Il corpo ferito – Quale riparazione

di Carla Tromellini

(iniziamo a partire da oggi a ripubblicare dei post “storici” sulla psicologia ospedaliera, già pubblicati nel “vecchio” sito di lacosapsy)

tratto da: C. Tromellini e G. Occhipinti (a cura di) : Eclissi di Sole – dialoghi col paziente oncologico, Unicopli, 2002

E’ con l’esperienza della malattia, ed in particolare di una malattia vissuta come invalidante, aggressiva, subdola come il cancro che sperimentiamo l’originaria e irrimediabile esperienza della nostra finitezza. La malattia può essere vissuta come un’esperienza che “esplode” dentro, come una realtà che opprime e fa sentire impotenti.

Il paziente oncologico quando tenta di descrivere la “sua malattia” cerca di visualizzarla e di collocarla in un luogo ben definito del corpo, come se , “mettendosi in ascolto” di questa “sua parte malata”, isolandola dal resto, potesse controllarne i percorsi interni, le diramazioni, gli intrecci tra i vari sistemi corporei. In questo tentativo di “visualizzare”, di identificare nel proprio corpo la parte malata in movimento, si esprime quella volontà molto umana, ma alquanto esile, di ri-possedere il corpo nella sua integrità, quasi a contrastare il processo di morbilità che in esso si sviluppa e si presentifica.

Dice Aldo Carotenuto (psicoanalista): «Nel linguaggio comune ci riferiamo al nostro corpo come a ciò che possediamo, “abbiamo” un corpo e non “siamo” un corpo.»

E oltre: «Parliamo di un corpo anatomico, che la scienza medica ci spiega in base a meccanismi psicofisici, e mai di un corpo che si può ammalare, perché, ad esempio, si sente espulso dal mondo.

La scienza medica indaga la nostra patologia, ma non il “significato esistenziale” del corpo, che sempre esprime un significato psichico e comporta un vissuto del tutto particolare.

Il corpo vissuto è il “nostro corpo” quello che non possiamo ignorare.»[1]

E quando il corpo anatomico ci è infedele, ci mette in scacco, ci tradisce, quando non ci riconosciamo nel “nostro corpo”, come se esso non ci rappresentasse come vorremmo, ecco che ci sentiamo vulnerabili, esseri mutanti nel mondo, sottoposti ad un divenire inarrestabile a cui non possiamo sottrarci. Il corpo malato, e le sue ferite, rimandano ad un altrove che «trascende il corpo, fanno appello ad una ricerca di senso insito nella minaccia della malattia e nel possibile disfacimento del corpo.

Nella cultura attuale la malattia, il dolore fisico, la sofferenza psichica, la vecchiaia, sono negate.» «Con l’esilio del corpo è la morte stessa ad essere negata e trasformata in un momento di passaggio. Ma come tutto ciò che viene rimosso, il corpo, la morte, la malattia, si affermano dovunque, sotterranei e ossessivi, nella nostra cultura.»[2]

Al corpo si chiede di rappresentare un’immagine, un ideale di perfezione che lo renda uno fra tanti, un eguale a modelli infiniti di corpi levigati, tonici, sottratti al divenire, perennemente giovani. Un corpo di una vitalità solo apparente, privo di storia e sottratto ad una sua verità.

Se facciamo riferimento per un attimo alla cultura attuale, per ciò che concerne le cure del corpo e l’imperativo dominante che il cambiamento esteriore si può manipolare, contrastare attraverso un continuo mettere mano ad esempio chirurgicamente, a tutti quei piccoli “segni” che il divenire ha scritto nel nostro corpo (le piccole usure del tempo, per intenderci); incidendo seni, cambiandone la forma, tirando rughe di espressione, si ha la sensazione che l’individuo venga allontanato in un lavoro centrato sull’immagine del corpo, da tutto ciò che potrebbe metterlo a contatto con se stesso, con la sua interiorità, e con il mondo dell’Altro.

L’evento malattia introduce nel fluire della vita una scansione insopportabile; apre un varco al pensiero della morte, fa uscire il corpo dal “silenzio”, lo porta prepotentemente in prima pagina, lo rende percepibile come ostacolo al mito dell’elisir di lunga vita.

Dal momento in cui una diagnosi incontrovertibile viene emessa, introducendo interrogativi sugli esiti della malattia, sul suo decorso, sulla qualità delle terapie, sul “tempo che mi rimane da vivere…” ecc., il soggetto colpito si vive sospeso tra un tempo presente vissuto come un non tempo, tiranno e padrone assoluto del suo esistere e un tempo passato carico di obiettivi affannosi, a volte di progetti incompleti e che inquieta per gli interrogativi che introduce.

Come puo’ il soggetto farsi carico di sé e della sua malattia se non sa “ancora” di cosa farsi carico?

Da una parte, la malattia fisica, quella che ha aggredito il corpo ha i suoi tempi, urge e sollecita una presa d’atto attraverso i cambiamenti introdotti (ad es. dalle terapie chemio e/o dagli interventi chirurgici), non lascia scampo al dubbio e alla eventuale negazione di sé.

Dall’altra, il soggetto solo di fronte a se stesso, è costretto ad interrogarsi sul senso di tutto ciò che fino ad un attimo prima sembrava ovvio.

E la malattia iscritta nel corpo e che attraverso il corpo ci parla, e ci “accusa”, come sottolinea Carotenuto, testimonia di una ricerca di significati che, all’interno della storia di ognuno, erano rimasti inespressi e/o sospesi.

“Psicologicamente la somatizzazione della malattia è una conseguenza della perdita di contatto con il conflitto patogeno, cui è stato impedito l’accesso alla coscienza. La prima domanda che un analista si pone quando una persona si ammala è: «A che cosa è funzionale, sotto un profilo psichico, un malanno.»

Il corpo è una spia della psiche, ma il suo linguaggio deve essere “riconvertito”, tradotto di nuovo nei termini dei conflitti psichici che non siamo stati capaci di affrontare. La malattia psicosomatica interviene quando il nostro livello psicologico non ha la forza di esprimersi in termini simbolici, e va a colpire il livello più debole, quello corporeo”, più oltre, “quando viene usato il linguaggio del corpo, ciò vuol dire che la nostra capacità di affrontare i conflitti è piuttosto primitiva.”[3]

Che cosa è stato occultato e perché, nella storia del soggetto ammalato? Come aiutarlo a ri-leggere un percorso di vita che si fa angoscioso se intrecciato al presente in cui il divenire è sospeso attivando nel contempo dei movimenti riparativi?

Le ricerche in campo psico-oncologico di questi ultimi anni hanno messo in evidenza che la maggior parte dei soggetti malati di cancro hanno nel proprio sé nuclei problematici non sufficientemente elaborati: sono frequentemente nuclei di lutto, di tradimento, di rifiuto ecc…” Sono nuclei spesso elusi proprio per la difficoltà che queste persone hanno di contattare le emozioni ed i conflitti, di reggere l’ambivalenza, di mettersi in crisi per attivare movimenti riparativi.

Il luogo specifico della riparazione è il conflitto, inteso come possibilità di mettersi in discussione, per evolvere in rapporto a sé e agli altri. Non c’è crescita senza riparazione.”[4]

Si può vivere un presente minaccioso, affrontando il dolore sia fisico che psicologico, senza lasciarsi affascinare dalla seduzione della rimozione? Come mettere mano alle ridondanti e spesso confuse emozioni del presente senza riavvicinarsi “a piccoli passi” a quelle “lacrime” che non avevo voluto, che non ero stato capace di piangere. Tutta la sofferenza che avevo accumulato dentro, il dolore che avevo inseguito in tanti anni, d’un tratto non si lasciava più comprimere nel suo intimo… per troppa tensione esplodeva…, e con l’esplosione distruggeva il corpo…”[5]

Come modellare, costruire un’ipotesi di una vita futura, se non rimettendo in circolo quel qualcosa di incompiuto, o mai dato, rimosso quel tanto che basta da non consentire perdite della memoria, ma un vago sentimento di “slittamento di sé, che sembra temere ripiegamenti, sguardi troppo intimi all’indietro, in una parola l’aprirsi all’abisso dello smarrimento? Con l’incalzare della malattia non è evitabile una fuga da sé, se non attraverso una rimessa in campo di un agire frastornante ed affannoso come quello che può aver preceduto l’insorgere della malattia. Ma quel modello di scansione di vita rivela al soggetto sempre più la sua “inconsistenza e la sua banalità” anche se si presenta “attraente” nel momento in cui lo si definisce ed identifica come obiettivo del momento. Sono frequenti a questo proposito situazioni in cui il soggetto riprende a vivere non a piccoli passi, ma immettendosi con più foga “nelle cose che faceva prima dell’insorgenza della malattia”, come se la realtà di questa potesse essere negata.

Molto più frequentemente si evidenzia che là dove la malattia si è “sovrapposta”, intrecciandosi inscindibilmente, alla realtà esistenziale preesistente del soggetto, non è più possibile rimandare, continuare a “non vedere” ciò che “brucia” nell’esperienza del soggetto all’interno dei legami con gli oggetti significativi di riferimento.

E là dove si pone da subito l’esigenza di “sapere” la verità sulla propria malattia e sui suoi esiti – per chi non se la nega – contemporaneamente si cerca di affidare a qualcuno che si lascerà usare e si prenderà cura di lui, dubbi e domande su quanto gli sta succedendo per “costruire” insieme un senso della sua malattia.

Ma questo percorso alla ricerca di verità, di chiarezza, in tutti i luoghi in cui l’esperienza personale si modula (dentro e fuori di sé) si apre a domande estreme, radicali sul significato di ogni esistenza e dell’esistenza che accomuna tutti.

Emergono allora, senza più censure e/o reticenze quei dati della propria storia personale, così presenti alla memoria, da essere immediatamente recuperati e descritti, portatori di una profonda sofferenza psichica che era stata forzatamente archiviata in nome di un progetto di vita dimentico di sé e dei propri bisogni.

E così ritornano vive, ma struggenti, situazioni di un passato biografico che si fa così presente da far sentire il suo “peso” insopprimibile e gravoso più della malattia stessa.

Ora è un figlio che si è ammalato psichicamente e che accende domande sulla propria adeguatezza di genitore, ora è la morte di una madre, accompagnata a morire la cui sofferenza è stata “ereditata” dal paziente sopravvissuto alla sua morte, ma che si vive, impropriamente, intrecciato a lei, in un destino definito per via genetica…

Ora è la perdita “incomprensibile” di un partner che se ne è andato o alla vigilia della malattia, oppure dopo che il soggetto si è ammalato. E là ancora è l’esclusione, non digerita, da un incarico professionale affidato ad altri e non riconosciuto al paziente che vi si era dedicato per anni.

Oppure un corpo che si era chiuso al desiderio, dandosi, in ambito familiare, degli obiettivi più alti che riguardavano una funzione genitoriale da sviluppare nell’impegno doveroso e nella rinuncia di una parte di sé. E ancora un figlio mai nato, la cui possibilità di nascita è compromessa dalla malattia e dalla realtà delle relazioni affettive sviluppate in precedenza, con i propri genitori e i propri partners.

Mi tornano alla memoria qua e là, a sprazzi, spezzoni di incontro, collegati al volto e alle emozioni sormontanti di tantissime persone che ho incontrato, che ho ascoltato e con le quali ho fatto un tragitto insieme.

Con alcune per un periodo di tempo, con altre fino alla conclusione della loro esistenza. Mi ha sempre molto colpito l’intensità della loro sofferenza; inizialmente solo incarnata in un corpo che richiedeva cure e accudimento da parte di altri e che, successivamente, si presentava come il contenitore di un groviglio emozionale, in cui si mescolavano rabbia, disperazione, melanconia, senso di smarrimento e speranze per il futuro.

Dice Gerda Lerner: “Per sopravvivere al presente, dovevo ripercorrere il passato. I pezzi andavano ricongiunti con dita pazienti, spesso cieche fuori dai ricordi, dalle ceneri della distruzione, dai significati improvvisamente svelati.”[6]

Il soggetto coinvolto in una congiura così gravosa come la malattia cancro, vive un presente in cui si mescolano esigenze di affronto terapeutico della stessa intrecciate all’impellenza di ridefinire obiettivi e strategie di vita futura, trovandosi contemporaneamente nell’inevitabilità di farsi carico delle “ombre” di un passato che si fa sempre più “presente” alla coscienza del soggetto.

Nel momento in cui si decide ad affidarsi a qualcuno che, insieme a lui, lavori per attraversare la sua malattia, tentando di riconciliarsi con essa, fino a darle come dice Crocetti: “senso per sé, per i suoi familiari e magari – perché no? — anche per gli operatori”, in questo lavoro, per l’accoglienza e l’acquisizione di significati della malattia, sta la prima guarigione.

La malattia si presenta talvolta, a chi la vive, come la denuncia di una qualche “colpa” che lui avrebbe commesso e per la quale si chiede “che cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?”

In questa dinamica persecutoria, la malattia si configura come il nemico per eccellenza, ci sentiamo invasi dall’esterno, cerchiamo di resistere a questa aggressione a volte negandola, a volte cercando di sentirci più forti del “nemico stesso…”. A volte, invece ci sentiamo impotenti di fronte alla minaccia; ancora più fragili se ci rappresentiamo la malattia come una colpa, e come il segno di una punizione divina.

«Questo sentirci “nel mirino di Dio” induce un così opprimente senso di colpa nella “vittima” che questa ha un bisogno disperato della solidarietà degli altri…

oltre: perché cerchiamo di dover chiedere una spiegazione del male? A quale figura della scena psichica dobbiamo riferire il senso di colpa? Probabilmente al messaggio che ogni malattia veicola per l’individuo che ne viene colpito. L’organo ammalato ci mette di fronte, magari per la prima volta al più devastante dei persecutori, diciamo pure con il loro progenitore: quello che ospitiamo dentro di noi. Ma il segnale d’allarme che il corpo ci invia con il suo ammalarsi non deve restare inascoltato, faremmo bene a interpretarlo e approfondirlo a vari livelli.»[7]

Ed è proprio nella contemporanea messa in crisi della rappresentazione di un corpo intatto e dell’idea di una giovinezza infinita che può aprirsi in noi una consapevolezza sulla nostra vita che, prima, non si dava. Viene offerto ad ognuno di non ignorare il messaggio che il corpo ci veicola, in questo caso possiamo vivere la “crisi della malattia” come un momento evolutivo di arricchimento di noi. Nel caso in cui la considerassimo unicamente un fatto somatico, cercando di contribuire insieme agli apparati della medicina a riparare un guasto prodottosi nel nostro corpo, avremmo smarrito la possibilità di ricongiungere, in uno sforzo personale di approfondimento, ciò che, prima, senza saperlo, avevamo contribuito a tenere disgiunto: il nostro corpo da tutti i finissimi e minuti movimenti delle nostre emozioni, dei nostri affetti, come se noi potessimo governarlo e condurlo a nostro piacimento.

Con la malattia il corpo non risponde più e smentisce questa pretesa irrealistica. E nello stesso tempo la persona si trova a fare i conti con il sentimento del limite dei suoi progetti di vita e a porsi degli interrogativi inquietanti sulla “necessità” di quei progetti, in un confronto critico sui valori che hanno informato la sua vita fino a quel momento.

Domande del tipo: “che cosa è importante per me, per la mia famiglia, cosa ho dimenticato di vivere e perché? Cosa ho cercato di “vedere” e che cosa ho lasciato da parte?” diventano molto attuali per il paziente oncologico. Ed è solo nella ricerca di un dialogo con noi stessi e con l’Altro che possiamo riparare (re-parare=disporre di nuovo), nel senso di prenderci cura di noi, e di quanto ci sta succedendo.

“La tensione per la vita, in ogni caso, non si limita a riparare un guasto, ma cerca di dare un significato a quel guasto. Ed è quello che il malato oncologico non riesce a fare, perché è in condizione di riparazione impossibile se è lasciato solo. Se invece viene aiutato, è possibile anche per lui ricostruire il senso della sua esperienza, ed è possibile anche che questo senso sia “tenuto dentro” senza che ci sia il bisogno di espellerlo costantemente.”[8]

Ed è solo nel dialogo con un altro che ci accompagni con attenzione in questo attraversamento periglioso, prendendosi cura di noi e affrontando insieme le angosce e le paure del momento, che possiamo riprendere il cammino della vita.

“Il dialogo – dice Louise Kaplan – è il battito cardiaco dell’esistenza umana.”[9] Io credo che, solo guardando ad occhi aperti il presente, affrontando e vivendo tutta la sofferenza che esso ci porta, con qualcuno che ci accompagni passo passo e che viva con noi la gamma dei sentimenti che sono in gioco in questa situazione, sia possibile reggere questa esperienza nell’alternanza di momenti vuoti e senza risposte, ad altri in cui si recupera il senso di sé in un progetto nuovo di vita.



[1] Da “Amare tradire” Aldo Carotenuto (ed. Bompiani), p. 171.

[2] Ibidem, p. 172.

[3] Ibidem, p.180.

[4] Da “Il cancro: una riparazione impossibile?”, Crocetti Guido, Università La Sapienza di Roma.

[5] Zorn F. (1978), “Il cavaliere, la morte e il diavolo.” Ed. Mondadori.

[6] Da “Ho vissuto la tua morte” Gerda Lerner (ed. Giunti, 1997), p. 109.

[7] Da “Amare tradire” Aldo Carotenuto (ed. Bompiani).

[8] Da “Il cancro: una ricostruzione impossibile?”, Guido Crocetti, Università La Sapienza di Roma.

[9] Da “Voci dal silenzio” Louise Kaplan (ed. Cortina, 1996).