In difesa del nozionismo (o della complessità del valutare)

 

di Margherita Papa

In questi giorni nelle scuole italiane si stanno svolgendo le prove Invalsi e nei giornali o sul web è tutto un fiorire di articoli di protesta e critica nei confronti delle valutazioni oggettive dell’apprendimento scolastico. Ci sono anche insegnanti in sciopero in alcune scuole che si rifiutano di fare le prove.

Prima di tutto vediamo di chiarire in cosa consistono le prove Invalsi: sono delle valutazioni degli apprendimenti degli alunni, somministrate collettivamente, in un tempo determinato. Sono divise per classe e uguali per tutto il territorio nazionale. Hanno prevalentemente la forma di domande a risposta multipla e quindi usano delle griglie di correzione (che quasi sistematicamente vengono mandate in ritardo e a volte sono risultate errate, con conseguente, comprensibile, scandalo).

Devono essere create da persone esperte in tecniche di valutazione e dovrebbero essere somministrate da personale esterno alla classe per evitare fenomeni di facilitazione degli allievi da parte degli insegnanti. Ma una procedura simile implicherebbe una spesa ulteriore, che in un momento difficile per i servizi pubblici non è prevedibile.

In questi articoli del sito Viva la scuola si trova un esempio  abbastanza chiaro di discussione ed anche alcune fonti, ad esempio stralci del documento del 2008 di Ichino, Checchi, Vittadini, che ha avviato la sperimentazione del Ministero dell’istruzione sulla valutazione oggettiva delle scuole.

Una premessa importante, che spesso non viene abbastanza evidenziata nei dibattiti, riguarda la complessità delle variabili che sono implicate nell’apprendimento scolastico.

L’apprendimento scolastico è un fenomeno correlato con le capacità individuali dell’allievo, supponiamo prevalentemente con l’intelligenza, anche se sappiamo che non è questa l’unico fattore; con il metodo didattico utilizzato dagli insegnanti (ad esempio il metodo globale o il metodo fonetico nell’insegnamento della lettura) e purtroppo ancora molto correlata anche con fattori economici e sociali: è un dato risaputo che i figli di laureati si laureano più facilmente dei figli degli operai.

Il tema è quindi complesso perché  si estende su  diversi livelli di analisi e, direi, di realtà percepita dagli osservatori:

  • un livello tecnico scientifico di tipo psicologico, cioè la validità interna ed esterna delle valutazioni oggettive:quanto le prove siano costruite correttamente  e quanto riescano a descrivere il fenomeno che vogliono inquadrare;

  • un livello pedagogico e didattico: in quale modo i risultati delle prove possono essere correlati con il metodo applicato nelle classi e se abbia senso valutare dei metodi di insegnamento attraverso questi strumenti;

  • un livello che riguarda l’organizzazione del lavoro nelle scuole e quindi anche i sindacati, cioè quanto i risultati delle prove possono essere utilizzate per riorganizzare il personale scolastico, modificare ruoli e posizione oppure premiare o penalizzare gli insegnanti delle classi che abbiano avuto risultati peggiori;

  • un livello economico e sociale, cioè in quale modo le condizioni economiche, in termini di risorse economiche assegnate alle scuole, e le condizioni sociali, in termini di appartenenza degli allievi a ceti sociali più o meno svantaggiati, possano influire sui risultati e debbano entrare a far parte della valutazione dei risultati delle prove.

Aggiungerei a questi livelli uno ulteriore, che a volte mi sembra prevalere su tutti e creare maggiore confusione: quello ideologico, che rifiuta aprioristicamente qualsiasi ipotesi di valutazione dei processi didattici, perché  troppo connotata come collusiva con culture politiche di destra.

Nella disamina degli articoli e dichiarazioni intorno a questo tema le obiezioni sono in genere le seguenti, più o meno sembrano appartenere ai diversi livelli individuati, ma spesso nella discussione le obiezioni si intrecciano una con l’altra: le prove Invalsi

  • sono quiz superficiali, che non approfondiscono davvero l’apprendimento dei ragazzi,

  • sono valutazioni nozionistiche,

  • sono prove troppo simili a test cognitivi,

  • possono diventare l’alibi per indirizzare gli insegnanti a fare solo quello che viene richiesto dalle prove,

  • favoriscono solo l’apprendimento in funzione di un lavoro pratico,

  • possono diventare un modo per premiare le scuole che hanno buoni risultati e dare ancora meno risorse alle scuole che invece non ne hanno,

  • non possono rilevare lo spirito critico e la creatività degli allievi,

  • non valutano e rischiano di svalutare i metodi pedagogici che mettono al primo posto lo sviluppo della personalità degli allievi.

Di questi livelli di analisi quelli sui quali più propriamente mi sento di intervenire sono ovviamente la polemica intorno alla validità delle prove di profitto e alla interpretazione dei risultati, perché nelle discussioni mi è sembrato spesso di percepire una confusione notevole.

Cerchiamo di chiarire alcune questioni: l’ipotesi dei ricercatori che sostengono la necessità di una valutazione oggettiva dei risultati scolastici potrebbe essere che se si mette una popolazione, mettiamo  quella degli allievi delle classi quinte elementari italiane, a rispondere a delle domande sulle nozioni di base del loro programma scolastico, stesse domande e stesse condizioni di tempo e contesto, si dovrebbe avere  su tutto il territorio nazionale la stessa distribuzione di risposte esatte ed errate, supponendo che vi sia una distribuzione correlata con quella della intelligenza, cioè una Distribuzione_normale. Se questo non avviene, cioè se la distribuzione è più bassa, più alta, disomogenea in modo significativo (in senso statistico), allora indica che il sistema di istruzione non riesce a raggiungere i suoi obbiettivi per l’influenza di altre variabili.

Una rappresentante dell’Invalsi Elena Ugolini spiega infatti il senso delle prove con la necessità di comparare i risultati scolastici degli allievi in classi diverse della stessa scuola, in scuole diverse dello stesso territorio o in regioni diverse della nazione. Le prove sono nozionistiche, indirizzate a individuare le capacità di base degli allievi, non sono certo esaustive della complessità degli apprendimenti, ma non hanno altri obbiettivi se non individuare un livello base al quale riferirsi come standard.

Se supponiamo che i bambini abbiano una intelligenza che è distribuita in modo normale anche gli apprendimenti, a parità supposta delle altre variabili, dovrebbero esserlo in modo correlato. Se questo non avviene è probabile che il programma non sia stato svolto nello stesso modo in tutte le scuole, oppure che gli insegnanti non siano stati messi in grado di avere tempo e strategie didattiche adeguate per svolgerlo, oppure che la popolazione di quella scuola sia svantaggiata in termini sociali o culturali, oppure altre variabili che sono da indagare e valutare caso per caso.

Quindi i dati di per sé non indicano nulla a meno che non vengano inseriti in una ipotesi di ricerca, il punto è che la sperimentazione del Ministero non indica chiare ipotesi da verificare e si espone così alle più varie interpretazioni.

Una di queste presuppone che le prove di profitto possano essere lette nelle stesso modo dei risultati ai test intellettivi. Ma il fatto che le prove di profitto siano correlate con i test cognitivi non significa che siano lo stesso tipo di misura, errore che invece alcuni opinionisti continuano a fare più o meno esplicitamente. Chi quotidianamente somministra test di intelligenza e prove di apprendimento conosce bene la differenza di struttura e di contenuto delle prove. Le prove di apprendimento sono maggiormente suscettibili ai cambiamenti dei programmi, dei contesti culturali e necessitano di una revisione più costante, sono per questo meno valide per valutare le reali potenzialità cognitive.

I test intellettivi, oltre ad aver bisogno di una somministrazione individuale e non collettiva, cercano il più possibile di essere “culture free”, cioè di non essere influenzati in modo preminente da variabili dovute all’ambiente sociale e culturale di provenienza del soggetto. Hanno una standardizzazione verificata su ampie popolazioni e tenuta regolarmente aggiornata, ed hanno una maggiore validità interna ed esterna.

Quindi è errato supporre che le prove Invalsi diano un quadro del livello intellettivo della popolazione scolastica, né questo è l’obbiettivo di chi le ha proposte.

In ogni caso proprio il confrontarsi quotidianamente con i test cognitivi produce un antidoto alla loro assolutizzazione, chi li usa sa bene che non si tratta di misure oggettive, ma probabilistiche, basate su concetti di distribuzione statistica che non possono certo essere oggettivizzati, nonostante tanti tentativi in tal senso.

Il costrutto del Quoziente Intellettivo, cosi come quello del risultato del profitto è solo appunto un “costrutto” scientifico e metodologico, non una realtà oggettiva. Serve a paragonare un allievo alla popolazione di appartenenza e non a classificare la sua intera personalità, neanche a volte a fare un quadro intero delle sua capacità.

I test sono strumenti, vanno saputi usare come tali, non sono in sé portatori di una ideologia, anche se sembra che per molti studiosi sia ancora così.

La riflessione  che vorrei sottolineare con forza è la distinzione tra i risultati delle prove Invalsi, che rappresentano solo un quadro di come si distribuiscono le risposte degli allievi di una certa classe scolastica sul territorio italiano, e le varie interpretazioni che si possono dare di questo dato.

Non sono le prove in sé ad essere razziste, superficiali, orientate ad un rafforzamento delle ideologie di destra, sono le ipotesi e le interpretazioni dei dati che possono diventarlo.

Ci sono state interpretazioni che hanno assunto connotazioni razziste, spiegando ad esempio la differenza dei risultati tra il Nord ed il Sud d’Italia con caratteristiche genetiche, così come riportato nel resoconto dell’Osservatorio Psicologia nei Media sulla  polemica Lynn. Un professore irlandese ha convertito i risultati dei test PISA (test di profitto somministrati a ragazzi delle scuole superiori) in indicatori di intelligenza generale (l’errore metodologico di cui prima discutevo) e ne ha ricavato inferenze sulla diversa dotazione intellettiva della popolazione del Nord e del Sud Italia.

Sulla base di inferenze come queste altri studiosi contestano che abbia un senso utilizzare delle prove, che possono essere così facilmente assimilate a delle prove cognitive, per capire meglio il sistema dell’istruzione. Anzi sospettano che il solo uso reale sia quello di servire fini omologanti: ad esempio il ricercatore Foschi, nell’articolo Il cittadino desiderabile, indica che l’obbiettivo vero sia quello di una “omogeneizzazione delle conoscenze”, in vista di costruire un “bambino astratto che includa tutte le conoscenze valide in ogni paese a capitalismo avanzato. Una vecchia storia.” Appunto: una vecchia critica che viene fatta spesso alle scienze psicologiche, accusate per la loro istanza valutativa di asservire fini omologanti.

Un’ insegnante-scrittrice, Paola Mastrocola, che spesso scrive di questi argomenti svolge allo stesso tempo, nel suo libro Togliamo il disturbo (Guanda 2011), due argomentazioni a mio modo di vedere contrastanti: la prima è che la nostra scuola non è più preoccupata di far imparare le nozioni di base agli allievi, la seconda assomiglia alla tesi dell’articolo di Foschi, cioè che le prove di profitto sono funzionali solo ad una scuola moderna capitalista e aziendalista.

Se la preoccupazione della Mastrocola, che condivido pienamente, è quella che i nostri ragazzi arrivano all’Università facendo ancora gravi errori ortografici, allora valutare in quinta elementare le loro capacità di comprensione della grammatica e della ortografia attraverso le prove Invalsi potrebbe dare degli indicatori precoci della necessità di intervenire.

La Mastrocola difende in modo provocatorio l’idea del nozionismo nel suo significato puro di conoscenze di base: “Conoscenza basata o derivata soltanto dall’apprendimento di nozioni, di notizie, di dati non approfonditi e non elaborati sinteticamente, organicamente e criticamente”. La sua posizione è orientata ovviamente a stimolare negli allievi la sintesi, la critica e l’elaborazione personale dei dati, ma parte dalla assimilazione delle nozioni, che sono come le definisce il dizionario UTET “qualsiasi atto o operazione conoscitiva o immagine ideale che l’intelletto si forma di un qualsiasi oggetto della conoscenza.” Chi voleva una scuola più democratica ha usato l’argomento del nozionismo per accusare la scuola classista, ed ora la stessa accusa viene rivolta anche alla Mastrocola, quando difende la priorità della acquisizione delle conoscenze rispetto a quella del benessere dell’alunno all’interno della istituzione scolastica. A rigor di logica quindi delle prove oggettive, per quanto nozionistiche, tarate sul programma svolto nella classe, potrebbero essere un buon punto di partenza per tornare ad una scuola che metta al primo posto i contenuti.

Non capisco invece il timore che anche questa autrice manifesta rispetto al fatto che le prove Invalsi diventino l’unico obiettivo didattico degli insegnanti o possano essere manipolate in senso “aziendalista” cioè costruite per i bisogni esclusivi delle aziende che cercano impiegati.

Le prove di apprendimento sono costruite sugli obiettivi dei programma scolastici: se l’obbiettivo di una classe di liceo classico è imparare il latino, le prove attesteranno la conoscenza delle declinazioni e la capacità di tradurre correttamente un brano. Se l’obbiettivo della classe del professionale ad indirizzo informatico è la conoscenza dei principali codici di programmazione informatica le prove saranno finalizzate a valutare quel tipo di informazioni. Non sono i test o i “tecnocrati” a decidere gli obiettivi della programmazione scolastica, i test verificano la conoscenza delle nozioni che altre istituzioni hanno individuato come finalità di quel corso di studi.

La battaglia per mantenere gli studi umanistici, per anzi ridare loro valore proprio in una società che rischia di segmentare le conoscenze in filoni sempre più specialistici e disconnessi tra loro, è una battaglia culturale che va al di là dello schierarsi pro o contro le prove Invalsi. E’ una battaglia che si deve combattere politicamente quando vengono riformati gli indirizzi delle scuole superiori, quando vengono ridotte le ore delle materie umanistiche, quando viene ridisegnato il percorso degli studi universitari.

Mi sembra che sul tema della valutazione con prove strutturate si siano create delle aspettative e degli antagonismi che non c’entrano con la costruzione delle prove in sé. Si attribuisce loro ogni malfunzionamento o possibile catastrofe della scuola italiana e se ne approfitta alla fine per rigettare qualsiasi tipo di valutazione nella scuola.

Le prove Invalsi ad esempio non possono essere comparate ad un metodo didattico, né possono davvero valutare tutta la complessità della relazione insegnante-allievo. Sono solo uno degli aspetti di quella relazione pedagogica, quella del rendimento, del profitto, che è importante, ma non può certo essere l’unico paramentro di riferimento per comparare le metodologie didattiche.

Nemmeno ci si può attendere che questo sistema ci dia un’idea della creatività dei ragazzi, ma appunto perché dovrebbe? Però volgendo l’argomento al contrario: perché valutare le nozioni che hanno gli allievi dovrebbe rovinare la loro creatività?

Tanto meno sarebbe corretto utilizzare le prove per fini di premio o punizione, in termini economici, del singolo insegnante o neanche della singola scuola. In fondo il ragionamento delle risorse economiche attribuite alle scuole con rendimento più alto potrebbe addirittura essere rovesciato: dare più fondi alle scuole dove i test sono peggiori, proprio per permettere agli insegnanti di aumentare le ore di didattica ed i progetti speciali.

Condivido la posizione che mi sembra già più flessibile ed aperta ad una soluzione di miglioramento del sistema valutativo di Benedetto Vertecchi. Riporto le sue conclusioni:

“La questione deve essere affrontata in una prospettiva di promozione complessiva della ricerca educativa. Quanto agli oggetti della valutazione, non ci si può limitare a raccogliere, anno dopo anno, gli esiti della somministrazione di prove strutturate per stabilire quali siano stati i livelli di apprendimento conseguiti. Occorre usare la valutazione per ciò che realmente è, e cioè come una strategia conoscitiva volta ad analizzare i fenomeni per come appaiono al momento e per come si sono modificati e, presumibilmente, potranno modificarsi in tempi di qualche consistenza. C’è bisogno di riferire l’educazione scolastica (o esplicita, perché intenzionalmente rivolta al passaggio di conoscenze e valori fra le generazioni) alle condizioni di vita, e rilevare le interazioni che si stabiliscono fra educazione esplicita e implicita (acquisita cioè nelle condizioni quotidiane di esistenza).”

Non potrebbe essere che i dati delle prove una volta raccolti vengano restituiti al singolo Istituto Comprensivo, per essere incrociati ad esempio con dati relativi al livello di istruzione dei genitori degli allievi o ad altre variabili ritenute importanti dal Consiglio di Istituto, rilevate anche con altri strumenti di valutazione? Non potrebbe succedere che sulla base di queste analisi si potesse orientare e migliorare l’offerta formativa, riorganizzare la didattica, trovare anche nuove risorse? Se la discussione e l’analisi avvenissero in modo trasparente e condiviso dalla comunità alla quale l’Istituto appartiene non potrebbe essere un’occasione di rinnovamento?

Non rinchiudiamoci nella idea della missione educativa dell’insegnante, che da solo pone i suoi standard e crea le relazioni con i suoi allievi, perché un insegnante deve avere passione per la materia che insegna e deve avere passione per i suoi studenti, ma deve anche accettare di confrontarsi con degli obiettivi che siano stabiliti dalla comunità nella quale vive.

Allora adottiamo sistemi valutativi basati su ricerche nazionali, adattiamoli al nostro contesto culturale, rendiamoli al limite anche più snelli facendoli a campione, rendiamo esplicite le ipotesi interpretative dei dati raccolti, permettiamo ad ogni singola scuola di avere un quadro complessivo dei suoi risultati, in rapporto a scuole dello stesso livello, per analizzarli e orientare la programmazione nell’ambito della autonomia, cioè miglioriamo il sistema delle prove Invalsi, ma valutiamo, valutiamo, valutiamo.

Solo attraverso la valutazione può nascere una analisi seria e sensata di come lavora un sistema educativo. Valutiamo anche l’organizzazione delle scuole, valutiamo le didattiche, diamo la possibilità di valutare le scuole anche alle famiglie e agli studenti, ma facciamo più valutazioni non meno.

Su questo tema gli psicologi potrebbero avere degli argomenti, no?

6 Risposte a “In difesa del nozionismo (o della complessità del valutare)”

  1. condivido quanto letto aggiungo è da anni che noi piccoli insegnanti gridiamo l’inutilità delle prove invalsi somministrate in questo modo……….

  2. Non rinchiudiamoci nella idea della missione educativa dell’insegnante, che da solo pone i suoi standard e crea le relazioni con i suoi allievi, perché un insegnante deve avere passione per la materia che insegna e deve avere passione per i suoi studenti, ma deve anche accettare di confrontarsi con degli obiettivi che siano stabiliti dalla comunità nella quale vive.

    Allora adottiamo sistemi valutativi basati su ricerche nazionali, adattiamoli al nostro contesto culturale, rendiamoli al limite anche più snelli facendoli a campione, rendiamo esplicite le ipotesi interpretative dei dati raccolti, permettiamo ad ogni singola scuola di avere un quadro complessivo dei suoi risultati, in rapporto a scuole dello stesso livello, per analizzarli e orientare la programmazione nell’ambito della autonomia, cioè miglioriamo il sistema delle prove Invalsi, ma valutiamo, valutiamo, valutiamo.

    Le parole di Vertecchi che riporto qui sopra mi sembra dicano proprio dell’utilità delle Prove INVALSI, se ben usate non il contrario come dice Silvia. Io le somministro sempre volentieri e le uso come test per il mio modo di insegnare, non per valutare gli allievi o almeno non solo. Sarebbe sempre consigliabile poi in estate andarsi a scaricare i report che INVALSI fornisce, i dati aggregati e disaggregati sui quali certe riflessioni sono utili.
    A mio modesto avviso ci vogliono anche queste.

    1. Solo una precisazione: la citazione di Vertecchi è quella del paragrafo precedente, le conclusioni che lei riporta sono le mie. Mi fa piacere che le condivida.

  3. Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione, perche’ il blog merita davvero e voglio scriverlo a chiare lettere.

  4. Interessante essere liquidato come ricercatore che fa critiche datate solo per pensare di rendere un beneficio alla psicologia scrivendo cose non sostenibili dal punto di vista scientifico.

    1. Ad esempio scrivere che la curva a campana per i fenomeni psicologici o di istruzione è un dato di fatto significa ignorare che “come tutti gli psicometristi sanno” i fenomeni psicologici sono quasi tutti non a campana e non fa eccezione l’intelligenza. Sul merito si sono scritte biblioteche di volumi e articoli basta fare una ricerca su google scholar : inserire “bell curve” and intelligence.

    2. Per quanto riguarda le mie critiche datate rimando alle mie pubblicazioni su prestigiose riviste attuali dell’American Psychological Association anche per queste controllare su google scholar oppure su PschInfo…è in uscita un numero monografico sul tema misura dell’intelligenza su History of Psychology rivista APA la cui lettura gioverebbe.

    3. Se un mio allievo viene all’esame e mi dice che la psicologia nasce con delle istanze valutative in primo luogo gli chiedo dove lo ha letto. La psicologia risponde a delle esigenze sociali e spesso come nel caso dell’INVALSI risponde a richieste di valutazione che hanno fini politici “espliciti” e portato molti danni alla stessa psicologia. Su questo ci sono intere biblioteche. Rimando ad una bella ricerca sulla letteratura internazionale in merito…ci sono e ci sono stati psicologi italiani che non avrebbero mai scritto un post come questo.

    In tempi di Invalsi mi chiedo quanti psicologi italiani ricordano i contenuti di un classico insuperato A. Anastasi Psicologia differenziale. Giunti, Firenze.

  5. Nessuna intenzione di liquidarla, mi sembra di aver argomentato una critica alle sue critiche, che a mio modo di vedere si basavano su una discutibile equazione tra test di profitto e test intellettivi.
    Mi sembra invece che lei non abbia letto attentamente quanto ho argomentato, perché scrivo chiaramente che il QI non è un dato di fatto ma un costrutto scientifico e probabilistico. Il dibattito su quanto il QI corrisponda all’intelligenza è ampio e non mi trova certamente schierata su posizioni riduzionistiche.
    Il riferimento ai suoi titoli accademici è interessante, ma forse non pertinente in questa sede.
    Sull’origine della psicologia “scientifica” a me è stato invece insegnato che i laboratori di Wundt, gli esperimenti di Thorndike e di Pavlov, le ricerche sulla memoria di Ebbinghaus hanno segnato il discrimine tra la psicologia come branca della filosofia e la psicologia moderna, ma certamente ho studiato molti anni fa…..:)

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