Brevi Scritti

Brevi Scritti (di Anonimo)

È con commozione che inserisco ne La coscienza di Zeno alcuni scritti di un’Amica la cui grandezza e sofferenza è bene per ora che restino nell’anonimato, benché lei stessa mi abbia concesso di pubblicare qui il suo nome. Non è una mia paziente. Ho avuto la fortuna di conoscerla in quanto frequento, come sapete, l’ambiente letterario e l’autrice di questi Brevi Scritti è un critico letterario. Sprezzante dell’angoscia, continua tenacemente a lavorare, per nostra fortuna, dandoci anche pagine come queste. Pagine che curano i “curanti”, che solo dal proprio dolore e da quello dei compagni di viaggio apprendono la parte più preziosa del loro sapere. (Luciano Rossi)

 “La tana del coniglio andava diritta per un certo pezzo come una galleria, poi volgeva improvvisamente verso il basso, così improvvisamente che Alice non ebbe il tempo di pensare di fermarsi prima di accorgersi che stava precipitando giù per un pozzo molto profondo. O il pozzo era molto profondo, o la caduta avvenne molto lentamente, perché ella ebbe tutto il tempo, mentre cadeva, di pensare a se stessa e di chiedersi cosa sarebbe successo in seguito. Per prima cosa, provò a guardare in basso e cercò di immaginare dove sarebbe finita, ma era troppo buio per vedere qualcosa… Giù, giù, giù. Dunque quella caduta non sarebbe mai finita?…………

“Suvvia, che bisogno c’è di piangere a quel modo!” disse Alice a se stessa… perché a questa curiosa bimba piaceva molto far finta di essere due persone…..

Ne mangiò un pezzetto e disse ansiosamente a se stessa: “Mi alzo o mi abbasso? Mi alzo o mi abbasso?”…….

Mamma, mamma! Come sono strane le cose che succedono oggi! E le cose di ieri erano normali come sempre. Mi chiedo se proprio io non sono cambiata durante la notte! Pensiamo un po’: ero io la stessa quando mi sono alzata questa mattina? Mi sembra di ricordare d’essermi sentita un po’ diversa. Ma se non sono la stessa, la domanda che viene dopo è: chi mai sono io? Ah, questo è il grande enigma!……..

…. Non servirà a nulla – pensò – che loro mettano la testa giù e mi chiedano: ‘Torna su, torna su, cara!’. Io guarderò in alto e chiederò: ‘Chi sono allora io? Ditemi prima questo, e poi, se mi piacerà essere quella persona, tornerò su: se non mi piacerà, resterò quaggiù sino a che non sarò qualcun’altra’. Ma, ohimè!, – urlò Alice scoppiando in lacrime – quanto vorrei che uno di loro mettesse giù la testa e mi guardasse! Sono molto stanca di star tutta sola qui!”

da “Alice nel paese delle meraviglie” di L. Carrol 

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Ingeborg Bachmann

La notte della quale ho raccontato è amara come trenta pasticche, è lunga come una caduta dalla finestra, lei così breve, lunga come un sonno… Devo credere che questa follia, che questa prigione durerà in eterno…Quando tutti i miei sogni sedevano in conclave e ognuno votava contro il mio sogno fallito… (Ingeborg Bachmann)

La mia prima notte di prigionia dopo le trenta (o erano dieci, mi fermai vigliaccamente, infatti) pasticche, non fu la più tremenda. Per tutta la vita avevo lottato contro battaglie e contraddizioni che avevo nella mente e nell’anima. Amai fino allo spasimo chi non potevo amare, chi non voleva il mio amore; mi perdetti nell’antro oscuro della maledizione, nella spelonca dei demoni afflitti che divorano i brandelli di carne e li abbandonano a marcire, esposti sulle linee delle strade. Prima di allora avevo tentato di amare chi mi aveva pervaso l’anima per sempre e la mente, per sempre, per sempre di amore eterno e a cui avevo donato il corpo. Strappatomi ancora il mio amore dal vento del nord ancora una volta esposi la mia carne maciullata dallo strappo agli occhi dei dottori che scrutarono e toccarono e suturarono con intrugli di parole e farmaci senza mai guardare i miei occhi lacrimanti invano e il mio grido e la sua eco che giungeva a tutti i popoli, ovunque. Allora cercai di farmi santa e maciullai il mio ventre col cilicio ma a nulla valsero le preghiere perché avevo dentro la mia sete d’amore e di unione. Quando arrivò l’ondata calda dell’amore fui certa della mia vita e del suo significato. Non mi staccai mai, neppure quando lui se ne andò per mancanza di amore e restai ghiacciata con un vetro infilato in ogni mano, seduta nel sottobosco che imbruniva.

Ma la mia notte di prigionia non fu la peggiore delle mie notti: troppe ve ne furono, di insonni, di pianti e di lamenti su pagine studiate, su amori proibiti o impossibili, su tentativi infruttuosi e volontà trafitte. Quella prima notte di prigionia seguiva la notte nella spelonca di barbablù e dei suoi compari di follia. Piangevano i miei cari per la delusione della loro figlia perduta, fuggiva lo sposo di fronte alla putredine del tradimento, mentre la colpa su di me si abbatteva come il colpo d’ascia che non ero riuscita ad evitare. Con la testa quasi mozzata andai, perciò, di buon grado, nella mia prigione e mi rannicchiai nel letto sconosciuto con una signora sorridente al mio fianco e pensai che mai più me ne sarei andata da lì. Non fu niente male quella notte: fra i residui delle care medicine che avevo preso frettolosamente tutte insieme e quelle che mi aggiunsero i dottori, non abbastanza certi che me ne sarei stata calma, il sonno arrivò presto e all’improvviso; dolce profumo di ospedale, luci soffuse e qualche grido lontano, dolce infermiera che mette dentro la testa e sorride: tutto bene? Meglio di così… sto per dormire, per sempre, per favore. Oh, non fu male quella notte, in quel posto di frontiera fra il mio mondo bruciato da me, piromane della vita, distruttrice della realtà, affamata d’amore fino alla morte e l’altro mondo delle vite sospese, vissute all’ombra del nulla, fra ombre portatrici di ricordi che non si potranno mai vivere, fra sogni tormentati dagli psicofarmaci e dagli errori e orrori del passato: il mondo dei senza speranza, di chi non può più sperare l’amore, troppo gravato dal fardello di morte e di dolori e di male. A quel mondo io, quella notte, chiesi asilo politico anelando ad essere un’ombra per non guardare il mio male se non attraverso il vetro opaco dei neurolettici. Troppo gravoso e rischioso stare con un piede nella vita e l’altro nel mio mondo, dove ci si innamora di divinità pagane che non si abbassano a sfiorarti il viso e si lasciano bruciare i semi del giardino, senza potervi fare ritorno. Dopo le notti negli inferi non c’è ritorno; dopo il desiderio di stelle non c’è più terra. Per questo chiesi non svegliatemi per favore, e invece mi svegliai, da sola, nel cuore di quella notte, che del resto non fu tra le peggiori, perché avevo il cuscino bagnato e dovevo pulirmi il naso che non si puliva mai. Addormentata dalla dose massiccia non ricordai dove fossi né in quale letto o casa. Poi mi sovvenne di essere nel luogo di frontiera per rifugiati politici; allora ascoltai dormire la signora e piano andai in bagno e accesi la luce e chiusi la porta; lì restai atterrita vedendo il mio sangue ovunque che usciva dal naso e mi riempiva i miei vestiti della notte e certo aveva riempito il letto e con gli occhi semichiusi tentai di tamponare con salviette e acqua fredda tutto quell’orrore e alzai gli occhi. C’era uno specchio davanti a me e vidi il viso distrutto, il sangue, gli occhi gonfi che non si aprivano oltre una fessura dalla quale uscivano palpebre e occhiaia come palloncini pieni di sangue, i capelli bagnati e sporchi di sangue e di peccati e di notti accasciate sul mio cuscino solitario, quando bave di ragni usciti dal cervello sporcarono i miei capelli; tremante guardai più a fondo aprendo con le dita le fessure degli occhi  e attorno alla bocca scorsi macchie nere come quelle di un pagliaccio triste truccato male e ricordai, lentamente, che per farmi uscire le pillole ormai diventate succhi gastrici nello stomaco avevano infilato un tubo di plastica attraverso il naso fino allo stomaco e avevano messo acqua e carbone nero nel tubo che mi spingevano a forza dentro il naso, la gola e lo stomaco mentre io urlavo e mi dimenavo. Fu lì che si ruppe qualcosa nel naso, che ora sanguinava, fu da allora che non lavai più la bocca o non la guardai e non vidi il carbone (che si dà ai bambini cattivi) che segnava il contorno delle mie labbra. Tenni stretta contro il mio naso la salvietta bagnata perché mi stavo addormentando in bagno e mi raggomitolai nel letto caldo e dolce della mia nuova terra e dimora, e chiusi gli occhi, e smisi di pensare al sangue e al carbone, ai demoni e all’amore ucciso e alla realtà volata lontano e mi addormentai e sperai di non svegliarmi mai più. Fu la prima delle mie tante notti di prigionia. E, come ho detto, non fu la peggiore.

Ho visto la parete e ho gridato nel mio bianco bianco letto al quale nessuno è venuto, ho giaciuto in un bianco bianco letto e gridato perché tutti gli animali dell’Ade mi avevano preso di mira, i rospi, i vermi, i sauri e sbattevano intorno ali e pinne… Sto lì stesa, squassata da scosse elettriche,/ tremando per tutta la tela/ nella mia tenda di solitudine,/ afflitta da ogni punta d’ago… (Ingeborg Bachmann)

Le altre mie notti di prigionia furono più dure: terminata la consolazione dell’esilio divenni stanziale nelle dimore blindate della follia. Mi trasportarono qui e là finché sentii odore di mare e avrei voluto fermarmi alla spiaggia ma mi aspettavano nella stazione di posta dove i folli arrancano con strascicati passi lenti attendendo i miracoli della redenzione. Fui domiciliata fra i due mondi e divenni abitante ufficiale dell’albergo di frontiera. Ma lì non c’erano bagni caldi e letti comodi e si sentiva urlare giorno e notte. C’era sempre luce, una luce falsa e artificiale come tutto, lì dentro, come la carne da tagliare con coltelli di cartone e le ostie sconsacrate con le quali ingoiare le pillole. Come gli aguzzini camuffati da infermieri e i superbi fantocci gonfiati mascherati da medici. Non c’era nulla di vero, lì, tranne le grida delle donne sofferenti e legate, i passi impercettibili delle anoressiche, lo strazio glaciale delle psicotiche, il lamento monotono delle depresse. Giacevo nel mio scomodo letto tutto biancore e vuoto d’appartenenza, quando sentivo le vittime dei TSO gettarsi contro la vetrata, sbattere i pugni e gridare, poi venire catturate, nutrite di medicine e flebo poi fatte sistemare nel materasso in terra dove dormivano il loro sonno imposto, vestite e sconvolte, fino a mattina. Giacevo nel mio letto bianco bianco senza che nessuno mi venisse a trovare, ma questo è l’esilio, e si sa com’è fatto, mentre  sognavo che un amore mi venisse a trovare e mi portasse via da lì. Ma nessuno veniva e nessuno vorrebbe staccare dal bianco bianco letto una donna che lì è stata predestinata; nessuno vorrebbe mettere nel suo letto chi ha vissuto nel letto bianco del regno del dolore. Nessuno verrebbe in quel deserto luogo. E nessuno venne. Ci fu solo un letto più bianco ancora, una mattina, la prima di tante altre, a digiuno. Mi portarono in una stanza vuota con un letto bianco e mi fecero coricare con la testa dalla parte opposta a quella col cuscino, come una carta dei tarocchi, come la bambola di un maleficio, e non seppi perché, ma lì non si sapeva mai niente ed era normale. Attesi lungamente senza respiro sola nella stanza bianca nel letto bianco, finchè sentii la fronte piena di lacrime senza un suono; poi arrivarono i carnefici vestiti di bianco con le maschere verdi come gli alieni e sentii lo sferragliare di un carrello e vidi i cavi e gli elettrodi con la coda dell’occhio la testa girata e il pianto più veloce, come il cuore. Poche parole di terrore mi consentirono mentre appiccicavano alla mia povera testa in malora quadrati di gomma attaccati a dei fili. Io guardavo togliere la carta come facevo da bambina con gli adesivi colorati e con le figurine, solo che il foglio bianco erano le mie tempie e la fronte, e i quadrati neri si attaccavano alla mia pelle e sentivo il peso dei fili pendere dalla pelle della mia testa e li vedevo allungarsi fino a giungere poi alla macchina con il carrello. Lì stava l’elettricità, da lì sarebbe arrivata la scossa. Ma io già ero scossa dal terrore e dall’affannoso respiro che mi impediva di piangere e urlare, solo avevo gli occhi sbarrati riflessi nel bianco bianco della stanza e la testa era appoggiata all’ultima parte del letto e capii che era perché gli elettrodi nella mia testa raggiungessero il carrello elettrico. Poi sentivo un forte odore ed era l’anestesia che mi faceva cadere nel vuoto. Al risveglio non sapevo mai dov’ero e urlavo disperata con la testa dolente e senza memoria finché arrivavano tutti e guardavano quella disperazione che usciva e nemmeno io sapevo da dove quel delirio arrivava, da quale luogo della mia mente malata arrivava tutto quell’orrore che riversavo con la mia voce tra le pareti della stanza bianca. Lo ascoltavano anche i dottori, vestiti di bianco ma senza la maschera aliena, qualcuno rideva, io gemevo per la pene di sempre e per l’esplosione della mia testa e i pensieri sconnessi e il dolore alle tempie e alla mandibola: aprivo la bocca per urlare e la mia punizione era quel dolore insopportabile alla bocca, alla mascella e alle tempie. Non potevo masticare il pasto repellente che non sapevo più se era colazione o pranzo o cena. Ogni boccone era una trafittura ai muscoli della mascella e alle tempie ancora incollate. Ricominciavo a gridare perché tutti i mostri dell’Ade si erano dati convegno in quella stanza bianca bianca e assediavano il mio letto bianco (che a quel punto ero certa nessuno avrebbe mai avvicinato se non con degli elettrodi o degli aghi) e io urlavo per difendermi dagli animali orrendi, sauri, serpenti e vermi e rospi salivano salivano sulle coperte bianche e io gridavo di terrore. Una giovane dottoressa decise che la mia pena era troppo grande e mi infilò un ago con un rubinetto nella vena di un braccio, poi attaccò il tubo e poi il liquido al tubo e il liquido entrò in me e smisi di urlare e sentii sonno e silenzio. Per un bel po’ di tempo vissi con quell’ago piantato nella vena che mi forava di notte a ricordarmi i miei peccati. Quando arrivavano draghi e serpenti giravano il rubinetto e attaccavano il tubo e aprivano il flacone di liquido bianco bianco che entrava nelle mie vene rosse di dolore rabbia e passione. Diventavano bianchi i miei occhi e il mio sangue e dormivo.

Da ogni parapetto guardo nell’abisso.

E’ una fatica non sperare, non temere nulla.

La notte dei perduti.

La fine dell’amore.

Una luna, un cielo,

un mare oscuro.

Oscuro tutto,

soltanto perché è notte.

Che cosa mi rimproveri ancora.

E’ una tale amarezza,

non farlo.

Non ho saputo far di meglio che amarti,

non ho pensato che attraverso il sudore della pelle.

Fino al tuo ritorno.

Ma dicono che non tornerai.

Verrà soltanto un’altra notte.

(Ingeborg Bachmann)

Mi ricordo il silenzio, come il fiume dei morti lo ricordo, livido e sporco; da lì mi strappasti cantando le tue melodie. Non ero più sul bordo della palude camminando tra i fantasmi ad aspettare che riflessi indistinti gettassero il loro lume opaco. Mi entrasti nell’anima prima dalla mente poi dal corpo, apristi il mio sentiero invaso dai rovi di millenni con parole di magia, formule alchemiche che incantarono il mio spirito piagato; la nicchia per te era già pronta nel mio pensiero da secoli di attesa. Le mie e le tue parole erano squarci di universo abbagliante di respiri uniti, sigilli impressi nella mente e nel corpo.

Ora è strappato quel brandello di mondo che con impazienza e ardore avevo cucito.

Sono caduta un giorno sulla nostra linea di battaglia di cui non sapevo nulla: io ero per terra, tu in piedi, ricomposto. Io, scomposta, vacillante seduta ad ascoltare la tua non felicità e il tuo non amore mentre correvo con te lungo quello che credevo il nostro lieve brandello di gioia. Invece restavo con dentro l’eco del tuo corpo e della tua musica a guardare il sole scomparso nel grigio della finestra e i tuoi occhi neri come il vuoto e quel tuo strano dolente sorriso che avevo invano cercato di rendere felice, con parole estatiche e pensieri condivisi.

Con un grandissimo impeto folgorante ti togli dal mio mondo. Precipitare non è così rapido come si crede: si attraversano nembi grigi e rombi di tuono e lampi che squarciano il cielo, il pensiero, i sensi ancora pulsanti. L’aria si fa allucinata, più oscura e greve sulle foglie cadute, d’improvviso brillanti di vento che infiamma i colori dorati e vermigli già morti sulla terra. Solitari e gementi i rami urlano il distacco delle foglie, stille di sangue escono dalle ferite dolenti e incurabili. Tutto questo succede, mio lungo amore, scomparso nella palude del predestinato autunno. La mia finestra è coperta di foschia e tetro è il mio cammino solitario fra le grida dei corvi. La mia irrealtà si impossessa dei lenti e fangosi spazi che restano tra le nostre unite parole e il cielo, la sera, è sommerso dalla nebbia e dal silenzio.

La stessa intensa passione che mi travolse quando entrasti ora mi suscita un grido di preda sbranata, scava solchi di vuoto nella mente, abissi di silenzi e una paura ghiacciata.

Nei miei occhi restano le immagini dei raggi di sole contro le foglie. Anche se ora è inverno. Ma la solitudine rende gli sguardi vividi e l’udito attento alle canzoni. Ancora tra la nebbia posso scorgere i lembi brillanti del sole quando da sola esco di casa e mio complice è solo il vento. L’eco della tua voce e del tuo sguardo risuona ancora in questo intricato bosco silenzioso; e l’ombra delle tue mani talvolta percepisco nel muoversi fremente dei rami. Hai lasciato in me il tormento e l’anelito a creare mondi e fissare, lontano, stelle brillanti di parole.

Ora, mentre attraverso i cammini solitari dell’autunno, certa che nessuno verrà più a rinverdire il mio corpo rattrappito e la mia anima troppo piena di pensieri, ricordo come le nostre parole stessero già superando gli abissi dei miei secoli di solitudine, quando entrai con te nell’orbita lucente delle stelle. Lo ricordo ora che esule attraverso il mondo delle ombre, mentre nessuno conosce il lungo labirinto dei miei giorni. Allora seppi che le parole sarebbero state come i raggi trepidanti e incauti, sospesi e stillanti pioggia che d’autunno, di soppiatto, regalano un attimo di salvezza dal buio. Imbrogliando la stagione tenebrosa, si stagliano d’improvviso con sorrisi di prigionieri fuggiti al nulla e si aggrappano alle sbarre tendendo le lunghe braccia lucenti. Io abito nella palude piovosa insieme ai corvi neri e di tanto in tanto una luce mi brilla al fianco, allontanandomi dalla lacerante catena dei giorni e dal monotono richiamo dell’abisso, così lontano dal cielo che ebbi in sorte di sfiorare.

Resta il sangue, lunga linea come solco di un coltello e grumi ininterrotti che lecco con la bocca, con le mie povere labbra riarse.

La tua casa era su una stella e io ne fui ospite per alcuni pomeriggi di luminosità impetuosa. Poi caddi. So dove sei e non penso di potermi sollevare fino a te (se tu non mi aiuti) dal silenzio della mia palude. Così fu e ora non ti ho più trovato. Sei felice? Non lo sono dicesti e io compresi che solo un tratto di noi, una striscia sottile della mente e del corpo aderiva all’altro, che non sarebbe mai stato l’assoluto per noi, malgrado parole e gesti di vita che credevo infiniti. Oltre quelli c’erano un lacerante anelito o il deserto. Così sostando tra il tuo mondo e il nulla ti guardavo e guardavo il freddo arrivare come uno spettro di ghiaccio nella notte. Sapevo che lo stesso alito gelato aveva soffiato da secoli sulle nostre stelle non nate e mi aveva tolto per sempre la possibile, intravista completezza dell’amore, il dialogo eterno che da sempre aspettavo. Ma cosa accadde alle stelle? Intesserono la tua mente da mago e la mia, di apprendista impacciata piena di desideri e scarsa di intelletto, così che dovetti penare per il diploma e poi per riuscire a star ferma sotto i pini dopo aver attraversato gli anni dell’illusione poi quelli spaventosi della mia pazzia. Tu ti aggiravi ricolmo di idee col tuo ingegno di artista e di mago dei pensieri, cantando il dolore d’amore e il segreto della tua anima. Io mi fermavo scossa dalle vite diverse che avevo vissuto, con dentro il bisogno ardente dell’altra parte di me che non conoscevo. Ti conobbi che era estate, e cercai solo le parole condivise, le fronti attaccate e gli occhi perduti nell’insondabile sguardo dell’altro. E pensai quant’era grande la tua mente che tanti mondi sapeva contenere ed inventare, mentre io avrei voluto trattenerti e creare un mondo solo in cui tu potessi passare. Piansi e tremai di freddo dolore ma sorrisi nel ricordo delle nostre poche parole come piccoli sassi lucenti trovati nel bosco e per la magia dei pochi istanti toccati prima di questo grande silenzio.

Lascio a te queste impronte sulla terra

tenere dolci, che si possa dire:

qui è passata una gemma o una tempesta,

una donna che avida di dire

disse cose notturne e delicate,

una donna che non fu mai amata.

Qui passò forse una furiosa bestia

avida sete che dette tempesta

alla terra, a ogni clima, al firmamento,

ma qui passò soltanto il mio tormento.

(Alda Merini)

 

I giunchi dell’estate sono incisi nel ghiaccio

Come la tua immagine nel mio occhio; arido gelo

Invetria la finestra della mia ferita; quale conforto

Può scaturire dalla roccia percossa e rinverdire

Il deserto del cuore? Chi mai verrebbe in questo tetro luogo?

(S. Plath)

 

Corvo nero in tempo piovoso

Appollaiato in alto sul rigido stecco

un corvo nero bagnato

si aggiusta e riaggiusta le piume nella pioggia.

Non mi aspetto un miracolo

o un evento

che dia fuoco alla vista

nel mio occhio, e nemmeno più cerco

nella stagione mutevole un disegno,

ma lascio che le foglie maculate cadano come capita,

senza cerimonia, o presagio.

Benché, lo ammetto, io desideri

ogni tanto qualche risposta

dal cielo muto, in verità non posso lamentarmi:

una luce modesta può sempre

balzare incandescente

dal tavolo della cucina o da una sedia

come se un ardore celestiale

si impadronisse a tratti degli oggetti più ottusi –

consacrando così un intervallo

altrimenti irrilevante

con l’elargizione di doni, di onore,

di amore, si potrebbe dire. Sia come sia, ora cammino

guardinga (perché c’è caso che avvenga

perfino in questo grigio panorama in rovina); scettica

eppure accorta; ignara

di qualsivoglia angelo scegliesse di avvampare

d’un tratto al mio fianco. So soltanto che un corvo

che si rassetta le piume

può brillare a tal punto

da afferrare i miei sensi, issare a forza

le palpebre, e accordare

una breve tregua alla paura

della neutralità assoluta. Con un po’ di fortuna,

arrancando testarda in questa stagione

faticosa, metterò

insieme una contentezza,

più o meno. I miracoli avvengono,

se vogliamo chiamare miracoli quegli spasmodici

scherzi di radianza. Ricomincia l’attesa,

la lunga attesa dell’angelo,

di quella rara, aleatoria discesa.

(Silvia Plath)

 

Per un istante d’estasi

Noi paghiamo in angoscia

Una misura esatta e trepidante

Proporzionata all’estasi.

Per un’ora diletta

Compensi amari di anni,

centesimi strappati con dolore,

scrigni pieni di lacrime.

(Emily Dickinson)