Non importa se è sul fondo del mare

di Amelia Bacchi

Prima di andare in ospedale vivevo nel mio mondo di percezioni intense, di desideri impetuosi e impossibili, con l’ossessione del dottore che stava dilagando verso un nuovo tipo di follia, e mi ritrovai a desiderare una sola cosa: vivere e realizzare tutto quel mio caotico ed indifferenziato mondo interiore, tormentato e confuso, eppure così brillanteai miei occhi, come per seguire una luce che non si sa da dove arrivi ma è così intensa che l’unica possibilità è andarle incontro, dovunque sia, anche perché è l’unica luce che si vede; non importa se è sul fondo del mare o in un abisso: bisogna raggiungerla perché è l’unica possibilità di vita in mezzo ad un marasma assoluto e non importa, non importa se poi si scopre che la luce era solo il cuore del marasma, della follia, della scomposizione e frammentazione della mente, il centro del raduno dei fantasmi divenuti tangibili e delle persone divenute fantasmi: non importa, non importa quali sono i sogni e dov’è la verità, perché in fondo la verità non è da nessuna parte e tutta la mia vita è solo una serie innumerevole di sogni, così, per persone come me, è solo a quella luce abbacinante che si può arrivare.

Nel periodo precedente al mio appetito di farmaci, alla mia overdose di terapia, la mia era un’esistenza strana: i giorni si ripetevano sempre uguali, il silenzio scandiva un tempo che era solo mio, che si apriva vorticoso verso il vuoto o si raccoglieva in frammenti tremanti di sensazioni;  poi, di colpo, qualcosa faceva irruzione fra i miei pensieri invadendo gli spazi vuoti: erano i miei desideri prorompenti, i fantasmi con i quali dovevo convivere, i fatti immaginari dei quali mi nutrivo. La forza delle mie percezioni era tale che sapevo evocare i personaggi del mio mondo, nutrirmi di sensazioni, avvertire come assoluta la verità delle mie immagini rispetto alle quali la realtà concreta svaniva. Nella confusione psicotica di quei giorni sono ancora tanti i misteri per i quali non trovo spiegazione e che ora, dal silenzio della mia vita tranquilla, preferisco non cercare più di risolvere. So soltanto che i miei bisogni inarrestabili e visionari mi spingevano a cercare entità che condividessero la mia vita interiore, il nucleo vorticante della mia personalità difficile e smembrata: facevo apparire figure a tratti estatiche, ma che spesso si trasformavano nei miei incubi peggiori. Erano così forti i miei bisogni malati, così disperati  che a volte entravo senza saperlo nel pericoloso territorio del reale; allora apparivano i personaggi, ed erano tangibili, corrispondevano alle mie idee, li potevo toccare. E li toccavo, di solito, ed ero così felice di averli trovati, di averli chiamati, di averli scoperti proprio uguali ai personaggi della mia anima. Non erano uguali, ma questo lo capivo dopo, erano solo immagini reali in cui trasferivo le mie fantasie; erano le immagini speculari e concrete dei miei desideri: erano i fantasmi reali che uscivano dagli anfratti della mia mente. Eppure io li amavo e li toccavo, finché non mi accorgevo che in realtà non volevo toccarli, ma era troppo tardi. Io avevo compiuto un lungo viaggio dalla mia mente fino alla loro, davo loro la mia anima e aspettavo che qualcuno la prendesse, sacrificavo tutto per l’intensità assoluta di un rapporto che non ebbi mai: la loro anima, quella che io avevo intravisto, si allontanava ed io restavo sola con i miei brandelli, sentendo lacerarsi dentro qualcosa che non avrei integrato mai più. Da quel momento avevo una ferita in più nella mia mente e un fantasma in più con cui parlare, sul quale costruire le mie immagini. Un giorno immagini e realtà sconfinarono più del solito dai loro regni: dimenticai la vita reale e scappai con un fantasma improvvisamente divenuto di carne e sangue. La mia mente non poté reggere all’impatto con tale disparità: i due mondi si mostrarono a me affiancati, con sorrisi feroci di scherno, gli occhi fiammeggianti, braccia e gambe danzanti con movimenti convulsi, le bocche spalancate, le lingue come serpenti e il grido innaturale che usciva dalle loro gole. Stavano ridendo di me, stavano mostrandomi, implacabili, la menzogna che si celava in loro. E io non sapevo dove finiva la mia allucinazione e dove cominciava la realtà tenebrosa e sconvolgente, sotterranea e spaventosa  alla quale avevo preso parte. Così capii la trappola che si celava nei miei mondi, nessuno dei quali era vero. Eppure li avevo percorsi, ero entrata in loro, avevo ancora in me i volti che avevo indossato lungo quei percorsi. Mi disperai perché nulla di tutto questo mi apparteneva eppure forse, per qualche perverso sistema della mia mente, io a tratti appartenevo a loro. Per non impazzire decisi di smettere di guardarli, ma erano sempre lì, anche quando chiudevo gli occhi, i volti lividi e le labbra tumefatte. Occorsero quei troppi neurolettici per cacciarli dalla mente. E solo per poco.

Non sono mai stata capace di esistere in una qualsiasi realtà: il quotidiano e il suo vuoto mi soverchiavano, sapevo solo immaginare ed ero finita a cercare aiuto nel fango e nell’abiezione, nei comportamenti ossessivi, attraverso fughe dalla realtà, nel tentativo di scoprire, con il vino e l’euforia, con una istintualità che mi abbagliava, una parte di me che non fosse vittima della depressione, ma che mi fece perdere il senno e il senso delle cose, facendomi scoprire il lato oscuro che non controllavo e che mi portò alla disperazione. Questa è stata la mia vita, solo questa. Ero talmente sconvolta, c’era un tale tormento dentro di me e non riuscivo ad accettare che tanta bontà fosse stata infangata dalle mie crisi depressive o maniacali. Ma non potevo cambiare nulla con la volontà. Dentro di me innumerevoli fantasmi si sono sempre agitati rendendomi impossibile la vita; ho sempre vissuto esistenze parallele che si alternavano in me costringendomi a comportamenti diversi e opposti fra loro. E ogni volta sono caduta, e ogni volta ho perso qualcosa di molto importante. Ogni sforzo per non pensarci è inutile. Ora resto attonita; l’amore e il dolore e gli sbagli sono a tal punto confusi che il mio pensiero si annebbia e io sono piena di paura. Raccolgo il ricordo e l’amore e accetto la mia incapacità a vivere e il vuoto che porto dentro. Resto immobile e molto stanca. Per me la vita non avrebbe mai dovuto scorrere: avrebbe dovuto fermarsi, statica, agli attimi di estasi, di perfezione, di totalità e di assoluto, di simbiosi eterna. L’incedere logora il cuore, annebbia la mente. Non sono fatta per vivere. Non sapevo come mettere fine al vuoto che ancora una volta avevo incontrato e che mi soffocava, mi impediva di capire; c’erano tante altre cose oltre la realtà che cercavo di vivere e che volevo vivere: c’erano sensazioni strane, ambigue, indomabili, sensazioni di morte interiore, di distacco da ciò che avevo intorno e che vedevo, comprese le persone; c’erano i pensieri che non sapevo fissare dentro la mente, che non dominavo, che mi soverchiavano senza che li potessi capire. C’erano troppe cose nella mia testa, e io ero pericolosamente vicina alla morte, perché niente è reale o possibile per le persone come me: non lo è la realtà, ma non lo sono nemmeno i sogni, quelle idee disperate che mi logoravano la mente insinuandosi nella mia vita, imponendo al mio pensiero ritmi frenetici; i desideri e gli spettri con i quali ero costretta a vivere, quelle visioni interiori con le quali dovevo parlare ad ogni costo, senza riuscire mai a vanire a patti con loro, a trovare un equilibrio, diventavano loro la mia unica realtà, e tutta la mia interiorità era sovvertita e io cadevo in una strana morte dell’anima, ancora più spaventosa di quella data dalla depressione. In entrambi i casi, comunque, si è perduti, stranieri a tutto, ad ogni mondo, ad ogni vita.

In quegli ultimi giorni della mia vita prima dell’ospedale la realtà mi si apriva davanti come un abisso: io non sapevo chi fossi, non lo avevo mai saputo, non sapevo quale fosse la mia personalità e in quei giorni tutto si sovrapponeva come in un caleidoscopio troppo veloce: la realtà, ogni realtà della mia mente fluttuava attorno a me e non avevo alcun punto di riferimento. C’era un desiderio smodato di affetto che sfuggiva al mio controllo e mi faceva paura: le regole della mia vita erano saltate in aria e io cominciai a vivere in un mondo fittizio, lacerato e violento, che mi affascinava per la sua tortuosità totalizzante, per i bagliori che metteva nel mio spirito, per la tensione che portava alla mia ricerca mentale di assoluto, di un nucleo fuori dalla realtà dove poter far rifugiare la mia anima. Ma quello non era un rifugio, scoprii più tardi, era solo la bocca del mio inferno. Nella realtà non riuscivo più a stare, e l’universo era senza Dio. Ero certa di essere sul punto di trovare un livello superiore di esistenza, ma in verità stavo solo regredendo, vivendo d’istinto, consumandomi nell’attimo vissuto come in un sogno e nell’impulsività mentre tutte le altre funzioni si stavano necrotizzando e morivano lentamente. Ero infiammata e visionaria, piena di immaginazioni che mi travolgevano e che non potevo fermare, di agitazione, di euforia; compivo azioni estreme e desideravo tutto: affinità, amore, intimità assoluta, volevo viaggiare ovunque, volevo sempre parlare, parlare e amare e ascoltare, dire parole eterne e sentirmi amata con una pienezza di morte. Non dormivo, i pensieri erano troppo forti, come fuoco vivo, fino a farmi stare male, male da morire. Quando non ero preda di tutto questo dormivo, mi avvolgevo la testa nel lenzuolo al punto da non respirare e la mente si svuotava: d’improvviso c’era un gelo di morte e un vuoto assoluto come se fossi caduta nel fondo di un pozzo. Allora non volevo mai svegliarmi, non avrei voluto svegliarmi mai più. Ma ormai avevo evocato i demoni e loro si presentarono puntualmente alla mia porta; io non li volevo più, ero stanca e volevo morire e non volevo più quella follia, ma loro erano lì, li avevo chiamati io e non potevo più tornare indietro: non si patteggia con i demoni, ti prendono anche se non vuoi, e così fecero con me. Finsi di non averli visti, tornai a letto, ma non si sfugge ai demoni e fui smascherata.

Un tempo mi capitava di amare, ma era sempre tutto così contorto e sbagliato e sofferto che ora non riesco nemmeno a pensare di poter vivere con l’intensità di allora: credo che ne morirei. Sapevo amare solo in modo assoluto, e questo comportava una fatica immensa, anche per il motivo non trascurabile che gli altri non amavano me, soprattutto non in quel modo assoluto. Scrivevo ininterrottamente per fermare gli istanti eterni e l’intensità che provavo ed ero sempre sul punto di svenire per l’incapacità di contenere tutta quella forza: i pensieri erano così tanti che si sovrapponevano e io non riuscivo a scriverli o a dirli e nemmeno ad ordinarli dentro di me, come se fossi investita da un’illuminazione fortissima, da un vortice e da un’ondata di sensazioni, consapevolezze e verità impossibili da definire; perciò non riuscivo mai a stare calma, era tutto troppo forte, troppo pieno di immagini, di frasi, di percezioni che, se non avessi annotato, avrei perduto per sempre. Così mi svegliavo nel cuore della notte e scrivevo l’ultimo pensiero fulmineo che avevo ricevuto, perché era questione di vita o di morte; sentivo che la mente si spaccava e provavo cose che nessuno avrebbe mai avvertito, era come stare nel centro di una stella, vicino ai frammenti incandescenti di un nucleo vorticoso; aspettavo la ricostruzione della mente e la consapevolezza di ciò che avevo acquisito e che sarebbe stato mio per sempre, ma non venne mai nessuna ricomposizione, nessun raccoglimento, nessuna quiete; le immagini entravano e uscivano da me e, malgrado cercassi di scrivere o di riferire tutto non riuscii mai a fare veramente mie quelle percezioni così totalizzanti e assolute e questo mi faceva diventare sempre più disperata. Il mio disturbo borderline e bipolare era implacabile e non mi dava mai tregua.

 

 

 

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