“Giocare sul serio con le parole”: origini individuali del buon lettore e funzioni sociali della lettura – alcune note (2007)

di Deliana Bertani

(già apparso in: Angelini, Bertani, Cagossi, Cantini, I Giovani come risorsa – Giovani volontari, psicologi, docenti e social worker nell’esperienza di Gancio Originale, Ed. Psiconline, 2011, pp. 375380)

E’ noto che uno dei fondamenti in base ai quali si definisce l’alleanza fra autore e lettore è la cooperazione interpretativa.

Per definire cos’è cooperazione interpretativa farò ricorso a Eco. Per cooperazione interpretativa Eco intende il legame che si definisce fra: a) le capacità dell’autore di costruire un testo in base a degli “artifici espressivi” che consistono nel disseminare il testo appunto di tracce che alludono economicamente ad una trama e che abbiano in sé il potere di attivare un potenziale lettore; e b) la capacità di quest’ultimo di dare significato, di interpretare il testo a partire da un processo di significazione di quelle tracce, che di per sé non sono mai ridondanti, ma piuttosto allusive.

Il che significa che, da una parte ci deve essere un autore che, specie nei testi narrativi ad alta dimensione estetica, deve avere un’alta capacità affabulatoria, dall’altra un lettore che sia attratto dal testo, che sia disposto ad attualizzarlo e a interpretarlo, ma che sia anche capace di cogliere gli elementi “grammaticali” del testo, la sua appartenenza a questo o a quel genere di racconto che le varie forme della narrazione (narrare orale in situazione, libro, televisione, ecc.) della propria cultura di appartenenza hanno sedimentato nel tempo.

In questo mio contributo non mi occuperò di ciò che avviene sul versante dell’autore, e neanche – a dir la verità – al lettore già fatto, quanto:

1. a ciò che avviene nella psicologia individuale del costituendo lettore, e cioè del bambino dal momento in cui, piccolissimo, comincia a comprendere e a usare le prime parole, fino al momento in cui, appresa la lettura si dispone a leggere autonomamente un testo scritto;

2. a cercare di capire come mai ogni società letterata sente il bisogno di produrre dei buoni lettori.

1. Nei primissimi mesi di vita la comunicazione fra madre e bambino più che attraverso la parola passa attraverso il corpo. Gli psicomotricisti francesi parlano a proposito di dialogo tonico in cui ciò che passa nella diade avviene a livello più del soma che della psiche.

Certo è che fin dal momento in cui il bambino conquista la parola frase ciò presuppone in lui la padronanza a fianco di un lessico che inizialmente può essere fatto solo di gesti, di un vocabolario ben più ampio di parole che sono passate a lui e dalla madre e dall’ambiente primario, e che rappresentano il suo primo vocabolario circoscritto per ora agli oggetti del suo piccolo quotidiano.

Non è un caso che la solidificazione di queste prime conquiste sul piano linguistico avvengano nello stesso periodo in cui conquista la deambulazione che gli permette di allontanarsi dalla madre e di esplorare l’ambiente. Nascono così in questo periodo due grandi direttrici della crescita che sono destinate ben presto ad ampliare e a complicare il lessico, il vocabolario e la sintassi del bambino. La prima è appunto l’esplorazione che lo porterà ad una lenta e progressiva conquista del  mondo a cui corrisponderà a livello rappresentazionale l’universo delle parole e dei concetti che si sedimenteranno in lui in relazione al suo rapporto con il mondo esterno.

La seconda è il gioco che come ci ha insegnato Winnicott è l’erede dell’area transizionale e rappresenta la capacità del bambino di non essere mai solo e di mantenersi sempre in rapporto e in sintonia con il mondo .

Arriva ben presto un momento in cui all’adulto è possibile raccontare al bambino una fiaba (oppure oggi al bambino di diventare fruitore di una fiaba o qualche altro spettacolo proposto dalla televisione) Bettelheim ci ha dimostrato come il racconto della fiaba abbia una funzione liberatoria, rappresenti una vera e propria terapia volta ad affrontare con coraggio e a risolvere i cosiddetti conflitti di fase legati alla crescita.

Ciò che non viene sottolineato abbastanza è che uno dei risultati di questo gioco diadico è la sedimentazione nel bambino di nuove capacità interpretative del testo narrato nonché una sempre più raffinata capacità selettiva in base alla quale ciascun testo viene riconosciuto come appartenente ad uno specifico genere narrativo.

E’ inutile sottolineare quanto ciò sia importante per la formazione del futuro lettore.

L’adulto che racconta in situazione  aiuta il bambino a riconoscere i generi di appartenenza attraverso una serie di escamotage espressivi i più famosi dei quali sono le formule di apertura e chiusura delle fiabe (C’era una volta …). La stessa cosa fa la televisione allorché in un cartoon incentrato su un racconto perturbante accompagna con una musica di sottofondo che avvisa e sottolinea l’ingresso in questa dimensione. E’ in questo modo che il bambino ancora piccolo diventa sempre più competente da un punto di vista grammaticale e sempre più attivo e raffinato dal punto di vista interpretativo anche se per ora è ancora solo l’ascoltatore e non il lettore.

In effetti, anche se noi partiamo dal significato etimologico della parola leggere = raccogliere, non possiamo non notare che in queste pratiche di ascolto il bambino raccoglie e mette dentro di sé sia i contenuti e le storie sia quella grammatica (l’inizio, la fine, gli aspetti sovrasegmentali, il prima e il dopo ecc., la continuità, l’attenzione …) e quell’attitudine interpretativa che gli serviranno per diventare un buon lettore, per apprendere, per ribadire e ampliare la propria appartenenza.

Il passo successivo sarà, se nel frattempo non saranno intervenuti impedimenti e repressioni, una capacità attiva che ancora non comprende la parola scritta ma già allude più da vicino ad essa: la capacità di esprimersi attraverso il disegno che per ora non  contempla la capacità di mettere in sequenza sul piano grafico il dipanarsi di un racconto ma che è importante sia da un punto di vista cognitivo che affettivo. Affettivamente perché il bambino si rende conto che può rappresentare attraverso l’uso del segno e del colore in maniera icastica il proprio sentire e quindi può esprimere attivamente ciò che naviga nel proprio mondo interno. Da un punto di vista cognitivo il passaggio dalla tridimensionalità alla bidimensionalità lo porterà ben presto ad attribuire un significato univoco al segno sul quale poi gli educatori della prescuola e la scuola trasformeranno nel miracolo della scrittura.

A questo punto e solo a questo punto il bambino è pronto per passare all’apprendimento della lettura e della scrittura e dopo un periodo di allenamento che lo porta rapidamente a procedere sul piano e dell’analisi e della sintesi sarà in grado, sotto le guida e l’esempio che proviene dagli adulti che lo circondano a casa e a scuola, di cominciare a leggere tutti i testi che l’ambiente vorrà proporgli e con sorpresa ritroverà in ciascuno di essi, grazie alle capacità apprese in precedenza sul piano cognitivo e interpretativo, tutti i contenuti che ha già imparato ad amare e tutti gli stilemi in base ai quali ha già imparato a catalogare i testi e acquisterà confidenza con quelle forme che incontrerà mano a mano che cresce, specialmente se gli adulti che lo guidano dimostrano con l’esempio di amare la lettura e la scrittura, di investire affettivamente in esse.

2. La seconda domanda cui cercherò di dare una risposta è questa: come mai ogni società letterata sente il bisogno di produrre dei buoni lettori; come mai tale bisogno di lettura si perpetua da una generazione all’altra; come mai ci preoccupiamo quando pare che le istituzioni preposte all’insegnamento della lettura sembrano non essere più in grado di produrre buoni e appassionati lettori.

Io penso che la risposta a questo interrogativo sia nella consapevolezza che noi abbiamo del fatto che attraverso la lettura entri nel bambino di oggi e nell’adulto di domani quell’apparato di conoscenze, di memorie, di sensibilità, di storie, di elementi mitologici e di credenze che rappresenta il fulcro della nostra appartenenza.

Si tratta di un corpus di “testi” di varia natura (non dobbiamo pensare solo ai testi scritti quando ci riferiamo ad esso) che sono in continuazione sottoposti ad un processo di contaminazione linguistica, di contenti e di forme, la cui preservazione, il cui sviluppo meritano di essere osservati con particolare attenzione qui da noi oggi, poiché viviamo ormai da tempo in una società in rapida trasformazione, in cui – da una parte – diventa sempre più problematico fare i conti con il nostro passato e la nostra tradizione, dall’altra nuove sfide si impongono sul piano linguistico e culturale ad una società che sta diventando sempre più multietnica.

Sfide che  potremmo così sintetizzare  “come fare in modo che  la nostra società, la nostra cultura rimanga se stessa nel cambiamento”.

Ebbene c’è una linea di espansione dell’appartenenza che – come accennavamo prima –  secondo Winnicott può essere vista come una traiettoria che parte dallo stato di unità duale del bambino con la madre, passa attraverso l’area transizionale, il gioco e il gioco condiviso, per giungere alla definizione dentro di sé della propria appartenenza culturale.

A mio avviso la sedimentazione dentro al bambino di tutto quell’insieme di trame e di racconti, che all’inizio passa attraverso la sua fruizione passiva di ascoltatore e poi attraverso l’opera più attiva di decifrazione dei testi scritti e non, è uno dei vettori dell’istituzione dentro al bambino appunto dell’area dell’appartenenza culturale.

Perché ciò possa avvenire abbiamo visto che c’è bisogno di un processo di apprendimento di competenze “grammaticali”, di attitudini ermeneutiche, interpretative che possono essere introiettate solo se l’adulto con cui il bambino entra in contatto, allorché si appresta a leggere un testo, ami esso stesso il testo. Solo così è possibile far diventare il bambino attivo nell’opera di cooperazione interpretativa del testo e voglioso di perdersi in esso, di giocare con esso attualizzandolo e riconducendolo alle esigenze di crescita e di maturazione del proprio mondo interno.

Ma, siccome quel testo, quell’insieme di testi altro non è che la sedimentazione nelle varie forme di “scrittura” degli elementi di fondo dell’appartenenza socioculturale propria del contesto di vita del bambino, vediamo ora che quest’opera di introiezione che il bambino fa, sotto la guida dell’adulto autore o lettore insieme a lui del testo, è anche un grande elemento di congiunzione fra il bambino e il suo ambiente sociale e culturale, uno dei cardini intorno ai quali si definisce l’espansione dell’area dell’appartenenza.

Secondo Winnicott la ragione in base alla quale l’individuo sente il bisogno di definire questo vettore culturale della crescita legandolo fin da subito all’appartenenza è nel fatto che altrimenti si sentirebbe solo e cederebbe all’angoscia. La socialità e l’appartenenza culturale appaiono in questo modo come la definizione di un’area intermedia fra il nostro “Sé” e l’esterno che, senza questo collante, ci apparirebbe come intollerabile, foriero di paura e angoscia.

Ed è degno di nota considerare in questo ambito l’importanza che la parola orale e scritta hanno nel fare da ponte fra noi e gli altri: la parola allude alle cose e alle emozioni che sono fuori e dentro di noi; ci permette di “prendere le distanze” da esse, di vederle e di replicarle a livello del nostro mondo rappresentazionale. Ma poiché la nostra parola è anche la parola dei nostri simili ecco che la condivisione dello stesso linguaggio diventa un fattore non solo di comunicazione, ma di appartenenza; diventa un delle trame fondamentali dell’appartenenza.

Parola che va contestualizzata, ovviamente: per cui avremo i lessici familiari, i dialetti, le lingue nazionali e i linguaggi universali dei segni, enfatizzati oggi dai media e da Internet in particolare.

Parola che in base alla globalizzazione e all’interno dei processi migratori in atto viene sottoposta ad un processo di meticciamento i cui risultati sono già presenti in molte forme espressive artistiche e giovanili.

Stiamo andando verso l’obsolescenza dei linguaggi e delle forme di scrittura che appartengono alla nostra tradizione oppure verso una contaminazione feconda fra vecchie e nuove lingue, fra vecchie e nuove forme espressive?

Dipende da noi. Dipende da come osiamo disporci nei confronti delle lingue della nostra appartenenza. Se tenderemo a svilirle e a disporle nel retrobottega della nostra appartenenza sicuramente tenderanno a svanire. Se invece continueremo a tenerle in campo, ad usarle, a metterle in gioco nei territori in cui si definisce il meticciato culturale, probabilmente ne usciranno rafforzate e impreziosite dalla pluralità degli scambi. La lettura dei testi scritti è sicuramente una modalità per rimanere in contatto con la nostra appartenenza culturale e per attualizzarla, come dice Eco; la scrittura di nuovi testi è la testimonianza di ciò che sta avvenendo oggi sul piano del meticciato linguistico e culturale.