L’accoglienza e l’ascolto dell’adolescente

di Leonardo Angelini

 

Il social worker, l’accoglienza e l’ascolto dell’adolescente

 

Il termine “ascolto”, con le sue ascendenze che riconducono al latino “auris” = ‘orecchio’, implica l’allenamento all’esercizio della facoltà auditiva, cioè all’affinamento della propensione all’uso di uno strumento sensoriale, l’orecchio, che immediatamente ci riconduce ad una situazione di passività e di ricettività.

Mentre il termine ‘accogliere’, con i suoi rimandi all’azione del “legare qualcuno a sé”, ci riconduce ad una condizione, più attiva, di impossessamento e di seduzione.

Ed infine i due termini ‘adolescente’ e social worker  ci riportano all’oggetto ed al soggetto della nostra riflessione odierna e connotano, da una parte, (adolescens = “che si sta nutrendo”) una condizione di non perfetta maturità (mentre l’adulto è, letteralmente, colui che si è già nutrito e perciò già maturo) dall’altra noi stessi e cioè un insieme magmatico di professioni, di tradizioni, di protocolli di accoglienza e di ascolto, ma anche di attese, di emozioni e di linguaggi personali, etc. che viene complicato – come vedremo – dal tipo di rappresentazione sociale dell’adolescenza imperante nella comunità interpretante di cui ciascuno di noi fa parte.

E, nell’affrontare il tema dell’accoglienza e dell’ascolto, partiremo proprio da questi due ultimi elementi, il soggetto e l’oggetto dell’accoglienza e dell’ascolto: noi e loro.

 

Noi e loro

Vorrei partire con un esempio: in una piccola frazione di un paese dell’Appennino reggiano in questi giorni una comunità di tossicodipendenti fracassoni che 18 anni fa si era insediata lì è stata sfrattata dagli amministratori sollecitati dalla popolazione esasperata. Non voglio parlare qui delle responsabilità della dirigenza di questa comunità nell’avere sottovalutato nell’ultimo periodo i problemi derivanti dalla convivenza di due comunità difficili  (i giovani tossico e gli abitanti della frazione) e dell’agire impulsivo degli amministratori locali che hanno scacciato i giovani (agire impulsivo – sia detto tra parentesi – simmetrico all’impulsività giovanile). Voglio commentare il fatto che la stessa comunità interpretante l’adolescenza reggiana, fatta di tecnici e di social worker della tossicodipendenza, nonché di amministratori da loro ammaestrati, che negli ultimi 15 anni ha venduto i giovani ai cittadini come alieni, lontani da noi, oziosi e indecifrabili, oggi improvvisamente si erge contro i cittadini di Montalto e li rimprovera di non vedere in quei giovani dei “poveri cristi” bisognosi di comprensione e di cura anche da parte della cittadinanza.

E voglio dire che ciò che i contadini di Montalto – come del resto anche i più smaliziati cittadini di Reggio – riescono a vedere ed a comprendere dei giovani è fortemente intriso dai postulati delle rappresentazioni sociali dell’adolescenza attualmente imperanti nel territorio reggiano, e cioè da quell’insieme di immagini, socialmente condivise, sui giovani che sono il risultato delle ipotesi che su di essi, a partire dalla esperienza concreta, tutti noi facciamo nella pratica di convivenza quotidiana con essi e che proprio la comunità interpretante costituita dai social worker contribuisce a solidificare e a diffondere.

Insomma, se i cittadini di Montalto potessero mettere in parola il loro disagio e il loro sconcerto di fronte a chi oggi si strappa le vesti per la loro presunta insensibilità, forse direbbero: “Ma come! prima ci venite a dire per anni che sono diversissimi da noi e poi ci accusate di non riuscire a vedere in loro il nostro prossimo, il povero cristo che ha bisogno di aiuto ed in cui identificarsi!”

Quest’esempio per dire che la prima cosa che a mio avviso occorre fare prima di decidersi come social worker per l’accoglienza e l’ascolto è chiederci: a quale comunità interpretante noi facciamo capo? qual è l’immagine di adolescenza in essa imperante? che margine di interpretazione personale e critica in concreto ho io, singolo social worker, singolo comparto dei social worker del mio territorio, rispetto ad essa?

In secondo luogo quel ‘noi’ è una allocuzione che sottintende “noi adulti”, noi che una volta avevamo bisogno come loro di nutrirci per crescere e per maturare, ma che ora siamo adulti, cioè già maturi. Ed in questo scarto sui livelli di maturazione fra noi e loro c’è il secondo elemento, inerente il ‘noi’, quello più personale, che entra in campo: infatti per noi “di una certa età” i giovani rappresentano la nostra adolescenza, quella che ora, se non ci è stata scippata da qualche accidente occorsoci nell’esperienza successiva, è solo nei nostri cuori. Sulla base di questo possibile rispecchiamento nasce dentro di noi una propensione a fletterci verso di loro ed a riflettere su di loro. E’ in base a questa identificazione che per noi è possibile (anche se non sempre facile) dire: “Scopri l’adolescente che c’è in te”. Il nostro lavoro ed il nostro impegno infatti ci sospinge verso di essi e direi ci impone un rispecchiamento che ci dà molti vantaggi e molti dolori.

I vantaggi sono nel fatto che la convivenza con i giovani ci mantiene giovani e che su questa base spesso si definisce in noi una specie di opzione in favore dell’immortalità, che ci aiuta a vincere molte angosce legate al trascorrere del tempo ed all’età che avanza.

Gli svantaggi sono tanti; ne cito due: – innanzitutto stare a lungo presso i giovani in una posizione di potere e di squilibrio (e ancor di più forse insieme ai bambini piccoli) risulta usurante poiché molte sono tentazioni che derivano dall’uso e dall’abuso del nostro potere di adulti nei loro confronti. Potere di tipo selettivo, seduttivo, prescrittivo, etc., potere che si esprime anche nei momenti dell’ascolto e dell’accoglienza; in secondo luogo è vero che i social worker dell’età evolutiva rimangono giovani, ma questa condizione viene facilmente scambiata con un attestato di immaturità (ad es. dagli amministratori) che spesso, in base a questo equivoco, finiscono col non prenderci sul serio.

 

L’ascolto e l’accoglienza dentro ciascuno di noi

Dicevamo prima che l’ascolto implica da parte nostra l’assunzione di un atteggiamento passivo e ricettivo, mentre l’accoglienza ci riconduce ad istanze di seduzione che comportano, al contrario, l’assunzione di una parte più attiva. Ciò per ciascuno di noi, ed anche – come vedremo fra un po’ – per ciascun gruppo di lavoro, implica l’instaurarsi di una dialettica interna fra passività ed attività, fra ricezione e concezione, fra capacità di cogliere la natura della domanda di cura dell’adolescente e la complementare capacità di approntare risposte adeguate a queste specifiche esigenze di cura. Dialettica interna che è gravida di significati.

Vediamo per ora ciò che accade nel singolo social worker. L’esercizio dell’ascolto dei giovani comporta – lo dicevamo prima – in ciascuno di noi l’innesco di un processo di identificazione, di una istanza di rispecchiamento in base alla quale l’adolescente che è di fronte a noi evoca quello che è dentro di noi. Da questo processo di rispecchiamento, come sappiamo, emerge una domanda: “Con quali parti di me lo sto ascoltando, lo sto osservando?”, una domanda (spero adesso sia più chiaro) che parte da un incontro che evoca grandi passioni e che perciò innesca un atteggiamento ricettivo che solo un osservatore disattento potrebbe scambiare per fiacca passività. La ricezione infatti implica la presenza in noi di una attitudine che ci permette di rimanere  impressionati da loro, prima ancora che loro lo siano di noi. Perché solo lasciandoci impressionare da loro, lasciandoci contaminare dal loro essere, dai loro bisogni attuali di crescita e di maturazione, dal loro linguaggio (verbale e non verbale) noi, in un secondo momento più attivo, potremo poi impressionarli con la nostra parola. E’ per questo che è importante comprendere con quali parti di noi li stiamo ascoltando: col nostro cuore, forse? Con la nostra mente razionale? Con le nostre parti superegoiche e giudicanti? Con le nostre parti più narcisistiche? Con le nostre parti più intuitive? con quelle ideali? E ancora: è il nostro un ascolto freddo e distante? Oppure uno attento e trepido? E’ il nostro un ascolto curioso o disattento, è ansioso e preoccupato o impudico e impiccione? Etc. etc.-

A questa domanda ne segue poi un’altra: secondo quali modalità ci poniamo all’ascolto: secondo modalità ossessive (cioè, ad es. riempiendo la distanza che c’è fra noi e loro ponendo in mezzo quintali di test)? oppure  quello un po’ isterico con cui oggi ci approcciamo solitamente con loro in classe? Con modalità narcisistiche, cioè rendendo il nostro orecchio ricettivo solo a ciò che vorremmo ascoltare, oppure osando andare verso di loro come ad un incontro con una alterità che ci arricchisce? Perché ciò che ascolteremo realmente, così come ciò che non vorremo ascoltare o censureremo dipende molto da come rispondiamo a queste domande.

L’esercizio dell’accoglienza, di conseguenza, nel rapporto fra singolo social worker e l’adolescente di cui egli si prende cura poggia su questo primo momento dell’ascolto, sul suo affinamento nell’ambito di appositi training e supervisioni, sulla crescente capacità – che è uno dei frutti di quell’affinamento – di elaborare un dialogo fra social worker e giovane.

Dialogo mirante non ad occupare il giovane e a manipolarlo, bensì: – a spingerlo verso una più ampia comprensione e a un miglior uso di sé (psicoterapeuta); – a trovare la strada che conduce verso opportune cure ambientali adatte ad esso (assistente sociale); – a scoprire le sue vocazioni (docente), etc. –

E’ per questo che ci sottoponiamo a reiterati training: per affinare le nostre capacità ricettive e per rendere più acuta ed ampia la nostra capacità di rispecchiamento a partire dalla quale poi si definirà l’esercizio attivo dell’accoglienza, che – come abbiamo appena cercato di dimostrare – per ognuno di noi non è altro che la nostra capacità umana e tecnica di dialogare con essi, di insegnargli l’arte dell’osservazione del loro mondo interno, di aiutarli a trovare in loro le strade della crescita e della maturazione. E soprattutto di prendere da essi la giusta distanza: né molto lontano nelle lande gelate della fredda manipolazione, né molto vicino nelle sabbie mobili dell’identificazione totale, ma sul piano dell’identificazione operativa, che  mette al sicuro l’accoglienza sia dagli eccessi della seduttività sia dal difetto dell’istanza identificatoria. E tutto ciò riusciamo a farlo secondo modalità di apprendimento dei nostri mestieri di cura che sono basate sulla supervisione che, a ben vedere, ancora una volta non è altro che un allenamento alla dialettica fra ascolto e accoglienza in cui apprendiamo le nostre tecniche di ascolto e di accoglienza e cerchiamo di applicarle, in maniera magari un po’ didascalica all’inizio della nostra carriera, in maniera più individualizzata allorché con la crescita e la maturazione riusciamo a farle nostre diventando, come diceva un mio didatta, quasi degli analfabeti di ritorno.

Infine una nota sugli strumenti: i nostri uffici, i nostri ambulatori sono spogli come un tempio greco di quelli precedenti all’arrivo nella teogonia greca dei grandi e pretenziosi dei dell’Olimpo, di quelli cioè che, come ci dimostrano gli scavi archeologici, erano tipici della preistoria greca in cui la teogonia di quella terra era basata sul culto della Grande Madre e che coincidevano solo con uno spazio recintato e disadorno, ma non perciò meno sacro di quello marmoreo e crisoelefantino che verrà poi. Nel nostro caso mancano attrezzature strumentali costose ed informatizzate, ma penso che tutti noi siamo d’accordo nel dire che sbaglierebbe chi, a partire da questa assenza nei nostri uffici e nei nostri ambulatori di una strumentazione altamente tecnologizzata, concludesse che il lavoro del social worker richiede un uso tecnologia di grado basso: poiché il bagaglio tecnologico del social worker è dentro ciascuno di noi, nella nostre capacità di ascoltare e di rispondere ai bisogni, che apprendiamo, come dicevamo prima, nei luoghi del counselling e della supervisione e che lentamente sedimentiamo e agglutiniamo dentro di noi come un bagaglio che richiede un’alta competenza professionale, oltre che una grande disposizione sul piano umano.

 

L’ascolto e l’accoglienza nei gruppi di lavoro

La dialettica fra ascolto ed accoglienza è ancora più evidente nel caso in cui l’oggetto della nostra attenzione, più che il singolo, è il gruppo di lavoro in cui operiamo, la sua capacità di leggere i bisogni che emergono dai giovani che abitano il territorio, la sua attitudine a predisporre momenti di accoglienza e di cura puntuali ed efficaci.

Come sanno bene gli operatori della scuola per fare un programma, se non ci si limita a scimmiottare programmi predefiniti e cellofanati,  occorre prima di tutto conoscere quali siano i bisogni che provengono da coloro cui  ci si intende rivolgere. Nel caso del docente la domanda iniziale è: cosa vuole sentirsi dire da me la mia classe attuale: non una ipotetica e astratta classe, ma quella che ora ho di fronte a me. E la risposta va trovata in una osservazione, in un ascolto dei bisogni formativi attuali, concreti di quella classe.

Nello stesso identico modo nel nostro caso un servizio di consulenza giovanile dovrà chiedersi, se non vuol parlare alle stelle: “quali sono i bisogni attuali dei giovani che vivono nel nostro territorio?” Deve cioè fare un’inchiesta volta a raccogliere la domanda. E questo atteggiamento osservativo per un gruppo di lavoro è l’equivalente di ciò che sul piano individuale è l’ascolto.

Faccio un esempio: i giovani dell’epoca della globalizzazione, i giovani d’oggi vivono una condizione nuova nei confronti della formazione e del lavoro che comporta una trasformazione per certi versi radicale delle loro attese e dei loro comportamenti, anche rispetto alla generazione precedente. Siamo cioè di fronte ad un nuovo modello di adultizzazione, molto pervasivo che si va diffondendo velocissimamente in tutta la metropoli postindustriale e che potremmo così riassumere: – ingresso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso le varie forme di lavoro atipico; – loro permanenza in una situazione di precariato per un periodo più o meno lungo a seconda del settore di occupazione, delle caratteristiche del ciclo economico, etc.; ; – loro accresciute esigenze rispetto alla generazione precedente sul piano formativo – conseguente loro permanenza nella famiglia d’origine (o in  una situazione di dipendenza economica da essa) per un periodo sempre più lungo rispetto alla generazione precedente.

Ciò comporta l’assunzione di un atteggiamento nei confronti del futuro, del lavoro, di se stessi, della convivenza fra generazioni, dell’autostima,  etc etc , che ci deve spingere in primo luogo a porci – come social worker, ma soprattutto come servizi, come amministrazioni – una serie domande, che significa ascolto e, in un secondo tempo,  a dare delle risposte, che significa predisporre nuove modalità di accoglienza, prendere atto dell’esistenza di una nuova domanda che implica un’esigenza di rimodulazione dei servizi.

Ad esempio, ci possiamo permettere di fare dei ghirigori sull’educazione sessuale e contemporaneamente di non prendere in considerazione in maniera adeguata l’orientamento post-obbligo e post-diploma? Possiamo investire sulle risposte sintomatiche e non curare la prevenzione del sintomo? Possiamo permetterci di continuare a non prendere in considerazione il fatto che il passaggio all’età adulta comporta in tutte le società, anche nelle più semplici, che una parte della comunità degli adulti si attivi e si rifornisca di sacerdoti del passaggio che accompagnino e diano senso al passaggio stesso, mentre noi non li abbiamo, proprio nel mentre ci troviamo di fronte ad un passaggio lunghissimo, che fra un po’ avrà gli anni di Nestore e di Priamo, in cui è molto più facile perdersi? Eccetera.

Ascolto quindi e conseguente modifica e adattamento ai bisogni attuali dei giovani delle modalità secondo le quali inventiamo (ecco il concepire che è di fronte al percepire)  ed adattiamo i nostri punti di accoglienza.

Lungo questo percorso, che è infinito perché infinite e cangianti sono le modalità di vita ed i modelli di adultizzazione, specialmente all’interno di società dinamiche come la nostra, vorrei in conclusione sottolineare un punto che io vedo come strettamente legato all’attività collettiva di ascolto e di accoglienza di cui sopra e che potremmo definire l’esigenza di rendere complementari i punti  di accoglienza, sia quelli che si sono istituiti nel tempo all’interno delle strutture pubbliche, sia quelli che vanno nascendo all’interno del privato no profit e profit. Il che implica la definizione di punti osservazione e di ascolto comuni, senza pretese egemoniche da parte di nessuno, di punti di discussione delle priorità e delle urgenze, ma soprattutto l’esigenza di pensare e programmare le risposte in modo tale che il territorio alla fine risulti sempre più ricco ed innervato di punti di accoglienza flessibili e complementari, evitando le sovrapposizioni, i doppioni e le inutili concorrenzialità. In un’epoca di risorse decrescenti per il welfare penso che questo obiettivo sia decisivo per la permanenza sul territorio di un insieme di servizi per  i giovani che li accompagni durante il processo maturativo.

 

 

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