Strumenti e insufficienze del metodo supportivo-espressivo

Strumenti e insufficienze del metodo supportivo-espressivo.  Sul concetto di elaborazione autogena nei disturbi di Asse II. Osservazione ed elaborazione secondaria

di Luciano Rossi

1 – Il processo psicoanalitico

Il nostro interesse, in questa ricerca, è rivolto alla completezza ed efficacia della fase finale del processo psicoterapeutico, e alla capacità autogena del soggetto di costituire un ponte sufficientemente sicuro per il passaggio al dopo-terapia nel caso di disturbi di personalità. In particolare si pone l’attenzione sulla necessità di una tecnica, ancora non disponibile, capace di interrompere la ripetizione del cliché di transfert. Si rimanda a studi successivi la risposta al quesito se la sua applicazione possa essere estesa anche a casi di Asse I. Per ora è già sufficientemente gravosa la sua definizione relativa all’Asse II.

Per far capire la necessità e l’urgenza di tale compito prendiamo dapprima brevemente in considerazione il processo psicoanalitico nelle sue varie fasi, con i suoi protagonisti e i suoi strumenti, e vediamo di considerare i suoi fini e l’efficacia dei suoi mezzi. I momenti fondamentali del processo (ovviamente tutti sappiamo che ce ne sono di più) possono essere così descritti:

1)   La coscienza del soggetto racconta (associa?) liberamente di sé; parla del passato, del presente, della relazione analitica.

2)   Il terapeuta offre le sue interpretazioni, comunica al soggetto ciò che accade nel suo inconscio, gli mostra qualcosa che gli appartiene, ma che gli è ancora nascosto: in particolare gli mostra il modello ripetitivo di transfert. Diciamo “in particolare” perché non tutte le interpretazioni offerte sono potenzialmente mutative in egual grado. Solo quella di transfert possiede le potenzialità per diventarla veramente. Dire che un’interpretazione transferale è, in potenza, mutativa, vuol dire che è incapace, per il momento, di produrre da sola un cambiamento fattuale. Per questo occorre ancora un lungo processo. Il transfert è, oltretutto, il comportamento meno suscettibile di cambiamento. Esso, infatti, è il rivivere le esperienze passate, ripetendole oggi con altri Oggetti, cui attribuiamo le stesse risposte degli Oggetti passati.

3)   La semplice comunicazione al soggetto del suo meccanismo di transfert non è dunque ancora sufficiente. La coscienza del soggetto riceve questa conoscenza, ma può “capirla” oppure no. Capire significa attribuire nuovo significato ai propri vecchi (ma ancora persistenti) comportamenti, vuol dire distruggere idee precedenti. Sappiamo che non avverrà facilmente.

4)   Quando finalmente capisce l’interpretazione, il soggetto ha un insight intellettuale e/o emotivo. Ma ci sono purtroppo molte interpretazioni non seguite da insight (e anche, per fortuna, qualche insight senza interpretazione, dovuti, come sappiamo, al solo sostegno).

5)   Questo non è ancora sufficiente per cambiare. Avere un insight non è ancora accettare questa nuova conoscenza e cambiare comportamento. Ci sono insight senza trasformazioni e anche, per fortuna, trasformazioni senza insight; saranno proprio queste ultime a darci un’idea importante per migliorare la rielaborazione e la stabilizzazione.

6)   Fra conoscere e accettare corre il lungo tempo dell’elaborazione (il lento lavoro sulla resistenza dell’Io)

7)   Quando il soggetto finalmente accetta, viene a contatto diretto con la pulsione e il desiderio (W di Luborsky) e con il suo ostacolo (RO di Luborsky), ossia la risposta del mondo. (Sappiamo che il transfert freudiano, e la sua fondamentale interpretazione, dopo gli studi di Luborsky vengono ormai di solito rappresentati con il modello CCRT, i cui elementi sono: il desiderio del soggetto W, la risposta dell’oggetto RO, la successiva risposta del soggetto RS)

8)   Questo non è ancora sufficiente per cambiare. La “mente” ha pensieri nuovi mentre il “corpo” ha ancora comportamenti vecchi. Continua a ripetere il vecchio modello. La conoscenza, anche se emotiva, non riesce a bloccare la ripetizione. La mente conosce W, RO, RS ma non riesce a bloccare RS, la risposta del corpo, la cosiddetta reazione automatica. Siamo marionette intelligenti, ma ancora rette dai fili del condizionamento.

9)   Occorre assolutamente trovare e imparare un modo per prevenire la risposta RS, per bloccare la ripetizione.

10)      Solo allora s’incarna davvero la conoscenza, si trasforma il comportamento.

11)      Qual è questo modo? Come prevenire la risposta? Come impedire che il corpo, quando sente l’offesa di RO, inneschi la sua reazione abituale?

12)      Dice Greenson (1967, p. 342): “Anche con la miglior tecnica possibile è pur sempre necessario moltissimo tempo per superare la spaventosa tirannia del passato e dalla coazione a ripetere”. Questo è quello che offre la psicoanalisi alla soluzione del problema: un lungo tempo per elaborare la nuova conoscenza davanti all’analista che ti costringe ogni giorno al modo nuovo di riflettere e agire. Si può abbreviare questo tempo? Si può trovare un modo più efficace?

13)     Solo da poco tempo una limitata frangia di terapeuti sta mettendo a punto una nuova modalità di prevenzione della risposta automatica. Essi tentano di prevenire la risposta con una nuova forte abitudine a fare un’altra cosa nel momento preciso in cui sorge l’impulso alla reazione. Questa “altra cosa” è guardare l’impulso anziché agirlo; dobbiamo, in altri termini, acquisire un forte allenamento a guardare gli impulsi senza fare nient’altro.

14)      Quest’allenamento autogeno, che può durare per anni, va preparato per tempo, a volte sin dall’inizio della terapia, a volte no, per far sì che, quando verrà accettata l’interpretazione di transfert, il soggetto sia capace di osservare i suoi elementi senza agirli.

2 – Il concetto di elaborazione terapeutica e di elaborazione autogena.

Soffermiamoci ora sul concetto di elaborazione terapeutica eterogena (parte del processo che riguarda i punti 6 e 7) e di elaborazione autogena (parte del processo che riguarda i punti 8-13).

Per Laplanche e Pontalis “l’elaborazione è il processo con cui il soggetto assimila un’interpretazione superando le resistenze da essa suscitate”. Si tratta di un lavoro psichico che consente al soggetto di accettare alcuni elementi rimossi sottraendosi all’influenza dei meccanismi ripetitivi. Ci proponiamo di segnalare l’insufficienza parziale di questo lavoro che porta, se classicamente inteso (punti 6 e 7), solo al superamento delle resistenze dell’Io e non anche alle resistenze dell’Es.

È chiaro che, come dicono Laplanche e Pontalis,

a) l’elaborazione terapeutica riguarda le resistenze; b) essa è in generale susseguente all’interpretazione di una resistenza che sembra rimanere senza effetto; in questo senso, un periodo di relativo ristagno può nascondere questo lavoro eminentemente positivo, in cui Freud vede il principale fattore di efficacia terapeutica; c) essa consente di passare dal rifiuto o dall’accettazione puramente intellettuale a una convinzione fondata sull’esperienza vissuta delle pulsioni rimosse che “alimentano” la resistenza. In questo senso, il soggetto compie l’elaborazione terapeutica solo con “l’immergersi nella resistenza”.

 … l’elaborazione terapeutica è una ripetizione, ma modificata dall’interpretazione e quindi capace di favorire lo sganciamento del soggetto dai suoi meccanismi ripetitivi.

Come il transfert era ripetizione del vecchio, la rielaborazione è ripetizione del nuovo. Ma dobbiamo predisporre due fasi distinte di ripetizione del nuovo o di lotta contro la resistenza, perché, come abbiamo detto, ci sono due classi principali di resistenza, e mentre per lottare contro le resistenze dell’Io possono bastare le tecniche note, per la resistenza dell’Es occorrono nuovi strumenti. Questi nuovi strumenti devono avere efficacia contro la coazione (dell’Es) a ripetere. Occorre trovare vie nuove per completare la lotta alla ripetizione. Freud stesso era insoddisfatto della sua classificazione delle resistenze e della sua definizione della coazione a ripetere. Era certo però che questo lavoro doveva essere fatto dall’analizzato. Su ciò siamo fondamentalmente d’accordo. Per molto tempo l’analizzato deve farlo davanti al terapeuta e anche da solo nella vita ordinaria. Successivamente, dopo la fine dell’analisi, dovrà farlo completamente da solo.

3 – Rielaborazione autogena

Il fine principale della terapia è l’annullamento della ripetizione delle vecchie modalità. Sostegno, interpretazione, chiarificazione, elaborazione, sono solo dei mezzi; necessari ma non sufficienti ad ottenere tale trasformazione. Fanno solo passare dalle parole vecchie alle parole nuove. Ma anche quando le parole sono nuove, i fatti troppo spesso restano vecchi. Per passare dai fatti vecchi (reazione) ai fatti nuovi (osservazione) occorre aggiungere ai metodi tradizionali una tecnica fattuale, un’azione. Un’azione che ne sostituisca un’altra. Un osservare consapevole che sostituisca un cieco reagire.

L’insight e la trasformazione invece sono eventi, non tecniche; il primo è un evento intermedio, il secondo quasi conclusivo. Dopo di lui occorre solo ottenere una stabilizzazione. E se la psicoanalisi spesso si accontenta dell’insight, la psicoterapia no; non può farlo, deve volere il cambiamento.

Ma come ottenerlo? Vediamo un po’.

L’interpretazione transferale aveva cercato di mettere in contatto il soggetto con aspetti relazionali che il soggetto non riusciva a vedere. Gli era stato detto pressappoco così:

“Lei reagisce così (RS) perché io non ho gratificato (RO) il suo desiderio (W). Le faccio anche notare che lei si comporta sempre in questo modo; ripete questo schema sin dall’infanzia, quando reagiva così ai suoi genitori. Quindi il suo desiderio (W) di oggi è ancora quello infantile.”

Quest’interpretazione vorrà ripetuta molte volte finché verrà vista con chiarezza e infine anche accettata. Ma questo non muterà ancora il suo comportamento.

Verrà poi il giorno di una confrontazione importante, quella della viscosità del transfert (per altro già nota dalla prima interpretazione) e dell’insufficienza dell’interpretazione. Gli si potrà dire:

“Lei ha ottenuto un insight molto forte e centrale, ma ciò, come vede, non le ha impedito di ripetere ancora le sue solite reazioni RS, perché queste, come può constatare, partono da sole. Occorre usare nuovi strumenti, entrare in nuova fase, una fase più attiva ed esperienziale, che potrà iniziare apprendendo l’osservazione d’insight“.

Queste ultime fasi del processo (passaggio da reazione ad osservazione e stabilizzazione) non sono nuove sul piano intuitivo, solo che, fino all’ultimo decennio, non erano state ancora ottenute con tecniche osservative.

Vediamo come R. H. Etchegoyen (I fondamenti della tecnica psicoanalitica, 1986) prende atto della loro necessità:

” … quando io mi rendo conto della mia pulsione, del mio desiderio [il W di Luborsky]  … rivivo l’emozione e allo stesso tempo mi faccio carico dei sentimenti che questa presa di coscienza inevitabilmente risveglia, sentimenti che … sorgono dall’insight come promotore di uno stato di coscienza … [ma questo movimento] è soltanto la prima parte di un ciclo. L’elaborazione ha una seconda fase … [nella prima fase] attraverso il lento lavoro sulle resistenze cerchiamo di far corrispondere alle parole [interpretazione intellettuale] i fatti [l’esperienza emotiva]. A partire da questo momento … prendiamo la strada contraria: cerchiamo di dare significato ai nostri affetti verbalizzando le nostre emozioni. È un aspetto dell’elaborazione in cui i fatti [emotivi] sono trasformati in parole, in cui io penso le mie emozioni … le migliori emozioni sono i grandi pensieri … il momento dell’insight ostensivo è indubbiamente fondamentale; ma, affinché perduri, dev’essere tradotto meticolosamente in parole. Oserei dire che se questo processo non avviene, l’insight ostensivo, per quanto emotivo e autentico sia, è come un processo abreattivo che non porta all’integrazione … l’insight ha a che fare con l’esperienza, è processo primario. A partire di lì tale esperienza comincia a rivestirsi di parole … l’esperienza da sola non basta, è necessario integrarla all’Io e al processo secondario”.

Greenson (1965, pag. 342) dice che “ci sono resistenze che impediscono l’insight e resistenze che impediscono all’insight di promuovere cambiamenti. Il lavoro sul primo tipo di resistenze è il lavoro analitico propriamente detto”. E il secondo? Come vinceremo la seconda resistenza? Etchegoyen ci suggerisce di invertire la rotta e di passare dai fatti ripetitivi RS (ad esempio la rabbia) nuovamente alle parole e ai pensieri. Ossia: verbalizziamo i vecchi fatti (impulso a reagire, RS), trasformiamo i vecchi fatti RS in “parole consapevoli”. Anziché reagire pensiamo, riflettiamo, osserviamo, annotiamo, verbalizziamo, anche mentalmente, le nostre emozioni, i desideri, gli impulsi ad agire che l’interpretazione ci ha fatto conoscere e l’elaborazione di prima fase ci ha fatto accettare.

D’accordo. Ma ne siamo capaci?

4 – Anapanasati e rielaborazione

È qui che di solito la psicoanalisi termina il suo compito; una terapia invece non può fermarsi qui. Deve continuare implementando al suo interno l’apprendimento di tecniche che consentano il cambiamento stabile del comportamento. Noi, in queste pagine, ne proponiamo una osservativa, che perfeziona e approfondisce quelle riflessive e verbalizzanti che la psicoanalisi contemporanea conosce. La differenza fra la nostra e quelle verbalizzanti ci appare la seguente: quella da noi proposta è spinta sino al minimo dettaglio, non è lasciata nel vago com’è costume, forse necessario, della psicoanalisi. Per diventare capaci di quest’osservazione occorre allenarsi ad osservare consapevolmente cose dapprima più semplici e poi via via più complesse. Si può cominciare dal respiro, per passare al corpo, alle sensazioni, ai pensieri. Così potremo saper osservare gli impulsi ad agire, le intenzioni, le spinte interne.

È questa una tecnica che prende spunto da Anapanasati, una meditazione di consapevolezza fatta di sedici passi divisi in quattro tetradi. Di queste noi applicheremo, quasi senza modificarle, solo le prime tre. La quarta tetrade sarà invece sostituita dall’osservazione degli elementi, resi noti dall’interpretazione, dello schema di transfert: W, RO, conflitto W/RO, RS. A guidarci nella nostra meditazione c’è già una serie di conoscenze:

a)   Sappiamo che abbiamo desideri, bisogni, intenzioni (W)

b)   Sappiamo che non tolleriamo che essi (W) siano frustrati

c)   Sappiamo che, quando questo accade, sorgerà RS, come sempre

d)   Decidiamo però che, d’ora in poi, noi osserveremo l’impulso a mettere in atto RS, anziché agirlo. Già abbiamo imparato ad osservare con molti mesi di pratica Anapanasati; ci siamo allenati col respiro e il corpo (prima tetrade), le sensazioni (seconda tetrade), i pensieri (terza tetrade), (in lingua pali Kaja, vedana e citta).

e)   Per osservare un proprio contenuto, l’osservatore si scinde in due; fa un passo indietro in quanto osservatore e lascia davanti a sé solo l’oggetto da osservare: noi proponiamo un allenamento a farlo, prima osservando il respiro, poi le sensazioni, poi i pensieri e infine la voglia di reagire (quarta tetrade).

f)    Noi vediamo, lì di fronte a noi, la voglia di reagire scorrere davanti ai nostri occhi e annotiamo, “verbalizziamo”, il nostro impulso a farlo; come, meditando, abbiamo annotato il nostro desiderio di grattare la puntura di una zanzara anziché farlo.

g)   Il vecchio RS è insidioso perché automatico. Occorre quindi coglierlo nella fase incipiente. Occorre dunque essere sempre presenti, possedere una consapevolezza e una presenza allenate.

Perché il completamento dell’elaborazione necessita di tale faticoso “lavoro“? Lavoro comunque necessario che noi stiamo tentando, in via di sperimentazione, di condurre con l’uso della pratica Anapanasati, e che altri in futuro realizzeranno con altre tecniche, speriamo sempre migliori. Forse ci può spiegare tale necessità il secondo punto di vista freudiano, successivo al 1925. Il lavoro è lungo e la resistenza è forte perché l’elaborazione si situa al di là del principio del piacere ed equivale ad un lutto. Come per la perdita di una persona cara occorre il “lavoro del lutto”, così anche nel caso dell’abbandono della ripetizione comportamentale occorre rinunciare a qualcosa, e accettare una perdita che l’Es non vuole accettare. Si tratta allora di vincere le resistenze dell’Es, ossia del “corpo”. La coazione a ripetere, nella seconda visuale freudiana, è dovuta all’Es, è intrinseca alla biologia. Si tratta di abbandonare un vecchio inveterato RS; ed è come se si dovesse decretare la morte di un’abitudine biologica. Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte a una resistenza caotica; e, come c’insegna la teoria del caos deterministico della fisica, sappiamo che essa avrà certo una sua organizzazione, ma che non potremo conoscerla. Riteniamo di sapere a quale regno libidico appartiene questo “oscuro persistere della ripetizione” e crediamo che la lotta contro di esso debba condursi con forze appartenenti allo stesso regno, provenienti dallo stesso serbatoio libidico. Si tratta di un regno, di un Es, ancora poco differenziato dalla biologia ed è con strumenti analoghi che si deve operare per creare contro-abitudini che possiedano la stessa potenza ripetitiva, la stessa viscosità, la stessa coazione. Sappiamo che occorrerà uno strenuo sforzo.

Dice Freud (1925d, p. 305):

L’Io ha delle difficoltà nel rendere reversibili le rimozioni anche dopo aver fatto il progetto di abbandonare le sue resistenze, e la fase di strenui sforzi che segue a tale lodevole intento l’abbiamo chiamata fase di ‘ri-elaborazione’.

Prepariamoci a questo “strenuo sforzo” e, riprendendo la descrizione che Etchegoyen fa del processo di rielaborazione (che abbiamo citato nella pagina precedente), proviamo a riscriverla a modo nostro, del tutto liberamente, per illustrare la nostra proposta provvisoria di lavoro.

L’insight nasce dalla prima parte dell’elaborazione. Poiché l’insight non produce ancora una trasformazione, l’elaborazione deve avere una seconda fase in cui cerchiamo di operare il vero cambiamento: quello di osservare le nostre risposte ripetitive anziché agirle. È un aspetto dell’elaborazione in cui i fatti (RS) sono trasformati in parole, in cui io penso le mie emozioni, in cui io resto nella tensione, osservo, persevero nell’osservazione senza fare nient’altro. Il momento dell’insight è indubbiamente fondamentale; ma, affinché la conoscenza si trasformi in mutato comportamento e perduri, l’insight dev’essere tradotto meticolosamente in un’osservazione equanime, continua e perseverante che non indulga all’azione automatica. Solo se non avrò reagito, scaricando così la tensione, successivamente potrò agire in un modo più autodeterminato e libero da condizionamenti.

Perché riteniamo più efficace e trasformativo l’osservare anziché il verbalizzare (Etchegoyen) o il riflettere (Montefoschi) o il pensare (Etchegoyen) l’impulso ad agire? Per due motivi. Primo perché, come abbiamo detto, sappiamo esattamente, e nel dettaglio, come fare ad osservare, mentre non abbiamo altrettanta conoscenza ed esperienza relativa al verbalizzare. Secondo perché, anche se potessimo usare la stessa tecnica per ottenere un esito di verbalizzazione o di pensiero o di riflessione, crediamo che ci sia, in queste attività, minore presenza d’equanimità e distacco che nell’osservazione. Nei modelli psicoanalitici tutto è affidato al lavoro col terapeuta che guida e affianca nella verbalizzazione; si presuppone che questo lavoro proseguirà da solo per inerzia. Non si dice con chiarezza: “Quando verbalizzare da soli? Che cosa? In che condizioni? Con che animo? Come il verbalizzare m’impedisce di agire? In pratica cosa fare? Restare di sentinella alle incursioni dell’agire? Facendo cosa? Coma fare ad accorgersi dell’impulso? Ci si ricorda davvero di verbalizzare? Questa consapevolezza è un farmaco da assumere all’occorrenza o ad intervalli regolari?” Sebbene non possiamo riportarla qui, possiamo assicurare che, nel caso dell’osservazione, la tecnica applicativa è descritta nel minimo dettaglio.

E, comunque, quello di cui si parla qui, quello di cui c’è bisogno, non è tanto quale fare delle quattro attività (osservazione, verbalizzazione, riflessione, pensiero), che possono anche essere ritenute equivalenti; quello che si deve apprendere è come non fare più l’azione ripetitiva. Si tratta soprattutto di non agire (per il momento); in luogo della reazione possiamo adottare una qualsiasi delle quattro attività, anche se preferiamo usare l’osservazione. Il difficile è passare dal fare al non fare (ripeto, per il momento). È difficile rinunciare a fare qualcosa che pensiamo ci salverebbe dall’ansia. La psicoanalisi non parla mai di un allenamento specifico e solitario a “non fare”; si limita a chiedere al soggetto di non controllarsi da solo, perché ancora non lo sa fare, ma di affidare per lungo tempo la verifica del passaggio, dal fare al verbalizzare, alla responsabilità dell’analista. Questa fase di trasformazione, per l’analisi la si deve fare in due. Ma in tal modo questa nuova modalità viene attuata un’ora soltanto alla settimana, anziché tutti i giorni. Noi vorremmo accorciare i tempi d’apprendimento della nuova modalità, insegnando al soggetto una tecnica per farla da solo al di fuori della seduta, per altri sei giorni alla settimana. Noi sappiamo che questa tecnica è capace di farci passare da soli dall’agire al non agire.

L’idea viene da esperienze in altri campi. Avevamo detto più su: “Ci sono anche, per fortuna, trasformazioni senza insight; saranno proprio queste a darci un’idea importante per la rielaborazione e la stabilizzazione”. Ci riferivamo alle trasformazioni ottenute con Anapanasati. Anche in chi pratica Anapanasati senza avere dietro di sé una terapia possono accadere delle trasformazioni di comportamento in cui la risposta ripetitiva viene spontaneamente prevenuta. Così, nella meditazione, ci può essere qualche modificazione comportamentale che non è passata attraverso l’insight e per la quale la meditazione non ha costituito una rielaborazione, ma l’intera esperienza trasformativa. Con la sola meditazione di consapevolezza, in assenza d’interpretazione analitica, qualsiasi cambiamento accadrebbe però, per paradosso, al di fuori della nostra consapevolezza. Oltretutto quest’esperienza è improbabile; di solito non c’è una trasformazione del transfert nella sola anapansati senza insight; così com’è aleatoria la trasformazione fattuale col solo insight. L’unione di entrambe le tecniche ci fa apparire invece il risultato cercato (l’annullamento della ripetizione) altamente più probabile e certamente più rapido. E anche più gratificante perché dà al soggetto la sensazione di aver fatto un buon lavoro da solo e di essersi preparato a continuare il cammino senza l’analista.

Riprendiamo dunque il nostro progetto, che si propone d’integrare psicoterapia e osservazione, e cerchiamo di isolare quanto, della meditazione, costituisce quella disciplina corporea ri-condizionante che alla psicoanalisi, così lontana dal corpo per vocazione costitutiva, ancora manca.

Ciò che può insegnare Anapanasati, ai fini della non-reazione-automatica, è il non-movimento, l’immobilità, la schiena diritta, il silenzio, qualunque cosa succeda. In Anapanasati non si reagisce al dolore posturale, al prurito, al dubbio, alla fretta, al desiderio di essere altrove, alla puntura di zanzare; non si segue l’inclinazione al desiderio, al torpore, all’indolenza, all’impedimento. È principalmente lo stoicismo della pratica quello che educa alla non-reazione. Restare immobili e silenziosi segna una grande differenza rispetto alla facile via della risposta di scarico, pronta, maladattiva, chiassosa, immediata, che vuol seguire subito l’impulso del principio del piacere. La bellezza della rinuncia e del sacrificio … così difficile per il borderline, per il simbiotico, l’infantile, … vengono appresi, sempre all’interno della meditazione stessa, passando dall’osservazione immobile del respiro, del corpo, delle sensazioni, all’osservazione immobile della rabbia e della paura, dell’impulso a reagire e del desiderio.

5 – Contesto della misurazione e contesto della scoperta

Come il CCRT, anche Anapanasati è, da un lato, misurabile e, dall’altro, strumento di misurazione del processo psicoterapeutico. Inoltre come il CCRT, anche Anapanasati è utile, oltre che nel contesto della validazione, anche in quello della scoperta.

Mentre Anapanasati viene applicata per risolvere il CCRT centrale, permette anche di scoprire, durante la sua applicazione, altri CRT (non centrali) o nuovi aspetti del CCRT centrale. Anapanasati viene applicata nel momento in cui è più attiva la resistenza di transfert. Ma quella che è attiva ora, non è più la resistenza dell’Io a capire il transfert, ma la resistenza dell’Es ad interromperne l’esecuzione.

Forse un caso clinico ci può aiutare a descrivere ciò che vogliamo dire.

Un soggetto, dopo tanti tentativi d’interruzione dell’analisi e una dimostrata incapacità di mantenere il setting, ha preso atto di questo ed accettato il seguente CCRT (clichè n° 1):

W desidero assolutamente essere riconosciuto come leader ovunque mi trovi, pretendo trattamenti speciali

RO non puoi esimerti da certi adempimenti, sei come tutti gli altri, anche tu devi sottostare alle regole

RS divento insofferente, me ne vado sbattendo la porta, abbandono il gruppo, mi vengono fretta, rabbia, desiderio di libertà.

Durante l’immobilità della posizione meditativa il suo CCRT fa capolino e si impone: dopo pochi minuti, il soggetto viene preso dal desiderio di interrompere la meditazione, sente che deve fare cose più importanti, tanto il meccanismo ormai l’ha capito, … lui; altri magari, meno intelligenti e privilegiati, restino nella posizione, … non lui. L’aspetto del CCRT che il soggetto scopre in meditazione è (clichè n° 2):

W desidero non far fatica, non ubbidire, non esser pari agli altri, avere privilegi,

RO anche tu devi tenere la postura, non sei il più bello, tieni la schiena dritta!

RS mi tolgo di lì, interrompo, insofferente, agitato, vado a fare dell’altro di mia scelta, la meditazione la farò in altro momento e come piace a me

L’allenamento a non agire RS nella meditazione (RS che nella fattispecie è il togliersi di lì), ossia l’allenamento a restare lì, nella tensione, mentre aiuta il soggetto a cambiare il clichè della meditazione (clichè n° 2), lo aiuta nello stesso tempo a cambiare anche l’analogo clichè nella vita (clichè n° 1).

Come può svolgersi la meditazione di rielaborazione in questo caso? Cosa deve osservare o riflettere o verbalizzare mentalmente il soggetto? Egli può chiedersi per esempio: “Qual è il mio desiderio?”. E rispondersi: “Fare di testa mia!”. Questo è il W che abbiamo appurato in analisi e confermato in meditazione. E ancora chiedersi: “Qual è allora il mio impulso?”. Al che può rispondere: “Andarmene da qui, alzarmi!”. Questo è la RS scoperta in analisi e confermata in meditazione. A questo punto il meditante è allenato a decidere, verbalizzare mentalmente ed attuare (questa forse è la vera novità tecnica) il seguente proposito: “Nonostante il mio desiderio e il mio impulso resto immobile!”. Il meditante sa come non reagire d’impulso. È allenato a farlo. Il desiderio di disubbidire e l’impulso a farlo non vengono, questa volta, messi in atto. Restare immobile è la nuova modalità.

 

6 – Agire anziché reagire.

Cosa accadrà dopo aver osservato l’impulso restando immobili? Accadrà che, impedendo al soggetto di cadere ancora una volta in una reazione cieca e impulsiva, avremo aperto, per lui, la strada alla possibilità di un’azione differita, deliberata e libera.

È come se avessimo detto al soggetto: «Anziché “re-agire im-mediatamente”, conta fino a 10 e poi “agisci mediatemente”. Lascia un intervallo fra l’impulso e l’azione. Un intervallo nel quale osservi (o verbalizzi o pensi)». Ma non gli abbiamo dato solo questa indicazione. Se ci fossimo fermati qui avremmo dovuto riconoscere che, questo, anche la saggezza popolare ce l’insegna ogni giorno e noi non avremmo fatto niente di più a questa sapienza. Invece, abbiamo insegnato al soggetto una cosa in più: a metterla in opera. Il nostro compito, infatti, è stato soprattutto quello di insegnare a lui la mediazione, ossia di insegnare a contare fino a 10. Non si tratta di un insegnamento inutile, visto che così pochi sanno farlo, soprattutto quando sono ostacolati dalla coazione a ripetere che esige l’im-mediata esecuzione dell’impulso. La risposta è mediata dal lavoro dell’intervallo. Lavoro che nel caso dell’osservazione d’insight si avvale di una conoscenza e di una esperienza consolidata e dettagliatissima. Questa ce la offre la meditazione d’insight. Così abbiamo, nel nostro lavoro, tutta una serie di portati:

1)   l’analisi ci segnala su quali impulsi vigilare,

2)   la saggezza popolare ci consiglia di aspettare ad attuare proprio quegli impulsi,

3)   la meditazione c’insegna come si fa ad aspettare.

 …

Al terapeuta resta il compito complesso, e l’arte preziosa, di metterle in fila.