Siviglia nella Semana Santa. Città di mediazioni possibili

di Donata Milloni e Giovanni Senzi

(Articolo pubblicato in Mediazione Familiare Sistemica N. 10/11 – Scione Editore Roma – Donata Milloni, Psicologa, Psicoterapeuta relazionale, Istituto di Terapia Familiare di Firenze. Consulente individuale e di coppia presso il Consultorio Matrimoniale Laurenziano di Firenze. Vive ed esercita la libera professione a Firenze e Prato. Per contatti: donata.milloni@alice.itGiovanni Senzi, Psicologo, Psicoterapeuta di formazione rogersiana. Collabora con l’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona – IACP. Attualmente vive ed esercita la libera professione a Firenze. Per contatti: drgiovannisenzi@psychology.it )

 

Perché Siviglia?

Questo lavoro è nato dopo un breve periodo trascorso assieme dagli autori in questa città, nella quale uno dei due vive e lavora. Le riflessioni condivise, le emozioni, i suoni, i colori, le esperienze, i volti della miriade di gente che abbiamo incontrato nella settimana pasquale per le strade della città ci hanno suscitato il desiderio di condividere la nostra esperienza. Ci è sembrata una piacevole coincidenza il titolo del Congresso AIMS “Mediare la città”, perché rappresentava un’occasione per riflettere su questa esperienza e raccontarla.

A nostro avviso la Semana Santa sivigliana è una grande narrazione e come tutte le grandi narrazioni esprime, attraverso i suoi simboli, la materia viva di un popolo, il suo ventre, la parte più autentica e antica, in più ha le caratteristiche di una narrazione intergenerazionale. Tutto questo ci ha stimolato a considerare da un punto di vista psicologico e relazionale questo fenomeno popolare, e così possiamo affermare che la città di Siviglia è il risultato, a più livelli, di un continuo processo di mediazione e negoziazione. Infatti se intendiamo la mediazione ed il compito del mediatore «una sorta di percorso ad ostacoli dove la contraddizione è la regola e la ricerca di soluzioni creative, che siano capaci di mantenere una giusta tensione tra polarità opposte, la meta» (Ruggiero, 2004, p. 63) allora Siviglia, pur senza la necessità di un intervento di mediazione “formalizzato”, sembra essere riuscita in questo intento.

 

La Semana Santa: storia e simbologia

Quello della Settimana Santa è uno degli eventi più importanti di Siviglia che si celebra ormai da secoli. La storia della Settimana Santa di Siviglia è strettamente legata alla storia stessa delle “Hermandades” e delle “Cofradías” ovvero le Fratellanze e Confraternite Religiose della città. L’origine della Settimana Santa sivigliana risale probabilmente al secolo XIV quando una serie di eventi storici e sociali sconvolsero la struttura del sistema feudale dell’Europa. Disastri naturali, epidemie, rivolte popolari contribuirono al diffondersi di una coscienza generalizzata di instabilità espressa in vari modi però con una precisa immagine condivisa: Dio castigava gli uomini per i loro peccati, da qui la necessità sociale ed individuale di riconciliarsi con Lui facendo penitenza e quindi purificandosi. Da qui si creano, o si fanno visibili, numerose organizzazioni il cui obiettivo principale era l’autocastigazione pubblica, di cui le processioni dei flagellanti presenti sia nelle campagne che nelle città europee costituirono la forma più teatrale del fenomeno, contemporaneamente altre associazioni adottarono modalità meno inquietanti occupandosi di carità e del culto religioso. La necessità di accedere maggiormente al popolo condusse queste confraternite ad “uscire alla luce del giorno” attraverso atti pubblici, per questo si organizzano i culti del Cristo, della Madonna e dei vari Santi patroni.

Si radica così una forma di religiosità popolare altamente emotiva. Secondo il regolamento le confraternite potevano essere formate da clericali, nobili, membri di un ordine professionale o da individui appartenenti ad una minoranza etnica, come ad esempio i neri. Molto interessanti, dal punto di vista dell’integrazione etnica e culturale, sono le due antiche confraternite nate vari secoli fa ed ancora esistenti: la “Cofradía de los Negritos”, letteralmente Confraternita dei neretti, e la “Hermandad de los Gitanos”, ovvero la Fratellanza dei gitani. La prima è una delle più antiche della città, venne fondata dal Cardinal Mena nel 1393 nella cappella dell’Ospedale degli Angeli con il fine di accogliere le persone di colore presenti in gran numero in Spagna. Sino alla metà del XIX secolo si ammettevano solo confratelli di colore. La seconda venne fondata nel 1753 da Sebastián Miguel de Varas nel quartiere di Triana. In questo quartiere esisteva un nucleo numeroso di cittadini di etnia gitana, chiamati all’epoca “castigliani nuovi”. In questo secolo i gitani erano oggetto di persecuzioni in tutta l’Europa ed anche in Spagna, dove venivano piegati al servilismo totale e addirittura ai lavori forzati all’interno delle galere reali. Proprio in questo clima storico e sociale un gruppo di gitani decise di fondare in Siviglia una confraternita, non solo come simbolo evidente della loro religiosità, ma anche per favorire la loro integrazione in una società nella quale la cellula primordiale di tipo religioso e sociale, dove si aggregavano e si riconoscevano gli individui, era proprio la Confraternita.

Per l’antropologo spagnolo Moreno Navarro (1985) le ragioni che consentirono la creazione e la sopravvivenza di queste “confraternite etniche” sono varie, ma in particolare si può sostenere quanto segue: la società spagnola di allora era fortemente sacralizzata quindi il suo obiettivo principale era quello di cristianizzare tutti i gruppi sociali che la componevano, assimilandoli dentro ad un ordine prestabilito. Il culto, in particolare quello pubblico, doveva testimoniare la religiosità di un popolo ufficialmente definito come baluardo del cattolicesimo nel mondo, dunque doveva essere promosso e celebrato con il maggior splendore possibile da tutte le categorie sociali, affinché tutti si potessero conformare e far parte di una società unitaria. Così ogni gruppo sociale e etnico doveva raggrupparsi e far parte di una Confraternita  religiosa, che oltre a procurare un beneficio spirituale e materiale ai suoi membri, costituiva di per sé una testimonianza della integrazione del gruppo specifico all’interno della struttura e dei valori della società tutta. Le confraternite composte da minoranze etniche permisero che i suoi componenti si integrassero nella società che al tempo stesso li segregava. L’integrazione e la condivisione di certi valori, secondo Moreno, rese meno pericolosi questi gruppi minoritari rispetto alla conservazione dell’ordine sociale.

Dobbiamo però evidenziare che tutte le Confraternite e le Fratellanze sivigliane sino alla fine degli anni ’70 erano formate solamente da uomini.

Dalla rigida chiusura alla flessibilità

Il concilio di Trento, e la successiva legislazione, uniti con la proibizione di molte cerimonie e rappresentazioni teatrali passionarie al limite dell’idolatria, fomentò uno schema corporativo sottomesso ad una regolamentazione rigida e severa da parte della gerarchia cattolica. Si cercò di assicurare detto controllo mediante disposizioni relative al decoro di immagini sacre e cortei religiosi. Il sinodo del 1604, presieduto  dal Cardinal Niño de Guevara, stabilì le basi del modello da seguire, e per garantire una maggior vigilanza e controllo tutte le confraternite di Siviglia furono obbligate, pena la scomunica, a “transitare” per la Cattedrale, mentre quella di Triana (quartiere aldilà del Guadalquivir) a passare per la chiesa di Santa Ana.  Il potere civile aiutò sempre la Chiesa per far rispettare tali ordinanze. I rituali e le cerimonie della religiosità popolare dovevano essere valutate in base al grado di corrispondenza con ”l’autentica” e ufficiale religione cattolica. Moreno Navarro sostiene che la religiosità popolare venne tollerata e consentita perché costituì la base per influire su vari settori sociali, compresi quelli che altrimenti sarebbero restati fuori dal controllo ecclesiale.

Verso la fine del ‘700 le confraternite costituite dalla nobiltà iniziarono ad addolcire il loro carattere classista e cominciarono ad ammettere esponenti della borghesia. Il risultato fu che le confraternite barocche, caratterizzate per la loro chiusura – ad esempio la Confraternita del Silenzio proibiva l’entrata ai mori ed ai neri – iniziarono a cambiare la loro base sociale e ad adottare un modello aperto. Le confraternite, svincolandosi dalle corporazioni (ad esempio di una professione) e da un gruppo sociale esclusivo, cominciarono il processo che culminerà poi con la unione confraternita-quartiere. A partire dal ‘900, dopo che le confraternite avevano perso gran parte del loro potere e delle loro ricchezze, e dopo aver assistito alla trasformazione della loro base sociale, si dissolsero anche i conflitti con il potere civile ed ecclesiale.

Per Moreno Navarro (1993) esiste una permanente tensione tra lo spontaneismo popolare ed il cattolicesimo ufficiale. Quello che viene festeggiato durante le varie feste religiose andaluse, Semana Santa compresa, non è solamente l’Essere superiore ma anche il Noi: si cerca di riaffermare l’esistenza del Gruppo ravvivando il sentimento di appartenenza dei suoi membri ed il senso di unità sociale. Il Noi si celebra festeggiando la vita e la sensualità della vita, mediante rituali collettivi nei quali partecipano molti agnostici e dai quali prendono le distanze non pochi cattolici praticanti. La religiosità popolare andalusa si poggia sulla dimensione simbolica e antropocentrica della cultura Andalusa stessa: dobbiamo considerare che gli andalusi hanno il più basso livello di pratica religiosa di tutta la Spagna e, allo stesso tempo, hanno il numero maggiore di feste collettive che ruotano intorno a icone religiose.

Per le strade della città

Attualmente le 57 confraternite compiono una processione di penitenza per le strade della città, dalla loro chiesa fino alla Giralda, ovvero la cattedrale di Siviglia, e viceversa, compiendo un percosso il più breve possibile, così come decretato dall’ordinanza del cardinale Niño de Guevara nel secolo XVII. La Semana Santa ha inizio la Domenica delle Palme e termina la Domenica della Resurrezione. Durante questo periodo la maggior parte delle confraternite porta in processione due misteri: uno con il Cristo, che rappresenta le scene della Passione, Morte e Resurrezione, e l’altro con la Vergine. In questi otto giorni le 57 confraternite portano i loro 116 misteri accompagnati da circa 60.000 fratelli che partecipano con funzioni diverse.

Gli spettatori raggiungono il milione durante la notte più importante della Settimana Santa sivigliana: l’Alba, la notte tra il Giovedì ed il Venerdì Santo.

Gli elementi principali di una processione sono:

– la croce guida: è l’insegna che apre il corteo processionale, affiancata da due nazareni che portano con sé delle lucerne;

– i nazareni: sono i membri delle confraternite che formano il corteo portando ceri o insegne, portano una tunica ed il volto coperto da una maschera con cappuccio a punta;

– i chierichetti: precedono sempre il Mistero del Cristo e quello della Vergine, portano insegne, vessilli, incensiere e sei ceri con supporto in argento (ciriales);

– il Mistero del Cristo: si chiama mistero l’insieme formato dalla portantina e dall’immagine che vi si trova sopra. Il mistero può essere formato solo dal Cristo, o da più personaggi che rappresentano una scena della Passione (via crucis) o della Morte. La statua del Cristo è il primo mistero che viene portato in processione.

– i penitenti: sono i membri della confraternita che stanno compiendo un autentico atto di penitenza, portano una, due o tre croci di legno, e molto spesso percorrono scalzi tutto il tragitto, spesso lo fanno per compiere un voto. I Penitenti sono vestiti come i Nazareni però il loro cappuccio pende all’indietro. I penitenti stanno sempre dietro la statua del Cristo;

– il palio: è il Mistero con la Vergine e per i sivigliani questa è la parte più importante di tutta la processione. Possono aspettare ore in un posto strategico per veder passare la “loro” Vergine (molto spesso si tratta dell’uscita o dell’entrata in chiesa, ma si può trattare anche di un punto particolare del percorso). Per i sivigliani ogni Vergine è differente, unica e speciale, sebbene agli occhi di un turista possano sembrare tutte uguali. Questo perché, al contrario del Cristo, che ha diverse rappresentazioni, le immagini della Vergine rappresentano tutte lo stesso momento della storia biblica: la Madre che piange per la morte del figlio. Il manto è l’enorme stola di tessuti nobili, nella maggior parte dei casi straordinariamente ricamato, che parte dalla testa della Vergine. Un drappo sostenuto da 12 pali (varales) copre il Mistero, come se fosse un tetto posto a protezione dell’immagine. Molti di questi drappi sono dei veri gioielli d’oreficeria e ricamo. I varales sono anche questi finemente decorati e lasciati un po’ liberi di ondeggiare, così da permettere che il caratteristico movimento dei portantini si trasmetta a tutta la struttura;

i portantini (costaleros)[1]: i Misteri vengono trasportati dai portantini, una trentina di uomini forti, normalmente della stessa confraternita, che passano quasi inosservati sotto le statue e sono guidati dal caposquadra (capataz) per le vie di Siviglia;

la marcia: le bande musicali che accompagnano i misteri suonano le marce delle confraternite, eseguite con strumenti a percussione e a fiato;

– la folla.

  Donne, Madonne e regine: la mediazione tra sacro e profano

«La religion n’est pas seulement un système d’idées,

elle est avant tout un système de forces»

E. Durkheim

 

Le processioni della Semana Santa sono pienamente integrate nella vita della città e nei ritmi delle persone. La città si organizza con largo anticipo per questa settimana di preghiera, devozione, folklore e spettacolo. Nulla è lasciato al caso o trascurato: la circolazione dei mezzi pubblici prevede tragitti diversi continuando a garantire il servizio; le auto dei cittadini parcheggiate nelle zone di passaggio delle processioni devono essere spostate e il comune lo ricorda con anticipo. Dietro al passaggio di ogni processione segue sempre una macchina per la pulizia della strada che raccoglie i rifiuti che testimoniano la lunga attesa in strada e la voglia di festa dei sivigliani, in questo modo le strade sono immediatamente pulite mentre ancora la gente si disperde, pronte a lasciar passare altre processioni, altre Madonne ed altri penitenti a piedi nudi.

Un altro aspetto che ci ha notevolmente colpito è il rispetto che ogni cittadino dimostra per la Semana Santa, anche coloro che non partecipano per scelta, cultura o religione.

Non solo un rituale religioso: l’esperienza emotiva  del gruppo

Come ricorda lo psicologo sociale spagnolo Eduardo Salvador (2004), i rituali religiosi di questo tipo, che con frequenza implicano fare grandi sacrifici fisici per un Essere divino, hanno aiutato da sempre gli uomini a lenire le loro ansie esistenziali, come ad esempio la paura della morte. Allo stesso tempo i tributi, che essi devono pagare agli dei o al Dio delle differenti religioni, hanno rappresentato sempre una forma efficace di mantenimento dell’ordine sociale, assicurando l’obbedienza degli individui ad un potere. Per l’autore il fenomeno della Semana Santa testimonia che la religione continua ad essere viva e presente nella vita socio-culturale dell’Andalusia.

L’antropologo Ramón Rivas (2006) sostiene che la celebrazione della Semana Santa costituisce un momento in cui i diversi significanti e significati culturali interagiscono, definendo chiaramente il gruppo sociale che vi partecipa. Attraverso la partecipazione alla Semana Santa si esprimono sentimenti individuali e collettivi, si tratta di una forma di espressione culturale, un fatto pluridimensionale e complesso. La polisemia passionale si basa su elementi storici, simbolici, religiosi, teatrali, ludici, esoterici, estetici, emozionali, creativi ed infine sincretici. In una prospettiva socio-culturale la Semana Santa può essere considerata come un “atto totale”, in cui la società è riprodotta a partire da ruoli e modelli prestabiliti, in cui l’elemento identitario rappresenta ogni atto, dove i suoi membri reinventano la struttura sociale in cui sorge e si rappresenta il tutto. In altre parole potremmo dire un atto creativo in senso gestaltico, dove la configurazione finale è qualcosa di più e di diverso dalla somma dei singoli elementi. È proprio questa l’immagine e la sensazione predominante che si riceve nel vivere la città durante la Semana Santa. È l’esperienza di un intreccio, così come lo intende Cigoli, “un’organizzazione di senso”.

Durkheim (1913) considerava la religione come una metafora della società, una realtà eminentemente sociale. Le rappresentazioni religiose sono rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive. I riti sono modi di operare che nascono solamente in seno ai gruppi riuniti e che sono destinati a suscitare, mantenere o rinnovare certi stati mentali dei gruppi stessi. Il rituale quindi ha una funzione di socializzazione ed ha come scopo la ristrutturazione sociale, oltre che una funzione di integrazione, di lotta per il potere sociale, di prestigio politico e sociale.

Per Rivas (2006) gli atti e i rituali che si realizzano durante tutta la Semana Santa acquisiscono un’importanza vitale, un tempo che non è il tempo quotidiano, è un tempo sacro, un tempo fuori dal tempo comune che occupa uno spazio preciso, circoscritto e caratterizzato da certe regole. Il tempo così definito ci rimanda a quell’idea di tempo cara a Stern: il kairos[2] (Stern, 2004). Il tempo dell’esperienza, della relazione, della partecipazione emotiva, dell’intuizione, dell’insight. Il tempo dell’anima che alcune esperienze relazionali possono far emergere, amplificare, esperire, ed è ciò che a noi è accaduto vivendo e lasciandoci vivere dalla Semana Santa.

L’incanto di un mistero condiviso: la trasmissione intergenerazionale dei significati

«Guardala, guardala bene!

È una madre ma prima di tutto è una regina»

Un nonno al nipote

La Semana Santa pone in gioco un complesso sistema di significati, il cui senso spesso sfugge agli spettatori ed agli attori stessi, ovvero ognuno di loro analizza quello che accade partendo dalla propria prospettiva. Per Rivas (2006) è come se l’essere umano necessitasse di un momento all’interno dell’anno nel quale potersi purificare davanti a Dio e agli uomini.

All’interno del processo comunicativo che caratterizza il rito appaiono due elementi chiave: la comunicazione (con il mondo soprannaturale e con l’intorno socio-culturale), e l’influenza sopra il divenire degli avvenimenti che persegue il rituale stesso. Gli attori che partecipano a questo rituale, ed anche gli spettatori, sono conoscitori di tutta una serie di codici comunicativi verbali e non verbali; la rappresentazione alla quale si assiste è carica di una profonda e secolare significazione simbolica, la cui potenza comunicativa scaturisce principalmente dalla comunicazione dei corpi e dei volti. Inoltre, chi partecipa in veste di attore è come se ottenesse anche una certa forma di prestigio, è come se ci fosse un sentimento diffuso di “aver fatto quello che andava fatto”, come accade spesso nella trasmissione di miti familiari, generazionali e/o culturali.

La Semana Santa porta ad una attivazione di diversi “noi collettivi”: la gente si incontra e si rincontra in famiglia e nella comunità cittadina, diviene una opportunità per parlare del passato, del presente e del futuro. La partecipazione alle processioni riafferma in qualche modo l’identità individuale e di gruppo, indipendentemente dalla componente ideologica, religiosa o politica (non è raro che atei portino in processione un Cristo). Quello che impera in questi otto giorni è la tradizione che muove il popolo e come un collante fortifica le identità (individuali e collettive), i legami ed il senso di appartenenza.

I vecchi… e i bambini

«È nel confronto tra generazioni

che l’uomo si ritrova simile a sé stesso»

    V. Cigoli

Gli anziani in molte culture non occidentali ancora oggi sono considerati saggi o molto vicini alla divinità.

Vittorio Cigoli (2000) trattando della condizione dell’anziano cita P. Ricoeur che considerava il racconto come il custode del tempo: «Non c’è tempo pensato se non nella misura in cui è raccontato. Tale capacità di narrare assegna tanto ai singoli individui,quanto alla collettività, considerate come “quasi personaggi”, una specifica identità. Quest’ultima include la trasformazione e la mutabilità nella coerenza di vita. […] Ricoeur pone tra tempo vissuto e tempo cosmico un terzo tempo, quello storico. Tramite il racconto si rifigura l’esperienza storica e la si eleva a coscienza. Il tempo storico funziona da “connettore” tra tempo del mondo e tempo degli uomini» (Cigoli, 2000, pp. 198-199).

Tutte le generazioni sono presenti al passaggio delle Madonne. Gli adulti, i vecchi e i bambini. Tuttavia sono spesso i nonni che tengono in braccio i bambini perché possano guardare bene il volto della Madonna e, nel frattempo, essi narrano la bellezza e la storia di quella statua, fanno notare i dettagli, spiegano i simboli. I vecchi hanno gli occhi lucidi e non li nascondono dietro a lenti scure, mentre i bambini hanno lo sguardo rapito e sognante. Condividono la meraviglia e lo stupore per un miracolo che si ripete, il fascino e l’attrazione magnetica degli occhi del Cristo e della Madonna che trasmettono pensieri e immagini antiche, simboli di una cultura radicata nelle viscere, religione e mistero che ogni volta, anno dopo anno, sorprende e commuove ancora. La generazione “di mezzo” sembra quasi farsi da parte naturalmente per garantire questo passaggio di storia, mito e folklore.

A noi era capitato di rado nel nostro paese di vedere bambini anche molto piccoli così attenti, silenziosi, concentrati, interessati a qualcosa che non fosse uno spettacolo direttamente rivolto a loro. Ci siamo stupiti, osservandoli in prima fila al passaggio della processione, per la loro curiosità ed il loro desiderio di cogliere la magia e l’armonia dello “spettacolo”.

I bambini inoltre partecipano attivamente alle processioni, seguono il ritmo della musica, i più grandi suonano nella banda, i piccoli giocano costruendo palle di cera raccogliendola, goccia dopo goccia, dai ceri dei penitenti. Qualcuno di loro tiene sotto la veste dei santini raffiguranti la Vergine o il Cristo ed è un privilegio riceverne uno, soprattutto se non si è sivigliani. Noi siamo stati fortunati perché un piccolo penitente ci ha fatto dono del volto della Vergine della Macarena, il tutto è avvenuto in silenzio, una comunicazione fatta solo di sguardi e gesti. Il dono è stato per noi un onore ed un riconoscimento, ci siamo sentiti parte di quella comunità, almeno per quella notte, e ci siamo sentiti partecipi di “quell’atto totale”, di quello slancio vitale e creatore che muove le relazioni.

Mediazione del paesaggio: architetture di ieri e di oggi

«Che bello passeggiare, sulla riva del grande fiume, in una notte di luna piena.»

«La luna piena le ricorda forse qualcosa del passato?» gli domandai.

 Si mise a ridere, poi rispose: «Sì, è vero. Mi ricorda qualcosa del passato.

Mi ricorda dei tempi in cui cercavo le proprietà dei miei antenati.»

«I suoi antenati avevano delle proprietà qui a Siviglia?»

Lanciò un grido di protesta: «Proprietà…? Ma se ne erano i signori.

[…] la verità è che un giorno noi siamo stati i signori di Siviglia.»

«Siete stati…? Chi?»

«Io e lei, caro amico, noi, gli arabi.»

A.  Al-‘Ugiayli, Le lampade di Siviglia.

 

Siviglia è incrocio di civiltà araba e cristiana, è varietà di stili e di culture. I palazzi, le vie, le chiese, i giardini, i colori, le finestre, i mosaici, i profumi, tutto lo ricorda.

In verità Siviglia è stata spesso luogo di conflitto, di contrapposizione, di dominazione, luogo di confronto con il nuovo e il diverso. Forse è dalla sua storia che si è sviluppata una buona capacità di negoziazione di luoghi, spazi, conflitti e aspetti culturali.

Una città dove vecchio e nuovo si incontrano, si confrontano, si accettano ma soprattutto convivono in una tensione produttiva. Il “vecchio” del centro storico, dichiarato il più grande centro storico d’Europa, sembra dialogare animatamente ma affettuosamente con il “nuovo” dei quartieri moderni, tra cui lo straordinario ponte dell’Alamillo di Calatrava che solca come la prua di una nave lo scorrere lento e senza onde del Guadalquivir. Passeggiando tra gli aranci si osservano per terra i canali per far defluire l’acqua e così irrigare le numerose piante che adornano ed ombreggiano le vie della città: è un sistema semplice ed efficace, rimasto attivo e funzionante dai tempi della dominazione araba in città.

Il paesaggio architettonico diventa luogo di significati culturali, etnici e sociali. Un paesaggio esterno che  conduce all’incontro e talvolta allo scontro con un paesaggio interiore e autobiografico, risultato di guerre, generazioni, migrazioni e mediazioni.

 


[1] La storia degli Hermanos costaleros è recente in quanto prima del 1977 le squadre dei portantini erano formate da persone salariate. Il nome deriva dal costal, ovvero il sacco per il grano di tela forte e rustica utilizzato dai portantini per proteggersi il collo.

[2] Dal greco καιρός che significa “momento giusto o opportuno” o “tempo di Dio”. Gli antichi greci avevano due parole per il tempo, kronos e kairos. Mentre la prima si riferisce al tempo logico e sequenziale la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un momento in corso in cui accade qualcosa mentre il tempo scorre. Kairos è un momento in cui si presenta una possibilità.