Gruppi di educatrici centrati sul rapporto con i genitori

 

 

 di Leonardo Angelini e Deliana Bertani

 

Le ragioni in base alle quali ad un certo punto molti Asili Nido e qualche scuola per l’infanzia della “provincia di Reggio E. sono arrivati a fare dei gruppi su vari aspetti critici della propria professionalità le abbiamo spiegate nell’articolo “Gruppi di educatrici centrati sul rapporto col bambino”, apparso sul N.2 di Pollicino (ed ora ripubbliccato qui).

In quella sede abbiamo tentato di riassumere anche i criteri metodologici in base ai quali i gruppi hanno lavorato.

Rimandando perciò a quelle pagine chi volesse rivedere questi due (importanti) aspetti della questione, cercheremo di entrare ora subito nel merito dei problemi sorti nei gruppi di educatrici centrati sul rapporto con i genitori.

a) I contenuti emersi nei gruppi

1 – L’argomento trattato nei gruppi è stato, più precisamente quello dei problemi di relazione incontrati con i genitori dei bambini affidati alle operatrici nello svolgimento della propria attività professionale.

Vorremmo sottolineare questo termine poiché, come cercheremo di vedere più oltre, è proprio sulla definizione della professionalità, sulla incertezza propria e sui vari, imprecisi, confusi, contraddittori modelli proposti, o meglio rinviati dai genitori nei momenti di rapporto con le educatrici, che si giocano, si determinano, si colorano le relazioni oggetto dei nostri incontri.

    2 – La metodologia seguita è stata quella dell’anno scorso: un’operatrice a turno presentava il proprio caso, come riflessione o descrizione di un momento del suo rapporto con i genitori, prevalentemente centrata sui momenti dell’entrata e dell’uscita.

Gli altri membri del gruppo ed il conduttore cercavano di aiutare l’educatrice a farsi un’idea e a dare un senso alla situazione di relazione con il genitore, cercando di sentire con lei, di identificarsi con lei.

La richiesta dell’educatrice stessa del tipo “cosa devo fare in questa situazione” è stata sempre riformulata nella domanda “perché ho bisogno di una risposta circa il mio operato, in questo momento, con questa persona”.

Si è cercato così di favorire l’insorgere di risposte possibili nel contesto del sentire-sentirsi nel gruppo e non di risposte date “ex cathedra” dal conduttore.

 

    3 – Il gruppo ha cercato di rivivere con l’educatrice, che esponeva la propria esperienza, i processi identificatori che hanno sostanziato l’esperienza stessa.

Si è cercato di chiarificare, confrontare ed interpretare, cioè di dare un senso alla esperienza raccontata.

Dare un senso cioè a quella situazione lì, di quel momento preciso, fatta di due persone che – ciascuna con la propria storia, col proprio vissuto personale, con le proprie convinzioni e cognizioni- si incontrano.

Abbiamo voluto sottolineare questo per non cadere in equivoci: interpretare, infatti, per noi non ha significato ricondurre determinati comportamenti in una griglia interpretativa precostituita e buona per tutti gli usi, ma, come dicevamo prima, ha significato cercare di dare un senso a quella esperienza fatta solo da due persone che si sono incontrate in un determinato momento.

 

    4 – Queste persone però, nella fattispecie, non sono sullo stesso piano: uno è il genitore, l’altro è lì perché sta facendo un mestiere e quindi ha (o almeno può avere) all’interno dei propri compiti professionali quello di cercare di capire ciò che sta succedendo nella situazione presente passando, o meglio riattraversando, sia la propria storia particolare, sia ciò che si è appreso in base alla cosiddetta “esperienza indiretta”, sia ciò che si conosce da un punto di vista teorico.

In questo senso i gruppi sono stati gruppi di formazione professionale. Fare l’educatrice di Nido infatti significa avere come oggetto del proprio lavoro l’altro, e quindi il rapporto con l’altro (almeno secondo noi conduttori e secondo le educatrici che hanno fatto con noi questa esperienza) non può essere considerato un capitolo accessorio di scarso rilievo, al massimo  destinato a permettere l’esecuzione del proprio lavoro senza troppe frizioni.

 

    5 – L’acquisizione di capacità tecniche e strumentali è profondamente insoddisfacente e comunque è ben poca cosa per potere su di esse fondare la propria identità professionale, soprattutto per una operatrice di Asilo Nido.

Come è venuto fuori più volte nei vari incontri, infatti, la famiglia non porta molta attenzione ai lavori fatti con o dai bambini (disegni, attività, etc.) :

La famiglia cioè fa fatica ad individuare gli strumenti del mestiere di una educatrice di Nido perché tutto sommato sono gli stessi che essa stessa ha a disposizione: allevare il bambino, fare in modo che sia pulito, che mangi, che cresca bene e stia tranquillo.

Alla scuola materna le cose sono già diverse poiché vi è una distinzione di compiti fra famiglia e scuola che rende molto più facile il porsi insieme in termini complementari (io, famiglia, per il bambino faccio le tali cose e tu, scuola, ne fai delle altre, ad es. l’acquisizione dei pre-apprendimenti di base).

Nel Nido invece, come direbbero i “sistemici”, la situazione è di tipo simmetrico: entrambe le istanze educative fanno praticamente le stesse cose.

E’ per questo che è molto facile che in entrambe le istanze serpeggi spesso una sensazione di fallimento, di subordinazione, di invidia, di gelosia, di senso di inutilità e, quindi, di rabbia, di distruzione del proprio ruolo e della propria identità personale.

Uno strumento di lavoro importante, se non il principale, dell’educatrice di Nido è, quindi, la capacità di comprendere e di modificare le relazioni fra sé e gli altri, capacità che si acquisisce passando attraverso la conoscenza di sé e del proprio modo di stabilire relazioni.

 

    6 – Per entrare più nel merito dei contenuti emersi faremo alcuni esempi:

a) Una educatrice dice: “Quando la mamma o il papà vengono a prendere un bambino, che chiameremo Gigi, è sempre un dramma: loro si fermano a chiacchierare con gli altri genitori o con noi e non si preoccupano di lui che comincia a “far casino” ed a picchiare.

Io non so come fare. Non so se intervenire o no perché ci sono i suoi, che però non pare capiscano le difficoltà in cui mi mettono ed il fatto che forse il bambino vorrebbe la loro attenzione, etc.”

 

    7 – Il momento di passaggio all’entrata e, soprattutto, all’uscita (perché si svolge in tempi più lunghi) è spesso un momento problematico anche al di là del periodo iniziale. E’ stato definito dal gruppo come “terra di nessuno”, dove non si sa di chi sia la responsabilità.

E’ un momento in cui è richiesto l’agire: andarsene (quando, come?), intervenire (come?), prendere in consegna.

C’è lo spazio perché i fantasmi di giudizi reciproci e di competizione lievitino. E’ difficile per l’educatrice intervenire perché c’è il timore che il genitore non capisca, giudichi spropositato, autoritario l’intervento e su questo si costruisce un’immagine falsata della vita di suo figlio al nido.

Sull’altro versante c’è l’imbarazzo di mostrarsi nelle proprie funzioni genitoriali, di scoprire le peculiarità cui eventualmente possano essere riferite le difficoltà o, comunque, le caratteristiche del bambino.

Questi sentimenti reciproci sembra blocchino nell’azione e rendano questa terra di nessuno particolarmente difficile.

E’ stato sottolineato come chi deve fare la prima mossa sia l’operatrice che, anche in questo caso, può riappropriarsi della propria professionalità che significa aver capito l’imbarazzo reciproco e, quindi, avere la possibilità di gestirla.

 

    b) Secondo esempio: “Tutte le mattine A. arriva con la mamma che mi consegna la bambina dicendomi: c’è un regalino per te”.

Tutte le mattine me la porta sporca e me la dà da cambiare, anche se lei non l’ha fatto e potrebbe farlo. Non lo sopporto, mi viene il voltastomaco. Ma chi crede che siamo? Le sue serve?

Questo mi è sembrato l’esempio più significativo dato che ci permette di discutere un grosso problema che riguarda la distanza ottimale fra educatore e genitori, l’autostima dell’educatore, la definizione della propria professionalità.

Il vissuto di intrusività, strumentalizzazione, pretese eccessive e, quindi, soffocanti e distruttive, è molto forte.

L’incapacità, o meglio la sensazione d’impotenza ad uscire da questa situazione, è frustrante e demotivante ed ha come diretta conseguenza l’irrigidimento e la chiusura dell’operatrice e l’oscillazione continua fra “ma allora io non sono capace” – “adesso te lo faccio vedere io”.

La sensazione di non essere considerati, non essere stimati e il timore, più o meno consapevole e verbalizzato, che questo significhi il ritiro dal nido del bambino, sono sentimenti diffusi, sempre pronti ad affiorare.

Abbiamo analizzato che questi trovano indubbiamente il loro supporto nella storia individuale di ciascuno, ma soprattutto in questi elementi:

    – Una professionalità non socialmente riconosciuta (vedi discorso precedente) e, quindi, anche soggettivamente difficile da delineare;

 

    8 – Il mandato iniziale dell’istituzione che ha equivocato profondamente e confuso il “chi ha bisogno di chi”.

Soprattutto all’inizio, molte hanno dovuto fare l’esperienza di andare in giro per le case a “raccattare” iscrizioni. Il calo delle nascite mette ogni anno in forse la riapertura di sezioni e questo non significa miglior rapporto numerico e meno lavoro ma, come è già accaduto, il riciclaggio del personale in altri uffici.

Il nido come fiore all’occhiello non esiste più, è una grossa voce in passivo del bilancio e, quindi, fragile e facilmente attaccabile. E’ un po’ come il lavoro femminile soggetto alle leggi di mercato, mal riconosciuto, accettato come necessità, non ammesso, non detto.

Quindi “è il genitore che ha bisogno del nido o è l’operatrice che ha bisogno del bambino” In questa situazione trovare la giusta distanza è ovviamente problematico.

 

    9 – In più c’è un altro fatto importante: le operatrici lavorano ed abitano nello stesso piccolo paese. Le conoscenze private si intrecciano in maniera massiccia con quelle di lavoro, l’immagine professionale e quella privata sono in continuo confronto. Le interferenze e le intrusioni sono moltiplicate.

“La mamma di quella bambina veniva a scuola con me, eravamo ragazze insieme” “Ho smesso di andare al mercato perché incontravo genitori e bambini in continuazione e non ne potevo più”.

C’è fastidio e intolleranza per questi rapporti e questi incontri extraistituzionali che costringono a mantenere in piedi anche fuori dal lavoro la propria immagine professionale o che rischiano di intaccarla.

Oppure “come faccio a parlare di quello che secondo me non va a chi conosco fin da piccolo” e quindi, si sottintende, non mi riconosce come professionista ma continua a considerarmi come la bambina con cui giocava.

Ovviamente, la problematica della “distanza ottimale” e delle componenti storiche o, comunque, esterne (chi ha bisogno di chi) pesa sull’autostima delle educatrici.

L’anno scorso, nei gruppi centrati sul rapporto educatrice-bambino, eravamo spesso venuti a contatto con il sentimento di perdita della propria capacità educante di fronte a quel bambino che piangeva inconsolabilmente, che ostinatamente si rifiutava di mangiare o rispondeva sempre di no.

Nel rapporto con i genitori la paura del giudizio, la rabbia, il sentirsi minacciati, l’atmosfera di soverchieria sono i sentimenti che più minano l’autostima dell’operatrice. E’ un po’ come se, da una parte i genitori stessi fossero avvertiti come altrettanti bambini dipendenti, vischiosi, divoratori, dall’altra come propria figura genitoriale su cui si sono proiettate le proprie parti ideali e/o superegoiche (ciò pare avvenire soprattutto con determinate classi sociali).

Avere un incontro tra adulti, tra pari, diventa oltremodo difficile se si considera che, se si supera questa ambiguità di fondo, emergeranno poi la competizione e la rivalità. “Se il bambino fa questo con te lo deve fare anche con me”. “Non preoccuparti, vedrai che con noi mangerà”.

Questo flusso di sentimenti, quindi, di emozioni corrosive ed aggressive, mette in crisi l’operatrice.

L’incontro è spesso uno scontro latente. Da una parte l’educatrice che sente minacciato il suo ruolo e, soprattutto, se stessa con le sue paure e le sue angosce, dall’altro il genitore che deve affidare ad un estraneo una parte di sé – il bambino – una parte cui tiene molto, sulla quale ha investito tanto e dalla quale fa tanta fatica a separarsi.

    La collaborazione cui tante volte le educatrici si sono appellate, non è un fatto così spontaneo ed i tentativi di mettere in atto atteggiamenti che producano risposte più adeguate nella famiglia, spesso sono risultati infruttuosi.

 

    10 – Allora che cosa si può modificare in questo incontro perché sia veramente tale?

Intanto cominciando col dire che questo è un incontro non occasionale finalizzato ad uno scopo (la cogestione educativa del bambino) che avviene in un luogo determinato (il Nido) fra due persone di cui una svolge un mestiere ed ha una professionalità che sa di avere.

Cosa significa sapere di avere una professionalità?  

Innanzitutto sapere quanto detto ora e, soprattutto, che il rapporto, l’incontro non può essere lasciato alla bontà, al buon senso, alla disponibilità, così come non può esserlo quello con il bambino.

E’ un incontro dove io operatrice, in quella situazione, ho gli strumenti e la conoscenza per osservare, conoscere e capire chi mi sta di fronte; dove io so qual è il flusso di sentimenti che passa fra un polo e l’altro, qual è il mio vissuto e quale può essere quello dell’altro. Questo può essere un punto fermo e la formazione in questo senso è l’impalcatura indispensabile nella definizione della professionalità di un’operatrice di Nido.

La ricerca unidirezionale in altro senso “Loro non si rendono conto delle cose che noi insegnamo ai loro figli, delle attività che gli facciamo fare” è destinata a perpetuare la frustrazione, perché modelli, strumenti e tecniche mutuati dalla scuola materna o elementare, non sono propri del Nido se non in maniera molto limitata.

 

 

b)  Definizione di una nuova metodologia

    di rapporto con i genitori.

 

    11 – Se la risposta più immediata per definire la nuova professionalità di educatrice di Asilo Nido è quella che nasce dalla trasposizione nel Nido dei contenuti e dei metodi della scuola per l’infanzia (motivata anche dal tipo di formazione che molte educatrici hanno ricevuto), una riflessione quale quella che stiamo facendo quest’anno sul rapporto con i genitori, può essere una strada per definire una risposta più matura e più adeguata alle reali esigenze del bambino piccolo e della sua famiglia.

Infatti il limite dell’atteggiamento “maternocentrico” nei Nidi è quello che si riscontra poi nelle stesse scuole materne, o almeno in una parte di esse, nei confronti della scuola elementare, per cui le materne diventano “elementocentriche” e via di questo passo.

Il limite di un 1° livello che, per la pressione sociale o istituzionale, oppure per un’incerta identità o per qualsiasi altro motivo, rinuncia alla ricerca di propri obiettivi pedagogici, di propri contenuti, di propri metodi per …. quelli di un 2° livello in cui tutto quello che si sarebbe dovuto ricercare, insieme ai soggetti direttamente coinvolti nell’opera educativa (nel nostro caso i genitori), viene trovato già bello e confezionato da altri che, però, hanno bambini di età diversa, di diversa storia e, a volte, di diversa cultura. D’altro canto, anche se i bambini fossero della stessa età, con la stessa storia e identica cultura dei nostri, ciò non ci esimerebbe ugualmente da una ricerca che è ricerca su noi stessi, sui bambini, sulle famiglie, ecc.

E’ all’interno di questo atteggiamento di ricerca che nasce nel Nido quella che in altre relazioni abbiamo definito “cogestione educativa”.

La Dr.ssa Marino, nella sua introduzione al nostro corso, diceva giustamente che il Nido, rispetto alle altre istituzioni educative, ha questo di particolare: che gli obiettivi che si prefigge sono identici a quelli della famiglia.

E allora, se per le altre istituzioni per l’infanzia l’obiettivo della cogestione educativa fra scuola e famiglia è e rimane importante, per il Nido è fondamentale.

 

    12 – Ma porsi su di un piano di continuità con la famiglia, che sia anche comprensivo delle nuove esigenze educative che sorgono dai cambiamenti intervenuti nella società (cambiamenti che sono, peraltro, all’origine del Nido stesso), non è facile.

Vi è il duplice rischio di essere, da una parte, portatrici passive dei valori della tradizione e, cioè, dei valori educativi che hanno informato il carattere, la personalità dei genitori e, nel nostro caso – visto che quasi tutte le educatrici sono originarie di questa stessa terra – delle stesse educatrici. Dall’altra, propagandiste di una qualsiasi moderna teoria psico- pedagogica, senza aver fatto alcuno sforzo di adattamento alla realtà in cui ci si trova.

Nel primo caso il Nido si troverebbe nella situazione “impossibi- le” di negazione delle sue stesse ragioni di esistenza, che sono – non lo dimentichiamo – nella crisi della famiglia nucleare moderna di fronte alle trasformazioni della società.

Nel secondo, nella situazione artificiosa e falsa di un luogo che dovrebbe essere, insieme alla famiglia, costruttore di nuove e forti identità e che si propone di forgiarle rinunciando ai contenuti sociali e culturali più tipici della terra in cui si apre.

Il vero obiettivo pedagogico che le educatrici del Nido hanno è quello di trovare, insieme alla famiglia, una mediazione fra passato e presente, fra tradizione e novità, in modo tale da contribuire alla definizione di una nuova cultura dell’infanzia “di qui” che recuperi tutto il passato vivificandolo alla luce dei suggerimenti che vengono dal processo di scientificizzazione delle teorie sull’infanzia.

 

    13 – La cogestione educativa, così definita, è incompatibile, quindi, con l’arroccamento nell’istituzione vista come una specie di serra in cui poter coltivare in pace la propria esperienza escludendo la famiglia, quasi non fosse essa stessa portatrice di una propria cultura. E’ incompatibile anche con la falsa apertura alla famiglia che nasconde i veri nodi del problema dietro una serie di cerimonie, che presentano solo una facciata – rimessa a nuovo per l’occasione – dell’Asilo Nido.

E’, infine, incompatibile con la chiusura difensiva cui a volte le istituzioni ricorrono per non sentire le critiche che possono venire dalla famiglia e dalla società (questa visione del Nido come “Fort Alamo”….. ridotto è spesso il risultato di un deterioramento nei rapporti con la famiglia e conduce al progressivo emergere di difese di gruppo, da una parte e dall’altra, che sono sempre più infantili ed inadeguate).

In positivo, uno dei pilastri della cogestione educativa è la ridefinizione della metodologia di rapporto con i genitori. Poiché il Nido nasce, come dicevamo prima, dalla crisi della famiglia nucleare è chiaro che la domanda che viene dalle famiglie non è solo una domanda di cura e di educazione del bambino, ma anche di consulenza, potremmo dire, sui problemi che nascono dalla crisi della genitorialità.

Del resto, nel lavoro di gruppo che abbiamo fatto in questi due anni, abbiamo avuto modo di vedere ampiamente come questa richiesta di consulenza sia esplicitata già ora in termini netti dalle famiglie dei bambini, nonostante il fatto che finora la risposta a questo bisogno sia stata affidata all’intuito delle educatrici che, in piedi, sulla porta della sezione, a casa attraverso il telefono, ecc., hanno cercato di articolare, di fatto, una consulenza alle famiglie.

Ecco, il problema è di passare dall’intuito all’organizzazione, dalla estemporaneità della risposta alla programmazione della stessa. In questo senso dicevamo prima che occorre definire non solo uno spazio fisico ma anche uno spazio psicologico (interno) in ciascuna educatrice affinché questo lavoro, che è già nella prassi di tutte, sia fatto con il minimo sforzo (pensiamo alle cose dette prima sull’intrusività, sulla distanza ottimale, ecc.) e con il massimo di risultato. Questo spazio fisico e psicologico è il colloquio individuale col genitore.

 

    14 – Come dovrebbe essere questo spazio, in base alle cose che abbiamo potuto vedere nel lavoro di gruppo e che abbiamo riassunto nella prima parte della nostra relazione?

In primo luogo non si tratta di uno spazio in cui si può parlare di tutto e di tutti a ruota libera così, tanto per chiacchierare, ma si tratta di UNO SPAZIO “PER”.

Di uno spazio che abbia una dimensione operativa che consiste nel definire un’alleanza fra educatrice e genitore al fine di permettere al genitore stesso di trovare, con l'”aiuto”” dell’educatrice (vedremo meglio dopo in cosa consiste questo “aiuto”) la via che permetta il superamento dei suoi problemi di rapporto col bambino. In questo modo si definisce un rapporto fra educatrice e genitore che ha la doppia dimensione dell’espressività e dell’operatività. La dimensione espressiva senza l’operatività è il chiacchierare a vuoto di cui si parlava prima oppure il prodotto di quella identificazione totale, di cui parla Lai, che vi porta ad essere risucchiati dall’altro. L’operatività senza la partecipazione emotiva è un voler pensare, fare al posto dell’altro, cioè, l’indice di un rapporto basato sulla manipolazione dell’altro (Lai).

 

    15 – E la seconda caratteristica che dovrebbe avere questo spazio è proprio legata al discorso della manipolazione.

L’appartenenza delle educatrici ad un Ente, ad un’Amministrazione, lo abbiamo visto, è qualcosa che impregna di sé il comportamento quotidiano, gli atteggiamenti, le fantasie delle educatrici stesse, anche in situazioni, a prima vista, lontane dalla dimensione amministrativa. Nel caso delle educatrici di Asilo Nido è aggravato, forse, dal fatto che le scuole di formazione non hanno contribuito, in maniera sufficientemente solida, a formare un’identità professionale specifica e che, pertanto, il punto di riferimento di tipo amministrativo (il mandato dell’Ente), almeno all’inizio delle esperienze, è stato l’unico elemento intorno al quale tendeva a solidificarsi l’identità dell’educatrice. L’appartenenza all’Ente, almeno all’inizio, era nettamente prevalente rispetto al senso di appartenenza alla professione (per avere un termine di paragone basti pensare alla visione di sé che avevano le vecchie ostetriche di paese). Ciò significa che, all’interno di questo spazio fisico e psicologico che è il colloquio, è possibile che il senso di appartenenza all’Ente giochi dei brutti scherzi alle educatrici, proprio come avviene già ora negli incontri estemporanei con i genitori.

Se l’educatrice che si rapporta con il genitore si presenta con i panni dell’Amministrazione, si pone in una posizione di manipolazione del genitore stesso; per evitare questo rischio non vi è altra strada all’infuori di quella che abbiamo cominciato a calcare con questo aggiornamento, all’infuori, cioè, del lavoro su se stesse volto a definire un rapporto di identificazione operativa con il genitore.

 

    16 – Una volta definito questo spazio come A) spazio “per” B) spazio autonomo, si tratta ora di affrontare il problema centrale che ci si pone se si vuole superare veramente la situazione attuale e giungere ad uno stabile e verificabile arricchimento della professionalità: il problema del tipo di colloquio che si vuole mettere in piedi con i genitori.

Gli appunti della Mantovani e della Gelati da questo punto di vista ci aiutano a comprendere, anche se il problema del tipo di colloquio che è implicito in quel modello (che è il modello rogersiano) non è stato affrontato in nessuna delle due relazioni. Quando si parla di colloquio non direttivo, infatti, a nostro avviso occorre dire che non si tratta nè di colloquio di tipo selettivo, nè di colloqui di tipo diagnostico, ma di cosiddetti colloqui terapeutici.

Il colloquio di tipo selettivo è quello che, ad esempio, le assistenti sociali, in certe condizioni, fanno al fine di accertare se erogare o no un sussidio.

Il colloquio di tipo diagnostico è, ad esempio, quello che un Neuropsichiatra può fare in un 2° livello diagnostico per rispondere ai dubbi sollevati da un collega di 1° livello che opera nel territorio e segue complessivamente il caso, ma che, ad un certo punto, ha dei dubbi sulla reale natura di questo o quel problema.

Il colloquio di tipo terapeutico, invece, è (per tornare alle assistenti sociali come esempio) quello che a volte alcune di loro fanno con quei pazienti che chiedono aiuto circa la risoluzione dei loro problemi.

Noi pensiamo che il colloquio fra educatrici e genitori sia del 3° tipo.

 

    17 – Ora, mentre il colloquio di tipo selettivo e quello di tipo diagnostico implicano la necessità della direttività (ma anche su cosa si intende per direttività occorrerebbe intendersi), il colloquio terapeutico può svolgersi sia in termini direttivi che non direttivi.

Decenni di verifiche pratiche, fatte soprattutto nei servizi territoriali dei paesi anglosassoni (USA, Inghilterra), hanno permesso di appurare che la direttività su questo piano non paga perché essenzialmente non permette il raggiungimento dell’autocon-

sapevolezza da parte del “cliente” ed, anzi, tende ad accentuare la sua dipendenza dall’operatore che lo aiuta. Quindi non si tratta di aiutare il cliente (nel nostro caso il genitore) a risolvere i suoi problemi, ma di definire con lui un’alleanza, affinché lui, con i suoi tempi e le modalità che riterrà opportune, risolva il problema inerente ai rapporti col figlio (che è poi quello che lo ha portato da noi).

Le fasi attraverso le quali passa la conquista di questa autoconsapevolezza sono:

a) la decisione (autonoma) da parte del genitore di mettersi in discussione con noi, oppure la decisione (autonoma) da parte nostra di parlare con il genitore sui problemi del bambino che noi “cogestiamo” insieme alla famiglia, da un punto di vista educativo;

b) l’emergere delle cose che non vanno e la disponibilità (la possibilità per alcuni) a proseguire su questo piano;

c) l’inizio di una fase di maggior disponibilità ad accogliere quanto di positivo vi è nel rapporto attuale con il proprio figlio che è la base sulla quale si baserà necessariamente la nuova consapevolezza delle proprie possibilità sul piano della genitorialità;

d) l’emergere dei primi fatti concreti (sia sul pino interno che esterno) che attestano il sorgere dell’autoconsapevolezza;

e) il solidificarsi di questi atteggiamenti e il senso di disagio ad interrompere il rapporto con l’educatrice.

 

    18 – In tutte queste fasi l’atteggiamento dell’educatrice dovrebbe essere non direttivo. In che senso?

Nel senso che occorre astenersi dal dare consigli, rilevare (soprattutto ciò è importante nelle fasi iniziali del rapporto) non i contenuti della comunicazione ma i sentimenti che sono sottesi e che, in certo modo, sostengono i contenuti, usare l’arma della chiarificazione e del confronto (mai quella dell’interpreta-

zione) per permettere l’accrescersi dell’autoconsapevolezza.

E’ molto importante partire con il piede giusto, cioè non iniziare con una manipolazione ma partire da un rapporto di identificazione operativa con il genitore. Ciò significa, ad esempio, che l’educatrice non dovrebbe essere coinvolta in colloqui a fini selettivi poiché, come dice Lai, se si comincia con una manipolazione è poi difficile prendere un rapporto di identificazione con l’altro, il quale ci avrà già percepito come funzionari e non come persone che possono definire un’alleanza educativa con loro (in parole povere, persone con cui confidarsi su questioni intime e dolorose).

 

    19 – D’altro canto occorre tenere presente che la distinzione per fasi ha un valore esclusivamente euristico, didattico. In realtà è impossibile dire concretamente, nella pratica, quando finisce una fase e comincia la successiva: elementi di autoconsapevolezza possono essere presenti fin dall’inizio del rapporto, così come possono tardare ad emergere. Dipende dalla natura del problema, dalle caratteristiche di chi ci sta di fronte e da noi stessi se il rapporto potrà risolversi in pochi incontri o se si protrarrà più a lungo. L’importante è partire, come abbiamo fatto nei nostri incontri di gruppo, dalla consapevolezza (nostra, questa volta) che molto è già stato fatto da ciascuna di voi a livello intuitivo, poiché tutte voi, da quando avete cominciato a lavorare, avete avuto modo quotidianamente di rapportarvi con i genitori.

Il problema, quindi, non è di porsi su di un piano di rottura col passato, sposando in maniera adialettica il colloquio non direttivo, ma, al contrario, di recuperare dal passato tutto ciò che ci ha permesso di crescere e di arricchirci e di inserire, su questo terreno già ricco di fermenti, attraverso un lavoro lungo e continuo nella riflessione, la pianticella del colloquio non direttivo, sapendo che quello che verrà fuori è qualcosa di nuovo e di originale, che viene dall’innesto di una tecnica nata lontano da qui con quello che ciascuna di voi è già socialmente e culturalmente.

 

    20 – E qui veniamo all’ultimo punto che ci preme sottolineare in sede di verifica: il problema della cultura dell’educatrice e del genitore.

Nei testi (per educatrici, assistenti sociali, ecc.) che sono nati dall’esperienza dei servizi territoriali USA (esperienza enorme per importanza e che data ormai dagli anni ’35/’40), vi è quasi un’ossessione nel sottolineare che l’operatore deve rinunciare alle sue origini familiari, culturali, razziali, per potersi identificare nella professione. Ciò è legato alla particolare situazione in cui l’operatore viene a trovarsi negli USA dove diverse nazionalità, razze e culture sono a contatto, ingenerando una serie infinita di problemi.

Nel nostro piccolissimo universo, invece, come abbiamo detto nella prima parte della nostra relazione, il problema semmai è quello di una situazione di piccolo paese in cui, non solo vi è stessa cultura, stesse radici, fra educatrici e genitori, ma anche livelli di conoscenze, di amicizie, di parentele che, sommati alla esilità amara del profilo professionale dell’educatrice di Nido, fanno sì che il problema della definizione di una solida e riconosciuta professionalità si leghi proprio all’esigenza di prendere le distanze da un mondo che ti esprime, che ha bisogno di te (anche come aiuto di fronte alla crisi della genitorialità) ma che, nello stesso tempo, proprio perché è troppo simile a te, stenta a riconoscere che tu nel frattempo sei diventato grande, che hai la tua da dire, ecc.

 

    21 – Il colloquio, quindi, non solo implica la presa di una distanza giusta dal genitore (ne troppo vicino, ne troppo lontano) ma anche, nel nostro caso, una presa di distanza simbolica dalla città, diventando così una parte importante della nuova immagine dell’educatrice di Asilo Nido.

A questo punto va detto, infine, che ciò sarà possibile solo se si prosegue nell’opera di discussione su se stesse che abbiamo cominciato l’anno scorso perché, altrimenti, lo squilibrio di poteri nel colloquio fra educatrice e genitore, invece di andare verso un equilibrio più simmetrico e più ricco per entrambi, andrà verso la definizione di un nuovo privilegio pedagogico.

 

 

 

 

 

B I B L I O G R A F I A

 

ANGELINI L., BERTANI D., “Gruppi di educatrici centrati sul rapporto con il bambino”, in “Pollicino” N.2, primavera – estate ’85, pp. 78-88.

 

H.E. RICHTER   “Genitori, figli e nevrosi”        Ed.Il Formichiere

 

 

G.P. LAI       “Gruppi di apprendimento”             Ed. Boringhieri

 

 

C.R. ROGERS    “Psicoterapia di consultazione”       Ed. Astrolabio

 

 

A. KADUSKIN    “Il colloquio nel servizio sociale”   Ed. Astrolabio

 

 

(Appunti dalle relazioni di G. Mantovani e Gelati)