Note sulla costruzione di saperi intorno ad un oggetto: la persona adolescente

di Fabio Vanni

Non si può non concordare con Mottana (2004) quando, a proposito dell’adolescenza, scrive “La mia percezione (…..) è che l’universo di riflessione e lo spettro immaginativo che oggi circoscrive questa ineguagliabile ed originalissima età della vita, sia molto povero, molto unilaterale, molto fosco e che invece occorra (…..) un grande arricchimento, una dilatazione di orizzonti, anche nel tempo e nei riferimenti, dei nostri sfondi simbolici” Da dove deriva questa angustia nell’orizzonte culturale? S’intravedono delle alternative che ci permettono di dilatare lo sguardo?Per dare risposta a queste domande faremo un passo indietro: una breve rincorsa che ci consenta d’inserire alcuni accadimenti odierni all’interno di una prospettiva storica.Ci limiteremo alla storia della psicoanalisi, sia per limiti di spazio che di competenza che, soprattutto, in considerazione della convinzione che essa offra, più di altre teorie, spunti per utili sviluppi.
Seguiremo, in modo sintetico, l’intrecciarsi di due linee:- il mutare dello statuto dell’oggetto e la coscienza di sè, e- l’ampliarsi della base fattuale clinica.
Proveremo poi a mettere in evidenza i limiti che mostra la tradizione positivista in psicoanalisi per evidenziare quindi un’altra anima, ben più feconda ed attuale, che sembra prendere piede, o almeno mostrare significative potenzialità in alcuni contesti operativi relativi all’età adolescenziale.

Lo statuto dell’oggetto e la coscienza di sè

Come noto la ‘teoria della seduzione’ prevedeva che la configurazione dell’apparato psichico andasse ad organizzarsi anche in risposta ad un trauma reale attinente alla sfera sessuale.Il successivo modello psicoanalitico ‘del conflitto’ identificava invece, come scrive Muscetta (2002), “in due sole motivazioni le molle che presiedono allo sviluppo della mente ed il dispiegarsi del comportamento umano: il suo modello evolutivo era essenzialmente un modello pulsionale ed intrapsichico; lo sviluppo era concepito come essenzialmente legato al succedersi ineluttabile di tappe maturative in sequenza”.Il conflitto riguardava istanze interne all’apparato psichico. L’intervento terapeutico era volto al recupero del rimosso.Aspetto centrale della costruzione teorica era l’atemporalità dell’inconscio e, al contrario, la permeabilità all’apprendimento delle parti preconsce-consce, sensibili alla realtà esterna.La situazione analitica era costruita per far emergere l’inconscio nel suo anacronismo infantile e quindi catturarlo all’elaborazione consapevole e dunque depotenziarne gli effetti attivi.Se l’infanzia era l’età di costituzione dell’inconscio dinamico, l’età adulta era l’età nella quale l’Io poteva essere sufficientemente forte da affrontare quel viaggio a ritroso che gli avrebbe consentito d’integrare il rimosso, ovviamente nei limiti del possibile.Le ‘teorie del deficit’ reintroducono l’oggetto concreto, che per la teoria del conflitto era solo la meta della pulsione, e che qui diventa il determinante della costituzione del Sè: Winnicott, Kohut, etc, riattribuiscono all’oggetto un ruolo fondante e non più di semplice occasione di esplicitazione pulsionale.La terapia diventa un luogo nel quale si devono creare le condizioni per una ri-costituzione del Sè, per un suo ripararsi attraverso una relazione con oggetti-sè più adeguati, empatici, rispecchianti.
Trova qui giustificazione teorica la possibilità di attuazione d’interventi clinici con bambini ed adolescenti, non più pensati come regressioni da un ‘post’ ad un ‘pre’, ma come possibilità di entrare nella relazione nel suo costituirsi e rimodellarsi.Ma già nella tradizione post-kohutiana (Stolorow) ed ancor più nel “Relational Track” (Mitchell, Aron, etc) e nei post-bowlbyani (Target e Fonagy), s’introduce un terzo filone di pensiero che, forse non per caso, vede alcuni studiosi dell’adolescenza come esponenti di spicco.“Qui, di nuovo, la mentalizzazione, la funzione riflessiva, etc, riprendono una posizione di primo piano, ma non più come atti compiuti da un analista ‘positivista’ che osserva ed interpreta ‘oggettivamente’ il funzionamento intrapsichico del paziente, bensì come emergenti all’interno di una relazione della quale entrambi i componenti partecipano attivamente con la loro piena soggettività.Non è più l’esperienza emozionale correttiva ad essere cercata come ‘fattore terapeutico’ principe, ma la possibilità di cogliersi come produttori di significati all’interno di relazioni affettive con gli oggetti reali: relazione interpersonale reale e mentalizzazione sono quindi congiunti ed integrati nel processo di cura” (Bellettini et al. 2003)
Potremmo quindi affermare che nella teoria della seduzione, del deficit e del conflitto il soggetto è ridotto ad un oggetto, ma in modi diversi: l’ultima è tutta giocata sul funzionamento dell’apparato, le altre due negano l’importanza del soggetto relegandolo al ruolo di ricettacolo dell’oggetto reale.L’analista quindi non può, in tutti e tre i casi, essere legittimamente soggetto a sua volta. Non c’è spazio teorico.Nella teoria del conflitto egli è specchio neutro che riflette i giochi che si fanno dentro l’apparato, nelle altre due è riparatore di ciò che in passato si è costituito e semistrutturato, quindi l’analista è determinato dal deficit che è a sua volta determinato dall’ambiente di cura.

L’ampliamento della base fattuale

Come sappiamo la tipologia di pazienti ai quali Freud rivolgeva la ‘talking cure’ era inizialmente assai selezionato per età, diagnosi, capacità intellettive.Negli anni ’10 l’introduzione nella teoria della dimensione Io-Oggetto gli consente di approcciare la spiegazione delle psicosi che non erano comprensibili collocando la conflittualità sul solo asse sessualità-difesa (vedi le polemiche con Jung).Il tentativo di comprendere direttamente il funzionamento infantile ad opera di Anna Freud, Melanie Klein, etc superando quindi la visione ‘adultomorfica’ che caratterizzava la teoria psicoanalitica dello sviluppo fino agli anni ’30, ha comportato l’introduzione di concetti e di rappresentazioni del bambino che, pur rimanendo all’interno dell’ottica pulsionale e della teoria del conflitto, hanno consentito di scoprire una psiche infantile diversa da quella che ci si aspettava.Successivamente, sempre la scuola inglese ha prodotto, con Bion e Foulkes prima di tutto, ipotesi sul funzionamento dell’individuo e del piccolo gruppo nate da quella che inizialmente era l’esigenza di far fronte a ‘grandi numeri’ di pazienti e che poi è divenuta un’opzione tecnica a tutti gli effetti.Gli sforzi teoretici compiuti da autori come Kohut hanno dato conto di gravi disturbi di personalità sviluppando un filone interpretativo di grande fecondità.
Le psicosi, i disturbi di personalità, ma anche i bambini, i gruppi, e potremmo continuare con le famiglie e le coppie, etc, sono solo alcuni esempi che ci consentono di mostrare come siano mutati nel tempo gli universi dei quali la psicoanalisi si è occupata ampliando, per così dire, la sfera di competenza, o la base di dati clinici, da spiegare e le persone da curare.
Sono naturalmente mutate anche le configurazioni oggettive delle psicopatologie che non sono più quelle dell’inizio del ‘900 che in qualche modo avevano fatto la loro parte nel suggerire, ad esempio, la centralità della sessualità nella teoria psicoanalitica.
Il poter descrivere il paziente in diversi momenti della sua vita, in differenti contesti di relazione, con diversi tipi di problemi ha certamente consentito una migliore comprensione del suo funzionamento senza tuttavia inficiare il presupposto, la fonte di approvvigionamento principale della conoscenza analitica, l’universo psicopatologico, determinando quella particolare deformazione epistemica che E. Peterfreund (1978) ha efficacemente definito ‘patomorfismo’.L’oggetto di studio è comunque un oggetto sanitario, pur indagato e trattato in modo multidimensionale.Inoltre, come scrive la De Robertis, (2001) “Il criterio di verità, per come è stato vissuto e portato avanti dalla comunità psicoanalitica, ha reso irrilevante qualsiasi referente probatorio che si situasse fuori della circolarità interna fra teoria e prassi psicoanalitica. Questo è il ‘legame inscindibile’ (lo Junktim, traducibile oggi nell’annoso problema dell’autoreferenzialità) che ha alimentato il circolo vizioso tra teoria e dati clinici, reciprocamente riconfermanti.”

La prospettiva universalistica

Intrecciato con gli aspetti indicati tuttavia, un altro orizzonte ha sempre caratterizzato la teorizzazione psicoanalitica: l’intento di costituire una spiegazione complessiva della psiche umana, che comprenda l’individuo patologico a quello normale, il giovane ed il meno giovane, l’uomo e la donna. Uno scenario, una prospettiva, universalistica.

D’altra parte la fondamentale affermazione freudiana sulla continuità qualitativa fra normalità e patologia, che quindi sarebbero collocabili agli estremi di un continuum di natura quantitativa, nonchè la concezione ‘utopistica’ della normalità (S. Freud, 1937) della quale egli era portatore e che si traduceva concretamente nel rappresentare l’uomo più normale come affetto, come minimo, da nevrosi; questi presupposti, dicevamo, costituiscono alcune delle premesse per applicare le teorizzazioni psicoanalitiche alla persona tout-court.Fin da “Psicopatologia della vita quotidiana” Freud ha applicato ai comportamenti dell’uomo della strada le scoperte che la psicoanalisi compiva sul terreno clinico.Ciò è avvenuto, mi pare, non senza qualche titubanza, ma è innegabile l’esistenza di una ricca letteratura che ha interpretato, oltre ai comportamenti ‘irrazionali’ della quotidianità, produzioni artistiche, filmiche, biografie di personaggi storici, atti criminosi, con gli strumenti concettuali della psicoanalisi.Si trattava tuttavia quasi sempre di una sorta di ‘psicoanalisi applicata’ in un territorio extraclinico senza che venisse riconosciuto un vero valore probatorio a questo genere di speculazioni.

Positivismo, sanità, psichiatria

Ritengo ci si debba, a questo punto, domandare, con la necessaria ingenuità, perchè la psicoanalisi ha prediletto un approccio clinico allo studio dell’uomo e se questa scelta è, oggi, vantaggiosa.La tesi che intendiamo sostenere è che questa scelta sia stata una conseguenza del ‘programma’ positivista (Lakatos) che estendeva semplicemente a quell’oggetto immateriale costituito dalla psiche i criteri epistemici applicati con un certo successo alle scienze naturali.Lo scientismo, ovvero quel modello epistemico che ritiene legittimate scientificamente solo quelle discipline che adottano come criteri quelli propri delle scienza della natura, ha costituito l’ideale scientifico della psicoanalisi fino a tempi troppo recenti.Freud, in fondo, non fa altro che applicare all’apparato psichico le leggi che venivano utilizzate a spiegazione degli apparati del corpo.[1]

E’ nell’alveo delle scienze naturali che nasce la psicoanalisi, quasi come se venisse introdotto nell’anatomia dell’uomo un altro organo: la psiche.Crediamo che ciò non sia ininfluente rispetto alla collocazione sanitaria che è andata ad accogliere, in gran parte del mondo, l’operatività psicoterapeutica, come una delle frecce dell’arco psichiatrico.Non si vuole certo disconoscere che ciò ha consentito di ‘umanizzare’ la psichiatria, d’introdurvi una dimensione psicologica, casomai si rintraccia una ragione a monte, epistemica appunto, per la quale questa componente sembra in forte difficoltà, stretta all’interno di rappresentazioni teoriche e di pratiche operative che forse più e meglio della psicoanalisi possono curare il suo oggetto naturalistico di studio.Riteniamo che questo aspetto ci aiuti a capire perchè per molto tempo si sia rappresentato il rapporto analitico come un rapporto che non coinvolgeva la persona dell’analista ma solo quella del paziente coerentemente con quanto il positivismo indicava come ideale scientifico delle scienze naturali.

Alcuni eventi in controtendenza

Ma un’altra anima riteniamo sia presente nella storia della psicoanalisi, un’anima meno angustamente vincolata alla prospettiva terapeutica (pur non certo ignorata). Vediamone alcuni esempi.Nell’ambito delle modalità di studio del bambino proprie della scuola kleiniana, Ester Bick ha introdotto e perfezionato un metodo di osservazione del bambino stesso nella sua relazione con gli oggetti di accudimento: l’’Infant Observation’.Questa tecnica, con la quale si sono formate oramai generazioni di psicoanalisti infantili, è completamente svincolata, come tipologia di dati e di domanda, dalla psicopatologia e dalle esigenze terapeutiche, ed ha consentito di cominciare a studiare bambini normali.
La chiave di lettura con la quale venivano letti i fenomeni osservati era comunque di stampo clinico ma la base osservativa, almeno potenzialmente, si allargava molto, pur rimanendo confinata nei primi mesi di vita del bambino.
E’ con l’’Infant Research’ (Stern, Emde, Lichtenberg, etc) che viene recuperata una mole enorme di letteratura sperimentale ed etologica sull’infanzia alla quale viene data nuova dignità. Altre ricerche vengono prodotte ex-novo.Viene, per la prima volta, a costituirsi un universo fattuale extraclinico riletto ed interpretato in chiave psicoanalitica e che acquista un potere di prova al pari di quello clinico.
Si riconosce cioè, in nome dell’interdisciplinarietà, un certo valore a dati provenienti dalla psicologia dello sviluppo.Sono dati relativi all’infanzia e disegnano un nuovo soggetto che D. Stern (1987) chiama, come noto, ‘bambino osservato’.Egli lo pone accanto al tradizionale ‘bambino clinico’ e prova a costruire una teoria dello sviluppo infantile che integri i due punti di vista.Non si arriva comunque subito all’adolescenza.Daniel Offer, negli Stati Uniti, è antesignano di una teorizzazione psicoanalitica dello sviluppo normale e compie numerose importanti ricerche sull’età adolescenziale che mettono in luce, tra l’altro, alcuni pregiudizi diffusi rispetto alla normalità ed alla patologia.[2]

Ma uno degli aspetti più rilevanti del lavoro di Offer è costituito certamente dall’utilizzo di una strumentazione teorica e metodologica di tipo psicoanalitico per intervistare una popolazione normale, mettendo in evidenza le potenzialità esplicative della psicoanalisi anche in quest’ambito, senza i vincoli legati alla prospettiva terapeutica, ma solo a fini di conoscenza, consentendo di rilevare l’importanza, ai fini dello sviluppo psicologico, di alcuni fattori della personalità.In Italia, uno degli autori che ha saputo utilizzare ricerche sugli adolescenti provenienti da ambiti extraclinici integrandole con una versione moderna della teoria psicoanalitica è sicuramente G. Pietropolli Charmet.
Il suo gruppo ha fatto tesoro di esperienze conoscitive collocate in ambito giudiziario, scolastico, dell’aggregazione giovanile, non limitandosi però ad uno sterile descrittivismo ma dando loro dignità di dati da leggere, di linguaggi significanti.Non a caso ne è emerso uno dei modelli dello sviluppo adolescenziale meno patomorfici e più aderenti alla realtà di funzionamento della persona adolescente di oggi.
Un altro filone teorico importante vede in P. Fonagy e M. Target (2001) i due ricercatori di maggior spicco. Essi propongono una teoria evolutiva che sviluppa l’’attachment teory’ bowlbiana, e lo fanno integrando ricerca empirica e dati clinici in una sintesi rigorosa. “Gli stili di attaccamento, un buon sviluppo della realtà psichica e la mentalizzazione sono prerequisiti fondamentali che fanno da supporto ad un ‘sano’ sviluppo della funzione riflessivva (che a sua volta sostiene lo sviluppo del sè), per cui il mancato sviluppo di questa funzione risulta la base spiegativa della psicopatologia” (Colombelli, 2002).Anche la Psicoanalisi della Relazione (Minolli, 1993, De Robertis e Tricoli, 1991), che tenta d’integrare in un modello unitario la tradizione clinica nata dall’abbandono del modello pulsionale, senza sposare quello deficitario, e dell’Infant Research, teorizzano che “Andando oltre la coscienza intellettiva freudiana che considera l’io come oggetto e sostenendo la capacità riflessiva dell’essere umano e in particolare l’autocoscienza quale capacità di presenza a se stessi, il metodo tende a riesaminare le proprie costruzioni, riconsiderare le proprie soluzioni storiche, ripensare le motivazioni sottostanti, rivedere la rigidità delle strutture, rispecchiarsi nella propria storia, ripronunciarsi per il futuro.Un obiettivo metodologico valido per le strutture “sane” e per quelle patologiche.” (Minolli, 1999)In questi modelli la psicoanalisi dell’adolescente non viene assunta per il suo setting e per la sua tecnica, come spesso è accaduto in passato, ma per la sua visione dell’uomo e la metodologia che ne deriva, veri elementi definitori, ma soprattutto in essi possiamo rintracciare, come vedremo più avanti, spunti utili per una teoria post-positivista del soggetto.

Servizi per adolescenti

Vi è un universo di servizi, spesso collocati nelle aziende sanitarie pubbliche, ma anche, in misura crescente, nei comuni, o nelle scuole, o in centri privati che si occupano di adolescenti in un modo interessante.
Si tratta di servizi che, pur non rinunciando ad intervenire su situazioni di sofferenza e di disagio, non sono così vincolati al paradigma psicopatologico.
Potremmo definirli “servizi alla persona adolescente[3]

Una prima caratteristica di questi servizi è appunto quella di essere poco o per niente sanitari e tantomeno psichiatrici come cultura di riferimento prima ancora che come collocazione istituzionale.
Il loro orizzonte culturale sottolinea piuttosto l’evolutività che non la cronicità, la dimensione temporale piuttosto che la strutturalità, la relazionalità piuttosto che il determinismo endogeno.Pare evidente qui come sia presente, soprattutto nelle più alte di queste esperienze, la centralità del soggetto adolescente anzichè il suo apparato psichico naturalisticamente inteso.
Qui troviamo, a mio parere, un’opportunità interessante sotto diversi profili.In questi servizi vi è naturalmente la possibilità di conoscere adolescenti a trecentosessanta gradi poichè molte delle attività riguardano una popolazione non selezionata, la generalità della popolazione in quella fascia d’età (pensiamo alle scuole, oramai capaci di ‘tener dentro’ al circuito formativo anche chi un tempo ne veniva espulso, ma anche alle attività di promozione della salute, etc), altre riguardano le situazioni di disagio e di sofferenza, e dunque l’operatore gode di un punto di osservazione conoscitivo assai ampio a patto che, e qui sta il punto, egli abbia con sè una rappresentazione teorica dell’adolescente che sia parimenti capace di comprenderne il funzionamento come persona e non solo come oggetto terapeutico.D’altra parte oggi è possibile, e certo auspicabile, per il mondo psicoanalitico accettare contributi conoscitivi che provengano anche dal di fuori della relazione clinica e che non siano intesi necessariamente come contributi al funzionamento della psiche come oggetto.Naturalmente qualora l’operatore sia catturato all’interno di un paradigma sanitario-terapeutico il rischio incombente è di una deformazione patomorfica controproducente, costosa e frustrante, sia per l’operatore che per l’adolescente, che conduce di fatto alla rinuncia alla possibilità di effettuare un’efficace prevenzione primaria e secondaria.Ma appunto l’esigenza che si pone con forza è quella di possedere nella propria bisaccia, e nella bisaccia del proprio gruppo di lavoro, un armamentario concettuale, teorico, ma soprattutto epistemico, sulla persona adolescente che faccia da guida metodologica ad una pluralità d’interventi clinici, educativi, formativi, etc.Un armamentario dotato quindi di coerenza esterna ma anche di coerenza interna, non costituito quindi da molti micromodelli ma da un modello complessivo del soggetto psicologico.
Ci pare appunto che questi contesti di lavoro e di ricerca con gli adolescenti possano tornare utili in questa direzione proprio perchè la loro cultura di riferimento è meno racchiusa nell’universo naturalistico-psichiatrico.Si tratta quindi di riconoscere una possibilità di trarre conoscenza sul soggetto adolescente anche da contesti extraclinici come quelli citati ritenendo che il porre questa in modo integrato con l’altra faccia bene ad entrambe costituendo, per l’una, un correttivo alle deformazioni patomorfiche e per l’altra una messa in luce di dimensioni soggettive profonde anche laddove non sembrano emergere.

Alcuni adolescenti

Sandra, 15 anni, è figlia unica; sta terminando la prima ragioneria e da alcuni mesi dimagrisce; i suoi genitori vanno a parlare con uno psicologo chiedendo un aiuto, ma Sandra non vuol venire da nessuno. E’ andata a parlare di sua iniziativa con uno psicologo che fa counseling a scuola ma non si è trovata bene.Non ha più le mestruazioni ed il cibo è diventato un oggetto d’interesse costante: si preoccupa di cosa mangia, cura i condimenti e le calorie in modo stringente.Ha avuto qualche problema ultimamente con le sue compagne di classe che, dice, la invidiano perchè è molto carina e brava a scuola. Va meglio con i maschi, ma non ha mai avuto un ragazzo; ha un amico del cuore, un suo ex spasimante respinto, che si adatta ad un ruolo desessualizzato.
Lo psicologo propone ai genitori di incontrarsi con loro lasciando aperta la porta per Sandra se, un giorno, vorrà venire a trovarlo.
Vengono in tal modo messe in luce le rappresentazioni affettive che essi hanno della figlia dalle quali emerge, per importanza, la nostalgia, soprattutto paterna, per la bambina piccola che era, la difficoltà a pensare ad una vita non centrata su di lei, il fastidio (esplicitato anche alla figlia) per i movimenti affettivi eterosessuali da lei prodotti.
Nonostante questo Sandra si mette con un ragazzo che, dice alla mamma, alla quale ‘racconta tutto tutto’, ‘è molto bello’.Nella prima fase del rapporto con Luca Sandra non si preoccupa più molto del cibo, ma rapidamente, mano a mano che la relazione assume connotazioni d’intimità fisica ed affettiva, si ritrae, dubita del suo interesse per lui, prende le distanze ed infine, dopo alcuni mesi, lo lascia.Contemporaneamente l’alimentazione ritorna al centro del suo interesse, e di quello familiare.La narrazione dettagliata della vicenda sentimentale alla madre induce i genitori a legittimare questa ritrosia e specialmente il padre sente, e lo esplicita con lo psicologo, una certa rabbia nei confronti di Luca che un giorno, in piscina, aveva stretto un po’ troppo a sè il corpo di Sandra.Nel frattempo vengono tentate soluzioni mediche per il ripristino del ciclo e, dopo alcuni mesi, esse hanno effetto, anche in parallelo ad un incremento, un po’ disordinato, dell’alimentazione e del peso.La relazione fra i genitori e lo psicologo, che inizialmente veniva percepita da tutti e tre come ‘esistente in mancanza di Sandra’ diviene gradualmente significativa in sè: i genitori di Sandra smettono di concludere gli incontri dicendo ‘come facciamo a portarla la prossima volta?’ e cominciano ad esplicitare il significato che la presenza della Sandra bambina ha avuto ed ha per ognuno di loro. Intanto vi è però il progredire del tentativo di delimitare all’ambito medico il problema (cibo-mestruazioni) e di valutare, analogamente a quanto fa Sandra, che si pesa varie volte nella giornata, in ordine a questi parametri l’andamento del lavoro con lo psicologo.Lentamente cominciano a capire che il loro essere una famiglia normale ed una coppia che va daccordo, e dunque il loro non ritenersi malati secondo comuni parametri psicopatologici, non implica che non abbiano incidenza sul modo di vivere e di rappresentarsi questa fase di crescita da parte della figlia.
Lo psicologo si accorge anche di come essi lo trattino con grande gentilezza e di come non sia del tutto scontato per lui rinunciare a ciò introducendo le sue riflessioni. Cogliere questo gli permette di comprendere il modo di chiedere una complicità da parte loro probabilmente analoga alla loro richiesta di complicità verso la figlia, che lui traduce loro come: ‘non diventare una donna, resta la nostra bambina’.Nei primi mesi del successivo anno scolastico Sandra ripristina buoni rapporti con alcune compagne di classe e sviluppa un desiderio sempre maggiore di uscire, di fare cose in compagnia, di conoscere e ‘baciare’ un ragazzo.I genitori non vedono di buon grado questi movimenti, nonostante lo psicologo provi a tradurglieli come normali tentativi di investire su oggetti esterni alla famiglia e li aiuti a ridimensionare alcuni aspetti spiacevoli dell’allontanamento della figlia.Un’insegnante dà però un certo spazio nelle sue lezioni ai vissuti soggettivi che i ragazzi hanno rispetto ai temi affrontati ed un giorno, in una discussione di gruppo, alcuni ragazzi e ragazze esplicitano alla classe qualche loro difficoltà. Anche Sandra, in quell’occasione, lo fa e rivela al gruppo di essere stata ossessionata dal cibo e di non aver avuto il ciclo per un po’. Riporta poi alla mamma che la classe, e specialmente i ragazzi, sembravano essere rimasti molto colpiti, come se scoprissero una Sandra diversa da quella che sembrava loro di conoscere: perfetta, bella, senza problemi, inaccessibile.Sandra sta male quel giorno e chiede alla mamma di parlarle della cosa: le chiede: ‘Ho fatto male a dirlo?” “No”, le risponde la mamma, “se ti sei sentita di farlo hai fatto bene”.Il padre non è daccordo “Io non l’avrei mai detto”, dice.Il giorno dopo un suo compagno di classe le chiede di uscire…………

Giovanna ha adesso 20 anni e la prima volta che è venuta allo ‘Spazio Giovani’ ne aveva 18.Era una ragazzotta piuttosto informe, vestita in modo anacronistico, con due spessi occhiali da vista ed una lieve peluria sul viso pallido.
Frequentava la seconda liceo classico in una scuola privata religiosa. La mamma (insegnante d’italiano in un altro liceo cittadino) ed il padre (silenzioso impiegato di un ufficio pubblico), entrambi del Sud, erano piuttosto preoccupati per gli scatti d’ira di Giovanna che sembrava avercela, talvolta, con tutti, ma con la mamma più che con gli altri.La mamma era reduce da una grave malattia che l’aveva portata, per alcuni anni, a sentirsi a rischio di vita e che adesso sembrava risolta.Giovanna era stata da poco tempo operata per una rara malformazione cardiaca scoperta di recente; ella sosteneva, probabilmente non del tutto a torto, che non era stata correttamente informata della cosa e che i suoi genitori l’avevano trattata come una bambina.Il suo rapporto con la scuola era pessimo, sia con insegnanti e preside che con le compagne di classe: il rendimento invece era buono ma, diceva lei, ‘non ci voleva molto’.Il rapporto con Giovanna si configura subito come improntato alla dipendenza: si attende dallo psicologo che le spieghi come si sente, che le dica cosa fare e cosa pensare. Lei non osa neanche riflettere su di sè, sembra aspetti istruzioni; lo psicologo si sente così attribuire, in apparenza, grandi poteri salvo non risultare poi efficace nella verbosità e ridondanza che finisce per avere nelle sue comunicazioni in seduta, questo gli consente di comprendere meglio la posizione dei genitori che sembravano essersi sostituiti spesso a Giovanna nelle decisioni che spettavano a lei. Egli riesce tuttavia, non senza fatica, ad aiutarla a dare un senso ad alcune cose che Giovanna porta, rabbiosamente, in seduta.
Dopo la promozione in terza va a frequentare l’ultimo anno in un’altra scuola, pubblica, con una certa apprensione dei genitori (la scuola ha fama di essere molto più dura). Giovanna però frequenta con profitto. Le sue questioni con i genitori non si esprimono quasi più con accessi di rabbia e a scuola si trova piuttosto bene. Si comincia a porre il problema della scelta dell’Università quando Giovanna interrompe l’analisi.Nell’autunno successivo lo psicologo viene ricontattato dalla mamma che lo prega di rivedere la figlia che sta molto male. Anche se adesso è a Pisa (!) la faranno venire quando per lui è possibile.Giovanna si ripresenta molto angosciata. Racconta che ha scelto di iscriversi ad Ingegneria meccanica a Pisa perchè voleva ‘cambiare vita’ e seguire il suo sogno: lavorare alla Ferrari, solo che a Pisa non riesce a stare, ha crisi di angoscia che le risultano insopportabili ed inoltre le persone con le quali si trova non le vogliono bene, non l’aiutano, è in un ambiente freddo e difficile ed anche nello studio fa fatica a concentrarsi. Deve tornare spesso a Parma dai suoi e sta pensando che, andandosene, forse ha fatto il passo più lungo della gamba.Nei mesi successivi Giovanna fa veramente molta fatica ad andare avanti, si fa espellere da tre abitazioni prima di trovare una compagna di appartamento con la quale si trova abbastanza bene.
Non riesce a stare da sola e passa in quei momenti molte ore al telefono con la mamma. I primi esami vanno così così. Viene a Parma ogni due settimane per la seduta e segue una terapia farmacologica.
Nel corso dell’anno successivo Giovanna entra maggiormente nel processo: a partire da una continua messa a fuoco delle sue rappresentazioni affettive degli oggetti con i quali è in relazione e provando a confrontarla con le idee che ha di sè.Piano piano Giovanna conosce nuove persone, si costruisce una vita sociale nell’ambito degli studenti fuori sede, non prende più farmaci e non ha più crisi di panico.Il suo rapporto con sua madre è stato messo particolarmente a fuoco evidenziandone i vincoli affettivi: il bisogno di sicurezza ed il significato di rottura che il suo allontanamento da casa aveva comportato; il valore di compromesso sintomatico che acquistava il suo malessere nel suo nuovo luogo di vita.
Anche l’estraneità del padre nella sua vita era stata indagata e messa in relazione anche con una configurazione familiare nella quale l’asse portante era stato tutto femminile: la mamma aveva sempre vissuto con la nonna, che tutt’ora viveva con lei e che aveva allevato le figlie (Giovanna e sua sorella, Virginia, di tre anni minore). Giovanna, per prima e finora unica, aveva osato staccarsi.Dopo due anni a Pisa, all’inizio del secondo anno di università, quasi in pari con gli esami, Giovanna racconta di aver ricevuto nei giorni scorsi la visita dei genitori.“Ho pensato per la prima volta che stavano venendo come ospiti a casa mia. Ho fatto trovare loro la casa in ordine, da mangiare pronto, etc. Mia mamma non aveva nulla da fare ed è rimasta un po’ perplessa. Mio padre è rimasto tutto il tempo davanti al computer. Mi ha detto che lo avevo configurato bene. Di solito noi parlavamo solo di macchine o di computer e sono due cose sulle quali ne sapeva più di me: lo chiamavo per chiedergli come fare per risolvere un problema e lui me lo risolveva: adesso ne so quasi quanto lui. Sono andati via presto”L’aspetto di Giovanna è molto cambiato: porta le lenti a contatto ed è dimagrita molto.Da un po’ di tempo i suoi capelli ricci scendono spesso liberi sulle spalle. Dice “mia madre mi ha sempre voluto far fare delle diete che sono sempre state un fallimento, stavolta ho deciso io ed il dietologo mi ha detto: “la prossima volta che vieni al controllo non verrai mica con tua madre……..””, “Mia sorella l’anno prossimo va all’università ma, ha detto, nè a Pisa nè a Parma, perchè altrimenti papà e mamma si trasferiscono……….”

Commento

Mi preme evidenziare, a commento dei casi presentati, il ruolo svolto da due variabili: il pensiero su di sè e l’oggetto reale (l’analista, ma anche l’oggetto amicale, educativo, amoroso, etc) che, in adolescenza, possono svolgere un ruolo sinergico.Sandra, ad esempio, è aiutata a pensare a sè come persona che diventa adulta anche dall’occasione di riflessione fornitale da un’insegnante; occasione che le consente di provare a rinunciare all’immagine algida della quale era prigioniera. Credo non sia senza conseguenze sull’identità di Sandra quell’insieme di piccoli e grandi segnali che riceve dalla classe.Inoltre, certo, il padre la vincola molto ad essere ‘la sua bambina’ ma la mamma le offre un importante sostegno al tentativo di affermare di essere donna (mestruazioni) ed imperfetta (“sono stata ossessionata dal cibo”).Il rapporto con Luca mostra efficacemente come un investimento su un nuovo oggetto, di per sè, senza un’adeguata mentalizzazione dell’esperienza, non produca un mutamento stabile, identitario, a conferma quindi della necessità mediatrice del pensiero e della sua ancella: la parola.
Anche Giovanna è dovuta ricorrere ad un allontanamento, geografico in questo caso, per provare ad essere persona.
La nuova città è stata difficile da vivere, rappresentativa com’era di un suo profondo non essere, ma vi è potuta nascere pian piano una rete di relazioni relativamente vergini, sue, una rappresentazione dei genitori che osa essere più distaccata nonchè un’idea di sè e del proprio futuro che comincia a delinearsi come più sua, più convinta e stabile.
In entrambi i casi dunque, elemento decisivo del cambiamento è stata la capacità di darsi conto dell’esperienza, di inserirla in una rappresentazione anche storicamente accettabile di sè, una rappresentazione dalla quale non si rifugga ma che allarghi invece la comprensione del proprio mondo interno.Che ruolo ha in tutto questo l’analista? La relazione con lui non è più il luogo unico di apprendimento su di sè, anche altri contesti, abbiamo visto, possono essere utili allo scopo in adolescenza.Presenta tuttavia una specificità data dalla possibilità di esplicitazione di livelli inconsci di funzionamento che possono essere reimmessi nel circuito dell’apprendimento.Mi preme qui sottolineare come questa funzione avvenga in relazione al modo di essere ‘reale’ dell’analista, ovvero alla sua possibilità di essere presente in quel momento in quella specifica relazione, e non solo alla sua capacità di conoscere e spiegare il funzionamento dell’oggetto che ha in mente.

Il “Meeting Giovani”: prevenzione, educazione, promozione……..

Questa presenza pensante nelle relazioni è centrale in modo ancor più spettacolare anche se differente in contesti complessi e non clinici, dove peraltro la capacità di apprendimento dall’esperienza è mediamente maggiore da parte dei singoli soggetti coinvolti.Il “Meeting Giovani” si presta in tal senso ad essere citato come esperienza, oramai decennale, di intervento sulla popolazione adolescente di Parma e provincia volto a favorirne la crescita psicologica.Il Meeting è promosso e coordinato dall’Ausl ma vede la partecipazione della quasi totalità delle scuole medie superiori e delle realtà aggregative e culturali frequentate dai giovani della zona.Ogni anno scolastico viene individuato un tema[4] sul quale un gruppo di ragazzi di ogni scuola, centro, etc lavora, con l’aiuto di un insegnante o di un educatore e di un ‘creativo’ (un tecnico dello spettacolo che abbia però attitudini educative adeguate e che vengono sostenute attraverso un apposito sostegno formativo) al fine di produrre una rappresentazione (in prosa, in musica, audiovisiva, etc) ma con la finalità esplicita e condivisa di fornire ai ragazzi un’occasione per portarli a confrontarsi sia con i contenuti trattati che con le relazioni interpersonali, orizzontali e verticali, nelle quali si trovano immersi all’occasione di questa esperienza.L’esito finale è una intensa ‘tre giorni’ di musica e spettacolo che offre un’esplicitazione per i ragazzi stessi, e per gli adulti che vogliono ascoltarla, del pensiero adolescente sul tema di quella stagione.Anche qui, in quest’esperienza così distante dalle due precedenti dunque, mi sembra che le idee guida rimangono quelle descritte: fattori di cura e fattori di crescita, almeno in adolescenza, sembrano essere, in questa prospettiva, in parte coincidenti.Sarebbe fuori luogo quindi pensare che la promozione della crescita dei soggetti in età adolescenziale avvenga proponendo loro semplicemente occasioni di espressione di sè, o magari di sfogo istintuale, e sarebbe altrettanto fuori luogo sottoporli ad una sospensione dell’azione (così significativa invece anche in sè!) per indirizzare loro una parola che spieghi come sono fatti.E’ opportuno invece creare occasioni di emersione del pensiero, espresso, beninteso, da più parti e non solo patrimonio dello psicologo, in situazioni di relazione reale.Ci sembra che il Meeting sia un buon esempio di questo tipo di approccio.

Conclusioni

Stiamo ipotizzando quindi l’opportunità di costruire un riferimento teorico unitario del soggetto, e quindi del soggetto adolescente, che funzioni da rappresentazione guida per gl’interventi che si riferiscono alla persona.Questa prospettiva non è da dare per scontata ma esistono oggi le condizioni di permeabilità delle conoscenze e delle esperienze per andare più efficacemente in questa direzione.
Riteniamo che la psicoanalisi offra, insieme a molti limiti, prima di tutto legati all’idea di scienza della quale è stata per molto tempo intrisa, alcuni spunti utili in tal senso.Pensiamo con piacere che altre culture stanno contaminando quella positivistica che fa da sfondo ad una gran parte della psicoanalisi stessa e della sua operatività terapeutica.
D’altra parte la domanda ‘chi sono?’, che appare fondante in tutta la vita delle persone, in adolescenza si presenta con una significatività senza pari e sembra sottendere tutti i movimenti di sviluppo presenti a quell’età.Sarebbe riduttivo, d’altronde, derubricare totalmente sotto la voce ‘narcisismo’ il funzionamento dell’adolescente di oggi, non foss’altro per la sottovalutazione di alcuni aspetti di ricchezza soggettiva della quale i ragazzi e le ragazze sono spesso portatori (Mottana, 2004).Siamo ben consapevoli dell’esistenza di un dibattito filosofico, che possiamo solo sfiorare, al riguardo della questione del soggetto. Non è necessario infatti prendere posizione fra le diverse opzioni oggi presenti (vedi Di Francesco, 1998) per asserire la funzionalità di una teorizzazione del soggetto psicologico. Essa è incompatibile solo con una posizione ‘materialista-fisicalista’ (Moravia, 1999), posizione alla quale la psicoanalisi ha pagato, come abbiamo cercato di mostrare, un tributo salato nella sua storia.In quanto psicologi e psicoanalisti rivendichiamo invece l’utilità pratica di questo livello di conoscenza come quello sul quale collocare il nostro sapere sulla persona.
In definitiva mi pare si possa affermare che esistano esempi di esperienze nelle quali la metafora della mente-apparato possa essere ridimensionata e la regia degli interventi venga affidata ad altre idee guida, più confacenti a spiegare e ad intervenire sul modo di essere della persona di oggi.
E’, in fondo, interessante, ed anche un po’ rassicurante, che queste rappresentazioni dell’uomo emergano dall’evolversi della psicoanalisi che, quindi, forse non si è fatta del tutto coartare nella sua potenzialità rivoluzionaria.

Bibliografia

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v S. Freud (1937) Analisi terminabile e interminabile, Boringhieri, Milano
v M. Minolli (1993) Studi di psicoterapia psicoanalitica, C.D.P., Genova
v M. Minolli (1999) La specificità del metodo di Psicoanalisi della Relazione Relazione a convegno annuale S.I.P.Re.
v M. Minolli (2003) Io sono in prima persona , manoscritto
v S. Moravia (1999) L’esistenza ferita Feltrinelli, Milanov P. Mottana (2004) La ‘radura’ dell’adolescenza (fra luogo e non luogo) in “Viaggio nell’Isola che non c’è” di L. Angelini (a cura di) Unicopli, Milanov S. Muscetta (2002) Contesti naturali e disadattivi: implicazioni cliniche nel trattamento psicoanalitico di un adolescente Congresso “Psicoanalisi e psicoterapia: l’adolescente fra contesti naturali e contesti terapeutici” Firenze, 18-19 ottobre 2002v D. Offer, M. Sabshin (1990) I modelli dello sviluppo normale, Adolescenza, vol.1, n°1
v D. Offer (1997) Lo sviluppo adolescenziale: una prospettiva normativa in S.I. Greenspan e G.H. Pollock Adolescenza, Borla, Roma
v E. Peterfreund (1978) Some critical comments on psychoanalytic conceptualization of infancy, Int. J. Psycho-Anal., 59, 427-441
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v M. Shane, E. Shane, M. Gales (2000) Attaccamenti intimi, Astrolabio, Roma
v D. N. Stern (1987) Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino

Fabio Vanni
‘Spazio Giovani’ – Ausl ParmaVia Melloni, 1b
43100 Parma

 

Note


[1]  Ciò peraltro in attesa di poter rendere materiale l’immaterialità della psiche stessa.

[2]Secondo la mitologia esistente nel nostro campo, lo sviluppo deviante è più complesso, interessante ed ha un numero maggiore di modelli diversi (diagnosi) rispetto allo sviluppo normale. Ma, da dove proviene questa mitologia?

Per prima cosa, è evidente che la relativa mancanza di studi sulle popolazioni normali ha fatto prevalere l’idea che queste persone siano soprattutto un gruppo omogeneo che non necessita di molte indagini.

Accomunata a questa idea vi è l’altra che le persone con una psicopatologia esibiscano un comportamento molto più incostante e mostrino una straordinaria varianza in ogni tipo di variabile del comportamento. Si presume che le persone normali, mostrando meno variazioni, siano molto più simili le une alle altre.

In secondo luogo, è chiaro che molti, seguendo l’esempio di Dostoevskij, considerano la persona normale come non interessante, noiosa e monotona. (….) E’ come se il mondo fosse composto da un’élite di persone eccitanti e completamente diverse dalla gente comune o normale”. (D. Offer e M. Sabshin, 1990)

 

[3] Qualcosa di analogo avviene anche nell’infanzia, dove anzi una moderna cultura ispirata dalla psicologia dello sviluppo ha fatto breccia da più tempo.

[4] “Amarsi nel 2000”, “Insieme con voi ma anche da solo”, “Le parole dell’adolescente”, “Essere figli, che fatica!”, “Ma che mondo ci state preparando!?”, sono solo alcuni dei temi degli ultimi anni.