Che cos’è la follia? È la sorella sfortunata della poesia

 Che cos’è la follia? È la sorella sfortunata della poesia (testo di Luciano Rossi) (foto di Eugenio Borgna )

Che cos’è la follia? Lo chiede a se stesso, certo, ma anche e soprattutto ai poeti, Eugenio Borgna, uno dei colleghi che leggo con più diletto. Lo chiede ai poeti perché crede che le emozioni e le passioni trovino nella poesia una testimonianza di cui la psicopatologia non può fare a meno.

Il noto psichiatra tratta questo tema in un CD che ha appunto questo titolo: che cos’è la follia? A questa domanda risponde insieme a Clemens Brentano:  è la sorella sfortunata della poesia.

La prima di copertina è dedicata alla Dickinson: molta follia è divina saggezza, ma è la maggioranza che prevale. Approva e sei savio. Dissenti e sei d’immediato pericolo.

E, della follia, Borgna ne vuole chiedere appunto a Emily Dickinson, ma anche a Georg Trakl, e a Silvia Plath. Vuole sapere da loro di malinconia, d’angoscia, di incrinatura psicotica dell’esistenza. Egli crede che senza la poesia non sia possibile cogliere fino in fondo le indicibili latitudini del pensiero emozionale.

Della Dickinson, non folle, ma aperta agli abissali stati dell’anima, riportiamo:

Talora ho sentito un organo cantare… senza capir parola.

La mia mente sentii fendersi… cercai di ricongiungere i due orli,

ma non riuscivo a farli combaciare.

Il dolore è un topo. Sceglie l’intercapedine del petto per nido timido ed elude la caccia.

 

 

 

Invece in Trakl, tossicomane e suicida, l’angoscia si fa a tratti psicotica, ma senza alterare le strutture del discorso, dandoci così la possibilità di capire, di sapere. Surrogando tanti altri che non san dare parole al loro dolore.

Freddo metallo mi affiora sulla fronte, ragni cercano il mio cuore. C’è una luce e mi si spegne in bocca.

Inebriata dall’oscuro canto dell’oppio, fiore azzurro che lieve suona fra ingiallite pietre.

Sonno e morte, aquile fosche, frusciano a notte intorno a questo capo.

 

 

 

Infine la Plath, schizofrenica che muore a trent’anni di morte volontaria. Qui le strutture di significato si dissolvono. Eppure ancora la potenza delle sue immagini, sia pur slabbrate, riesce ad esserci utile a sentire l’altro mondo della follia. Tre citazioni soltanto, come per gli altri.

 

Il cielo è di stagno; ne sento il gusto in bocca: stagno vero.

… bevendo il verde veleno dei prati ammutoliti.

Le gambe del lettino si scioglievano.

 

Ma mille altre, di Plath, si potrebbero riportare.

Eugenio Borgna non lo fa, ma si potrebbero aggiungere a queste voci quelle dei nostri Alda Merini e Dino Campana.

La Merini, a mio dire maggior poeta italiano contemporaneo, internata per sette anni al manicomio Paolo Pini lungamente racconta la sua vicenda. E dice Maria Corti: dapprincipio lei vive all’interno di una tragica realtà in modo allucinato e sembra vinta; poi la stessa realtà irrompe nell’universo memoriale e da lì è proiettata nell’immaginario e diviene una visione poetica dove è ormai lei a vincere, a dominare.

Illuminante per noi e prezioso è il dolore di chi ci può dare una descrizione limpida di quell’universo che noi, né folli né poeti, solo attraverso loro conosciamo.

Di Alda Merini solo questa poesia. Per ora.

Il dottore agguerrito nella notte

viene con passi felpati alla tua sorte,

e sogghignando guarda i volti tristi

degli ammalati, quindi ti ammannisce

una pesante dose sedativa

per colmare il tuo sonno e dentro il braccio

attacca una flebo che sommuova

il tuo sangue irruente di poeta.

Poi se ne va sicuro, devastato

dalla sua incredibile follia

il dottore di guardia, e tu le sbarre

guardi nel sonno come allucinato

e ti canti le nenie del martirio.

(Alda Merini)

 

E di Dino Campana, infine, lo sbatacchiare della mente prima dell’ultimo schianto crudele.

 

Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza…
Ne l’ultimo schianto crudele…
Le vele le vele le vele