Fabrizio De Andrè e il riflesso infranto
di Emanuela Bellini
“…Anime salve
spiriti solitari…”
De Andrè, poeta e cantautore,
ci consegna la verità della solitudine,
strumento e arma
nelle mani dell’essere umano.
A se stessi ritornare,
per l’universo
respirare.
La verità è che l’uomo è destinato ad essere solo, solo con gli altri.
I poeti hanno compreso la carne di tale verità,
l’hanno cantata e vissuta nel proprio sangue
e infine
vi si sono consegnati.
È un dolore favorevole, interno,
nasce insieme al primo respiro:
le anime salve, gli spiriti dotati
hanno dato calda e appassionata dimora al suo impeto,
l’hanno guardato negli occhi,
l’hanno sublimato con l’arte dello scrivere,
l’hanno salmodiato in note d’effimero canto,
l’hanno trasformato in energia per sopravvivere
al pari di acqua e pane
come carcerati liberi
sostenuti dalla divina conoscenza, nell’umana prigionia,
sia della finestra a sbarre che della porta aperta.
E allora possiamo dire,
con presagio mobile di un dialogo spezzato, che la creatura umana
è un riflesso infranto con se stesso e l’Altro
che si ricompone al centro
di un creativo solitario
universale monologo:
Specchio specchio delle brame,
dimmi,
che succede a mio bel reame?
Oh docile anima, che sentono
le mie dure orecchie?
Non sei tu a chiedermi
del tuo flessuoso esserci?
Che succede ai tuoi occhi
che mi chiedono dell’ignoto?
Al tuo cospetto, mio caro amico,
non ho mai veduto altro che un impetuoso ritorno,
muto e imperfetto come me.
Ma diverso modo non ho
per interrogare su ciò che mi dà da fare.
Vuoi tu darmi manforte
e illuminare le mie angosce,
profonde come fondali marini,
roventi come
nucleo caldo di nostra madre terra?
Che dire da uno scherzo brillante qual io sono
se posso
ti agevolerò
prestandoti i miei durevoli occhi.
Ebbene allor dimmi
che succede a mio bel reame
che getta immondizia su se stesso
che tace sempre, con orribili silenzi
alle tremende facezie dei suoi cari compagni umani
che mai si imprime sul suo splendido viso
una fronte corrucciata, una bocca tesa
o una lagrima amara?
Per qual strana ragione si lascia tormentare,
seviziare, modificare, bruciare, cementificare
o abbellire da tristi copie sue?
Sol di distruggere e spazzare via
qualche misera anima tra i suoi compagni è buona!
Ma a che serve se mai è capace
di parlare per se medesima,
farsi riconoscere come fedele presenza amica
o paventare quel buon reciproco rapporto
nel suo viaggio eterno con la creatura umana?
Le tue domande, i tuoi crucci,
docile anima,
mi corrodono e mi sgomentano.
Mai di tanta piccolezza
ho sentito e creduto
nell’animo terrestre.
Il mio misero riflesso
ha dato spalla
a moltitudini rimbalzi, interminati circoli.
Mai nessuna sì temeraria domanda
ha vanificato in un istante
la mia sapienza scontata.
Rimango inerme e interrogante
se tu osi muovere fuori da me e te,
da te e me.
Lasciami però
con il beato tormento che mi passasti,
rimaniamo, volgendo
a nostro bel reame,
e nessun’altro.
Vennero,
con ali di libellula,
i sogni argentati,
silenti.
I tuoi baci di miele
rapirono la mia anima
ma mai io chiesi
che mi fosse restituita.
Le tue mani
o le tue lacrime,
non so,
non ricordo,
e forse entrambe
mi spogliarono di tutto.
Ma io a loro avrei comunque dato tutto
persino la mia dignità
persino il mio nome
persino ciò che da ultimo
avrei potuto chiamare me stesso.
Tu avresti fatto lo stesso per me.
Tu avresti fatto lo stesso con me.
Dobbiamo ritrovare le nostre ombre!
Dobbiamo ritrovare le nostre ombre!
Così ripetevi.
Così ripetevo a me stesso.
Per salvare ciò che resta di ognuno di noi.
Per salvare ciò che resta degli altri per noi.
Perché così è l’amore.
Non chiede mai nulla per sé.
Neanche di essere chiamato amore.