ma non un finale, definitivo nuovo gusto. Paura e solitudine sono intrappolate nella tela e sono la tela stessa. Dietro la trama s’intravedono le vette purissime, ma non le possiamo avvicinare, per paura di farle scomparire con il nostro tocco. Il Malte non vuole, o non può, farci entrare nella sua dimora: lui stesso non ne conosce i confini. Rilke sostiene che il Malte è morto, ma noi crediamo che Cvetaeva, istintivamente, abbia sentito il respiro della materia che le mani dell’artista avrebbero plasmato. Per Rilke sarebbe stata possibile una nuova metamorfosi. Una metamorfosi dell’uomo? Forse. Ma la premessa epistolare ci suggerisce anche una metamorfosi della relazione umana.

            I capolavori del poeta sono certamente le Elegie e i Sonetti: Rilke ha disposto in esse tutto l’esterno (il concreto, la forma, la sostanza) e l’interno (l’astratto, il concetto, l’essenza) per mostrarci la sua visione del mondo, della vita e dell’uomo, dando agli oggetti la proprietà di entrare in relazione con noi. Egli progetta come farebbe un ingegnere, architetta un grande piano, costruisce un bellissimo edificio specchio della propria anima per farci entrare, come lettori e come esseri umani, in relazione con lui. Di quel tutto – dei Sonetti e delle Elegie è difficile dire altro utilizzando il linguaggio comune o la prosa. Come scrive Rilke, i due testi

 

“si sostengono costantemente a vicenda, e io vedo una grazia infinita in questo, che mi fu concesso di riempire, dello stesso soffio queste due vele: la piccola vela ruggine dei Sonetti e la gigantesca vela bianca delle Elegie[8].

 

            La grande opera si era così compiuta: Rilke aveva trascritto la propria anima. La morte colse il poeta prima che potesse vivere, incarnandola, anche l’evoluzione della relazione con Cvetaeva. Nella vita dei corpi, la piccola vela ruggine – Rainer – e la gigantesca vela bianca –Marina –, l’uomo e la donna, attendono il momento di correre, issati al cielo e guidati dalla rosa dei venti, per la traversata in mare.

            Questo, in fondo, è forse il significato di quel breve appunto che avevo scritto in uno stato assonnato, meditativo, durante il viaggio di ritorno da Roma: nei Quaderni vi è la materia in divenire, la confusione che precede una scoperta; l’avevo sentita galleggiare, ne ero stata come stordita, confusamente mi aveva accompagnata nel tempo ma, comunque, ne avevo intuito il senso, che era già lì.

 


[1] Rilke R.M, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 2001

[2] Rilke R.M, Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano 1994

[3] Rilke R.M, Lettere a un giovane poeta, op.cit., pp.61-62

[4] Rilke R.M., Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1978

[5] Rilke R.M., I sonetti a Orfeo, Feltrinelli, Milano 2007

[6] Cvetaeva M., Rilke R.M, Lettere, SE, Milano 2010

[7] Cvetaeva M., Rilke R.M., op.cit., pag.18

[8] Rilke R.M., Lettere da Muzot (1921-1926), Cederna, Milano 1947, pp. 326-327