Il labirinto: simboli, forme e rappresentazioni di un mito

di Marta Superbi, M. Cristina Butti

Nel labirinto non ci si perde

Nel labirinto ci si trova

Nel labirinto non si incontra il Minotauro

Nel labirinto si incontra se stessi

H. Kern

 

Ciascuno di noi costruisce il proprio labirinto. Incontrando numerosi ostacoli nel corso della vita e tentando di superarli, non facciamo altro che iniziare un percorso di crescita entrando e uscendo di continuo da labirinti quotidiani. Il messaggio iniziatico del labirinto è presente in ogni istante del nostro vivere: l’iniziazione con il suo carico simbolico è la chiave per comprendere questo tema, e vuol dire rinascere una volta raggiunta l’uscita, dopo aver superato una sorta di simbolica morte temporanea. Ma, tra i molti interrogativi che possiamo porci, uno merita particolare attenzione: qual è l’uscita del labirinto?

Scopriamo che questo mondo è, con il suo caos, il risultato di un processo mentale che viene da lontano, dal passato remoto. Il centro di questo meccanismo è situato a Creta, nel secolo II a.C., nel Tempio di Cnosso, un luogo denso di contenuti misterici. Pensando a Cnosso evochiamo subito il labirinto come forma simbolica perché rappresenta un vero e proprio mito: è il labirinto onirico che si traduce in realtà perduta nei secoli e in archetipo dell’architettura intricata creata dall’uomo. Come un sogno del passato, Cnosso è la conseguenza dell’inconscio umano che ragiona “labirinticamente”. E, d’altra parte, il dedalo è una forma primaria della mente, un contenuto celebrale. Il labirinto è “un’idea” che, solo in un secondo momento, prende forma estetica attraverso la materia: è il percorso dell’uomo che insegue la conoscenza. Il dedalo è, dunque, la vita stessa.

Il mito greco del labirinto e del Minotauro di Cnosso si colloca tra la leggenda e l’allegoria, non è quindi un racconto verosimile ma evoca comunque figure e situazioni elevabili a simboli carichi di significato. Non abbiamo a che fare con una storia già conclusa ma con un simbolo che conserva ancor oggi la sua efficacia, cosa che influisce naturalmente anche sulla nostra visione. C’è una connessione cruciale tra i miti arcaici e i simboli prodotti dall’inconscio: ciò consente di identificare e di interpretare questi simboli in un contesto che conferisce loro prospettiva storica non meno che significato psicologico. La mente inconscia dell’uomo moderno conserva tuttora quella capacità simboleggiatrice che un tempo trovava espressione nelle credenze e nei rituali primitivi: e tale capacità svolge ancora un ruolo di vitale importanza psichica. La tradizione ellenica narra che Pasifae moglie del sovrano di Creta Minasse si invaghì , istigata da Poseidone, di un meraviglioso toro bianco e confessatolo a Dedalo, riuscì ad essere posseduta dal magnifico animale accovacciandosi all’interno di una giovenca lignea, che il geniale forgiatore costruì per lei. Minasse, dopo che il frutto del connubio nacque, il Minotauro, un essere mostruoso dal corpo d’uomo e dal capo taurino, per nascondere l’onta agli abitanti dell’isola, commissionò al talentuoso artista la costruzione di un labirinto dove nessuno avrebbe potuto raggiungerli e poi tornare. Dedalo, iniziato da Atene a tutte le invenzioni dell’arte e dell’industria, costruì un palazzo a forma di labirinto: il labirinto di Crosso, che doveva essere un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte, luogo dove perdersi e da cui fosse impossibile uscire. Il figlio di Minosse Androgeo , giunse ad Atene per misurarsi con i giovani ateniesi nei giochi tauromachici, ma rimase ucciso dal toro di maratona. Il padre, pazzo di dolore, si strappò la corona dalla fronte accusando gli ateniesi di quell’omicidio. La morte di Androgeo doveva portare loro sfortuna e da lì in poi dovettero pagare un orribile tributo: ogni nove anni Minosse esigeva che mandassero a Creta sette giovani fanciulli e sette vergini, in sacrificio al Minotauro. Teseo,figlio del sovrano di Atene, per sciogliere la sua città dal sacrificio dei quattordici fanciulli di cui il Minotauro si cibava, si nascose fra loro per introdursi nel labirinto. Arrivato a Creta rimase abbagliato dalla bellezza di Arianna, figlia di Minosse, che gli procurò l’espediente per entrare e uscire dalle infinite vie abitate dal mostro. Teseo tramite un fuso, che lasciò all’entrata, riuscì a raggiungere il Minotauro, ucciderlo e uscire seguendo il filo che aveva srotolato dietro di sé. Teseo prese la via del ritorno con Arianna che aveva promesso di sposare dopo l’uccisione del mostro. Invece, l’abbandonò sull’isola di Naxos per lasciarla a Dioniso . Teseo proseguì in direzione di Delo, dove ballò una danza che imitava le sinuosità del labirinto. Nella confusione , si dimenticò di cambiare le vele nere con quelle bianche . Il padre Egeo vedendo quel segno di sventura si uccise gettandosi nel mare.    

L’avventura del labirinto ha un significato di morte simbolica, un viaggio nel mondo degli inferi, un viaggio nell’aldilà. La via verso l’interno simboleggia al tempo stesso anche la via verso il basso e l’uscita vittoriosa dal labirinto può essere paragonata al riemergere dalla superficie del mare. Teseo penetra da solo nel labirinto, sostiene la lotta col Minotauro, riesce anche a uscire dal labirinto mediante l’astuzia e la prudenza (filo di Arianna); superata questa prova diventa re e fondatore di città.

Nel labirinto si nota una materializzazione pressoché perfetta del processo di iniziazione. Al centro del labirinto, l’ iniziando è solo con la sua realtà interiore, vi incontra se stesso, un principio divino, un Minotauro o qualsiasi altra cosa possa essere rappresentata da un “centro”. In ogni caso con il centro si intendono anche il luogo e la possibilità di una conoscenza così fondamentale da richiedere un mutamento di direzione radicale. Chi vuole tornare fuori dal labirinto, deve fare dietrofront e ripercorrere i suoi passi. Un mutamento di direzione significa il massimo allontanamento possibile dal proprio passato. L’inversione del moto al centro non significa perciò solo la rinuncia all’esistenza passata, ma anche un nuovo inizio. Chi esce dal labirinto, ne esce non come il vecchio, ma come rinato in una nuova fase o piano dell’esistenza. Al centro hanno luogo la morte e la rinascita. La via verso il centro del labirinto simboleggia la via verso il mondo sotterraneo, dove il ritorno alla madre Terra è connesso con la speranza di una rinascita. Il dedalo sembra assumere la forma di uno scambio simbolico in cui la morte e la vita sono lo sdoppiamento di una stessa realtà.

Il gioco del labirinto ha un significato rituale: serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose. E’ un percorso in due tempi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero costituiscono la prima parte, in cui gli attori del gioco sperimentano la perdita di sé. Il ritorno alla luce rappresenta una nuova nascita, attesta la continuità della vita, che di generazione in generazione rinnova se stessa. Il “cuore” del labirinto assomiglia a un utero materno e il filo di Arianna ad un cordone ombelicale. Il Minotauro è un embrione, un germoglio  nel ventre della madre: ombra inquietante di possibilità inespresse, con cui, ciascuno è chiamato a confrontarsi.

Nella mitologia dunque ritroviamo il toro in veste di Minotauro, al centro del labirinto: il Minotauro è la versione negativa del toro, suggestiva rappresentazione del male da sconfiggere per superare la prova, per raggiungere uno status superiore, per procedere all’iniziazione. Il toro è al centro del dedalo e viene sacrificato: con il suo sangue genera vita e prosperità e scaccia via il negativo temuto tanto nel passato quanto nel presente. Il toro rappresenta, forse, la nostra stessa immagine al negativo, l’alter ego malefico di ciascuno di noi. Jung parla del Minotauro come dell’archetipo dell’immagine materna divorante e del percorso dell’anima verso l’equilibrio del proprio sé: esso è nella maggior parte dei casi espressione della brutalità, dell’istintualità irrazionale che non conosce morale , della violenza al di là del bene e del male. Il labirinto permette, attraverso la nostra guida, Arianna, di ritornare a tale componente di noi stessi, di prenderne atto, di rielaborarla per giungere ad un nuovo equilibrio. Noi stessi siamo artefici, cause efficienti della costruzione del dedalo al fine di isolare in un serrato ambito le nostre soverchianti angosce. Il Minotauro sostituisce allora l’angoscia libera originaria e allorchè la situazione diviene costrittiva, claustrale e il soggetto non ha possibilità di fuga, la conseguenza può essere il panico. Infatti, per coloro che soffrono di attacchi di panico è fondamentale avere nel loro percorso, fuori da casa , dei punti di riferimento familiari che creano come un filo conduttore rassicurante rispetto al perdersi nel mondo.

Il labirinto può essere interpretato anche come il tentativo, vano, da parte di Minosse di mascherare le proprie incoerenze, ipocrisie: il Minotauro è la rappresentazione antinomica del lato umano di Minosse, mistificato da quello politico. Dentro il labirinto vive, metaforicamente, lo stesso Minosse, che non vuole rinunciare al sé alienato della sua vita privata, nonché alla finzione di una vita pubblica irreprensibile. Il mito del Minotauro è il tentativo di celare il fallimento della politica scissa dall’etica, e quindi è di fatto un mito istituzionalizzato. E’ la rappresentazione simbolica del definitivo passaggio da una forma sociale comunitaria-primitiva a una chiaramente schiavistica. Minosse si rifiuta di sacrificarlo perché antepone al sé collettivo il sé privato.L’uccisione del Minotauro non è che l’espressione di una impossibilità, quella di poter continuare a celare ai cittadini del regno la dicotomia tra leggi giuste e società ingiusta. E’ la presa di coscienza della debolezza intrinseca del potere, un colpo inferto alla sua apparente legalità e stabilità. Nell’intreccio del mito Minosse non avrebbe mai potuto uccidere il Minotauro, perché sarebbe stato come uccidere se stesso, cioè la coscienza alienata. Il Minotauro cerca di fuggire dal labirinto ma non può, perché il labirinto  è diventata la sua seconda casa, in cui può vivere la sua seconda natura.

Nel labirinto, nel rito iniziatico, non c’è puro amore e mera fratellanza, bensì alleanza e violenza. C’è sostanzialmente una struttura negativa da cui tutto discende. L’amore è il frutto proibito, al centro del dedalo, un episodio all’interno di una complessiva impalcatura che comunica violenza. L’amore è la rosa tanto agognata dall’uomo, l’irraggiungibile bellezza a cui il genere umano mira per riscattarsi. Così Arianna rappresenta molto di più di un’aiutante che dona un mezzo fatato (il filo) a Teseo, per condurlo sano e salvo all’uscita del labirinto. Arianna è la rosa del labirinto, l’amore stesso. L’uomo, immerso nella violenza, sempre la cerca, la vuole. Arianna è l’eterno segreto della vita, fonte indispensabile che allontana i fantasmi e le paure.

Una linea dunque unisce vari aspetti del labirinto e su di essa viaggiano i frammenti principali della concettualizzazione sul dedalo: il rito e il culto, la danza rituale, il sacrificio e l’iniziazione, l’amore e l’uscita dal labirinto. In tutte le civiltà il labirinto sta a rappresentare in una guisa contorta e confusa il mondo della coscienza patriarcale; esso può essere penetrato solo da coloro che siano preparati a ricevere una speciale iniziazione al mondo misterioso dell’inconscio collettivo. In particolare, la via della conoscenza interiore proposta dal simbolo del labirinto ha rappresentato lo spostamento di Creta dalla cultura matrilineare a quella patriarcale.

Dopo aver superato questa prova rischiosa, Teseo porta in salvo Arianna, una fanciulla in pericolo. Questo salvataggio simboleggia la liberazione della figura dell’Anima dall’aspetto divorante dell’immagine materna. Finché essa non si è realizzata l’uomo è incapace di entrare positivamente in rapporto con le altre donne.

L’esperienza del labirinto ci propone un processo di iniziazione che ci conduce  verso il Centro, dove siamo soli di fronte alla nostra realtà interiore per prenderne coscienza. Qui ci possiamo perdere , perché il labirinto è luogo di mascheramenti e d’intransitabili nostalgie. Dove la maschera è l’ennesimo, inesorabile, travestimento dello stesso nulla, dello stesso vuoto,  insondabile presenza e lontananza del mistero.

L’ARCHETIPO DEL LABIRINTO NELL’ARTE CONTEMPORANEA

L’emblema del labirinto è un tema che accompagna da sempre la storia dell’uomo, apparso in varie culture, epoche e luoghi della terra: un simbolo antichissimo che si manifesta attraverso una millenaria tradizione figurativa.

Sin dall’epoca in cui è nata la saga legata ai miti di Dedalo, di Teseo, di Arianna e del Minotauro nella leggendaria Creta del re Minosse, questa immagine è stata fonte di numerosissime citazioni letterarie e poetiche, nonché protagonista di una vastissima iconografia che, iniziando dal periodo preistorico (dal Neolitico), giunge fino al mondo contemporaneo.

La storia del labirinto è testimone di una notorietà che non è certamente dovuta al caso. In effetti, la forza primigenia profondamente radicata in sé ha permesso a questo segno iconografico di significare un’idea archetipica universale e assoluta. Il labirinto evidenzia cioè, nella sua stessa forma figurale, quell’itinerario mentale che ha accompagnato l’uomo nella storia e nel suo tortuoso cammino di conoscenza.

Il labirinto contemporaneo altro non è che l’idea del labirinto come opera d’arte. L’artista abita di diritto la realtà del linguaggio; egli è il solo a possedere l’astuzia e la tecnica necessarie per attraversare e sfidare tutti i suoi percorsi. Questo impegno è assunto dall’artista e viene praticato continuamente nel corso dell’opera al fine di giungere al centro, di accedere all’ambiguità dell’inconscio. Così come Teseo , munito della spada, del gomitolo, del filo, nonché del proprio coraggio, percorre i meandri del labirinto, uccide la bestia, portatrice di una doppia natura e infine riemerge alla luce.

Nel labirinto l’artista non ha bisogno dello sguardo del mondo, l’oscurità non è più assenza di luce bensì qualcosa di più tangibile, quasi palpabile, è una continua sperimentazione, è consapevolezza, disvelamento, è insomma la “verità irresistibile” dell’arte. In questa condizione, l’opera che l’artista contemporaneo crea è essa stessa un labirinto e, per analogia, costituisce l’irrazionale della ragione, lo scarto che mette a nudo la verità delle cose.

L’arte contemporanea vive dunque tutta sotto il segno del labirinto: essa, più che dare delle risposte propone delle domande, opera sulla verità, non si abbandona al tempo ma lo precede. L’arte pratica il labirinto, sentito come governato da un’erranza assoluta, un nomadismo che l’artista assume come modalità. . L’arte destruttura la sua mentalità tradizionale per accedere al mito, fonda un territorio magico, il luogo della totalità, diventa lo strumento che consente di aprire il reale verso relazioni inedite ed imprevedibili. I grandi cambiamenti culturali avvenuti all’inizio del ‘900 hanno prodotto un totale capovolgimento del punto di vista da cui osservare il mondo e le esperienze che lo abitano. Cadute le ultime certezze si rivela sempre più insufficiente una visione della realtà limitata agli aspetti fenomenici, ma si aprono nuovi labirinti ben più confusi e intricati. Il che implicherà, per questa ragione, una ristrutturazione del linguaggio pittorico, che passa attraverso lo sconvolgimento della visione naturalistica della realtà. All’ordine che aveva caratterizzato fino a quel momento la ragione occidentale, si sostituisce un disordine labirintico che si rivelerà estremamente stimolante e fecondo dal punto di vista artistico: Balla, Mondrian,Klee, Manritte, De Chirico, Ricasso sono gli artisti che hanno calcato le scene in quel periodo. In particolare Picasso, si è concentrato sulla simbologia del Minotauro rappresentandone la duplicità, attraverso elementi pittorici riferiti sia all’aggressività, sia alla tenerezza.  

  LA LETTERATURA DEL LABIRINTO

  1. MINOTAURUS: GLI SPECCHI DEL LABIRINTO DI DURRENMATT

Durrenmatt riporta il dedalo alla sua dimensione letteraria. È un labirinto di specchi nel quale il feroce Minotauro diviene una vittima, innocente, inconsapevole della sua essenza malefica e terribile. Durrenmatt immagina il labirinto come un’immane foresta di specchi, in cui la creatura misteriosa vede moltiplicata all’infinito la propria immagine riflessa. Una folla d’immagini, di doppi speculari, circonda il Minotauro: ma egli è solo. E il suo problema è quello di uscire fuori da questa presa del doppio, per incontrare l’altro, “non soltanto un Io, ma anche un Tu”.

Minotauro è l’assassino buono, omicida solamente perché ignora il mondo, rinchiuso nel suo universo di specchi. La sua immagine è riflessa infinite volte. Visioni diverse si affacciano inaspettate e lo guardano: moltiplicazioni del suo volto. Viene ucciso dalla sua stessa immagine, il Minotauro. Teseo (con il volto coperto da una maschera, la finzione) sconfigge il negativo, il Minotauro, indossando una testa di toro. Finge e vince la sua battaglia contro il labirinto. Il toro è un dannato, suo malgrado. Simbolo perenne del male, il Minotauro è in realtà innocente, ma carcerato. Figlio del peccato contro gli dèi è l’affronto supremo. Non ha colpa per la sua esistenza: vive e basta nel labirinto. L’essere vede il suo volto, decine e decine di volte, danza e comprende che gli altri esseri danzano come lui. L’estetica del frammento di vetro appare svelata. Un intrigo di riflessi uguali, moltiplicazione di spazio identico nel labirinto. Sembra di assistere a una lotta tra l’essere e se stesso, come se ciascuno di noi fosse al centro di un ambiente fatto di immagini diverse e uguali al tempo stesso. Solo una tra queste icone è vera, le altre sono riflesse fin dove l’occhio può vedere. Gli specchi sono, nel racconto di Durrenmatt, frammenti labirintici inseriti a loro volta nel grande intrigo di Cnosso. Si tratta di una lotta: una battaglia di Teseo per riconquistare l’uscita. Ma l’uomo lotta contro le sue chimere e le chimere combattono contro se stesse. Il Minotauro è sconfitto da se stesso, un eroe cattivo, nella mitologia. Una creatura buona, in Durrenmatt. Questo rende il suo racconto eterno e necessario per descrivere qualsiasi labirinto.

Dunque l’uomo trova, in qualche stanza della sua vita, un Minotauro da sconfiggere. Le chimere ingannano come il labirinto di specchi: l’immagine riflessa confonde. Ma l’uomo è dotato dell’”astuzia di Ulisse” e distingue la propria immagine da quella riflessa. L’uomo deve riconoscere le proprie chimere, prima o poi, per ucciderle nella mente.

Cnosso e il Minotauro sono metafore per comprendere la psiche archetipica di ciascuno di noi, una sorta di conoscenza inconscia che genera immagini oniriche e successivamente reali, rendendoci schiavi della visione labirintica del mondo.

 

  1. IL VIAGGIO MODERNO NEL DEDALO: LA SFIDA AL LABIRINTO DI ITALO CALVINO

Italo Calvino individua nel labirinto la figura-principe della contemporaneità che si presenta come magma informe e privo di significato. Ebbene, per Calvino si tratta di entrare nel labirinto, cioè di essere all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi, ma nello stesso tempo di non restare prigionieri del suo fascino, di sforzarsi di conoscerlo e di uscirne. È questa la Sfida al labirinto dei nostri giorni. La centralità del tema del labirinto deriva dalla complessità del mondo contemporaneo e dall’impossibilità dell’uomo di acquisire tutte le conoscenze per comprenderlo e per padroneggiarlo; e anche dalla percezione crescente della insignificanza della vita e della incapacità di orientarne il corso secondo principi e valori. Di qui la tendenza che Calvino chiama di “resa al labirinto”: il fascino del labirinto può trionfare in noi e indurci a compiacerci (non senza esisti irrazionalistici o mistici) della stessa insignificanza e dell’ oscurità in cui viviamo e a rappresentarle come orizzonte unico e necessario dell’esistenza umana. Se è sbagliato sia far finta che il labirinto non esista, sia fornire a esso risposte riduttive e semplificanti, è sbagliata anche la “resa al labirinto”. Insomma bisogna vivere sino in fondo la condizione di problematicità e contraddittorietà del presente senza chiudersi in facili formule che si limitano a esorcizzare il labirinto senza farci davvero i conti; e nondimeno, nello stesso tempo, pur consapevoli dei limiti dell’uomo in generale e delle nostre conoscenze in particolare, non ci si può sottrarre alla responsabilità della ragione giudicante e di una valutazione del mondo in termini storici e morali.

Per Calvino resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà ed è vero inoltre che la letteratura non può fornire la chiave per uscire dal labirinto. La letteratura, prosegue Calvino, può solamente definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. Ecco quindi il senso della Sfida al labirinto, la sfida al sistema, condotta con le regole della partecipazione, dell’accettazione di una simile condizione esistenziale. La letteratura e la passione indescrivibile che talvolta suscita è il mezzo, la mappa per affrontare quel labirinto che è la realtà che ci circonda.

 

  1. LA MALEDIZIONE DEL LABIRINTO, OVVERO L’UNIVERSO COME BIBLIOTECA IN J.L. BORGES E IL TEMPO NEL GIARDINO DEI SENTIERI CHE SI BIFORCANO

Il mondo di Borges è dominato da biblioteche infinite, le interminabili scaffalature di Babele, in cui sono custoditi tutti i libri scritti e non scritti, i libri del passato e quelli del futuro: borgesiano significa «mondo di carta». Ma borgesiani sono anche gli specchi che moltiplicano la realtà. E borgesiani sono i labirinti accentrati, spazi in cui ci si sperde senza possibilità di uscita. Antico e nuovo sussistono in Borges,  divengono la forma e il contenuto della sua opera, si fondono in questa,   si trasformano nella sua arte. In un’arte singolare perché capace di perdersi nel “labirinto” delle irrealtà e  ritrovarsi vera, reale. Non solo ciò che esiste ma anche ciò che non esiste, non si vede, non si tocca acquista, con Borges, diritto di essere ed agire. E’ questo il “labirinto” nel quale si muove il moderno uomo di Borges: è il vortice dei suoi pensieri, il dramma che gli è derivato dalla constatazione della precarietà di ogni azione, della vanità di ogni decisione, della fragilità di ogni vita, dell’impossibilità di ogni sostegno o riferimento e, quindi, di ogni liberazione da tale stato.

Non solo il presente e il passato ma anche il futuro risulta privato, nella scrittura di Borges, di speranze o aspirazioni poiché anche queste vengono sacrificate all’interminabile e inarrestabile espansione di quel “labirinto” nel quale l’uomo e lo scrittore si sono avventurati e ne hanno constatato l’infinità.

La semplicità della finzione di Borges riporta a un mondo immaginario del passato, un universo-biblioteca, un labirinto infinito: è un macrocosmo inventato in cui l’uomo (“questo imperfetto bibliotecario”) vive nelle gallerie esagonali del labirinto. La biblioteca presenta così una struttura essenzialmente labirintica, metafora globale di un mondo come libro e come labirinto di cui è impregnata la cultura moderna. La metafora della Biblioteca è utilizzata non soltanto per rappresentare l’Universo, ma anche per delineare i rapporti tra finitezza e immortalità, contingenza e necessarietà; tra uomo e Dio.

La biblioteca si presenta in un ordine geometrico, perfetto e disumano, che in realtà nasconde il caos e l’insensatezza (e infatti rinvia, già nel nome, alla confusione delle lingue della biblica torre di Babele).  Il mondo è un insieme di segni apparentemente ordinati e in realtà indecifrabili. La biblioteca, perfettamente ordinata e razionale, è destinata a oggetti insensati. Così l’ordine del cosmo, con le sue leggi fisiche maschera l’assurdo. L’uomo che abita questo universo è solo un “imperfetto bibliotecario” che cerca invano di dare un’organizzazione e un significato a ciò che vede e cataloga. Si chiarisce così il motivo di fondo della ricerca di Borges: quella del senso della vita e della sua scommessa, sempre tentata e mai vinta.

Così tra i corridoi della Biblioteca di Babele si sviluppa un labirinto che in Borges assume un’illusorietà più marcata. L’obiettivo è quello di affrontare un labirinto tangibile, presente alla luce di categorie o possibilità di lettura e di critica di cui la letteratura è abile ed originale portatrice. Una capacità critica che dovrebbe accompagnare chiunque da un labirinto ad un altro, da un esagono all’altro di quell’immensa biblioteca che è il vivibile.

Ma la struttura simbolica che regge il sistema mitico è sicuramente il Tempo: esso ha un percorso denso di strade di cui difficilmente si può carpirne il centro o il principio o la fine, la sua uscita. È un universo immaginifico fatto di simboli e di archetipi che lascia la libertà di immaginare l’inesistente (perché non visibile adesso) monumento-labirinto della Biblioteca borgesiana come vogliamo. Il tempo è bloccato: il passato e il futuro si confondono, le vie temporali si moltiplicano con i sentieri che si biforcano. Il tempo e lo spazio sono labirintici, e le loro strade si ramificano, intricate.

Nel racconto  “Il giardino dei sentieri che si biforcano”  Borges sostiene che la nostra esistenza individuale è solo una delle innumerevoli esistenze che potrebbero venirsi a determinare se, in alcune circostanze, gli eventi si svolgessero in un modo anziché in un altro. La realtà effettiva è solo un filo nella sconfinata ragnatela delle infinite possibili realtà. Il concetto di tempo è reso con una metafora, quella di un giardino in cui ogni sentiero (evento) si dirama in un altro e questo in un altro ancora, senza che lo spettatore del primo evento riesca a trovarne lo sbocco definitivo e, soprattutto, a tornare indietro sino al momento in cui esso ebbe luogo. Dunque un labirinto senza via d’uscita. L’idea centrale del racconto è dunque un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri, in modo da formare una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Una tale concezione del tempo è cara a Borges perché è quella che regna nella letteratura, anzi è la condizione che rende la letteratura possibile.

 

  1. NEL LABIRINTO DEL SAPERE: IL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO

Le biblioteche fanno parte del nostro immaginario collettivo, che per secoli si è nutrito, forse più che della frequentazione di questo luogo, spesso poco accessibile, delle descrizioni che di esse si trovano nei libri.

Nel Nome della rosa l’azione si svolge prevalentemente nella grande biblioteca del monastero: un labirinto di scienze universali, descritto come La biblioteca di Babele di J.L. Borges. Dunque nel romanzo il labirinto è la biblioteca del monastero, luogo centrale e disorientante, che custodisce il sapere e insieme i segreti e i misteri, riservato solo agli addetti e agli esperti, che solo la sagacia e l’acutezza riuscirà a percorrere e comprendere.

La biblioteca non interessa tanto come luogo fisico, quanto come proiezione ideale di un’idea estetica o di uno spunto filosofico. Da Borges a Eco, su tutti aleggia il minaccioso archetipo della “Biblioteca Universale” e l’angoscia antropologica di un confronto perso in partenza.

L’opera ha chiaramente un valore simbolico ed allegorico, ambiti cari ad Eco: la biblioteca è simbolo da un lato del fascino della cultura, dall’altro dell’enorme pericolosità in essa insita a causa del “peccato d’intelletto”, tratto tipico della mentalità medioevale. ( * )

( * ) rielaborazione di una tesi di maturità presso l’Istituto Magistrale di Mantova