Supporti psicopedagogici per l’osservazione e la costruzione di un rapporto di relazione con il ragazzo straniero

Leonardo Angelini

a. Supporti psicopedagogici per ragazzi stranieri: un’occhiata agli etimi

1. “Supporto” (sub-porto) significa sostengo; mentre la parola “psicologo” ci riporta all’area della conoscenza della psiche, e quella di “pedagogo” (letteralmente paidòs agogòs) all’accompagnamento dei fanciulli: nel nostro caso di fanciulli, o meglio, di ragazzi stranieri.

2. Il termine “ragazzo” proviene dall’arabo magrebino raqqās: ma guarda un po’ quali scherzi ti combinano i processi migratori … delle parole! E raqqās significava originariamente corriere, messaggero.

Infine “straniero” proviene dal latino “exstraneus” che significa estraneo, strano, insolito.

“Ragazzo” quindi è una parola esse stessa ‘straniera’ e, direi, sintomatica di quanto i percorsi acculturativi possano essere paradossali.

b. Acculturazione, e acculturazione linguistica

3. Con il termine acculturazione stiamo già in media res: per “acculturazione” infatti di intende un processo in base al quale due o più culture, nel momento in cui si incontrano, si influenzano reciprocamente.In questo incontro-scontro vi è sempre una cultura ‘egemone’ ed una cultura ‘vinta’, con una gamma di possibilità che derivano da questo incontro-scontro. Ma della natura di questo processo abbiamo già parlato nei capitoli precedenti e ad essi rimandiamo chi volesse approfondire.

4. Acculturazione linguistica rappresenta uno dei fenomeni più imponenti interni a qualsiasi processo acculturativo. Si tratta di un processo in base al quale la cultura egemone impone la propria lingua ai soggetti delle culture vinte. Ad esempio, gli italiani che sono emigrati negli Usa hanno dovuto imparare l’inglese; quelli che andarono in Argentina lo spagnolo, ecc.

5. In questi casi solo alcuni elementi della lingua delle culture vinte, dei dialetti originari, dei lessici familiari sono passati nell’inglese o nello spagnolo (ad esempio: il termine “pizza”), mentre fino a un certo punto hanno fatto parte del linguaggio di una enclave di migranti appena arrivati; e la stessa sorte hanno fatto tante altre componenti della cultura originaria (ad esempio: la religione cattolica).

6. Tutto ciò sempre con una varietà di accenti che vanno dall’eclissi delle lingue delle culture vinte, confinate in enclaves culturali e ridotte ad elementi subculturali e marginali, o ancora a lessici incomprensibili al di fuori delle mura domestiche; fino ad una commistione, e ad un meticciamento linguistico più o meno accentuato.

7. Vi è qui una prima indicazione di carattere psicopedagogico: ce la danno sia Ammon che Baratz – due sociolinguisti (citati in: Mioni) che hanno studiato il rapporto fra lingua nazionale e dialetti regionali.

Sia Ammon che Baratz parlano dell’importanza per la lingua nazionale (per la lingua burocratico-curiale, direbbero i sociolinguisti italiani) del confronto e dello scambio fra lingua burocratico-curiale e dialetti, e danno un’indicazione di tipo pedagogico-didattico che chiamano “linguistica contrastiva” in base alla quale dal raffronto e dalla contestualizzazione dei linguaggi discende una valorizzazione sia delle lingua burocratico- curiale sia dei vari dialetti.

8. Noi a Reggio Emilia abbiamo portato avanti anni fa un’esperienza a partire dalla indicazioni della linguistica contrastiva in una situazione in cui erano presenti sia bambini autoctoni, sia migranti provenienti dalla montagna reggiana, sia migranti interni provenienti dal Sud, sia bambini sinti, con risultati eccellenti.

Si tratterebbe di sapere se oggi, di fronte alle 105 culture presenti a Reggio Emilia un approccio sociolinguistico basato sulla linguistica contrastiva potrebbe avere senso, e come.

c. La scuola come luogo basilare dell’acculturazione linguistica

9. Partiamo sempre dall’etimo: “scuola” – come ci suggerisce il Devoto – significa “riposo”, “non lavoro”. Mentre il termine “studio” ci riporta alla funzione dell’“appoggiarsi, dell’applicarsi a qualche cosa”. Quindi la scuola può essere vista come un luogo che precede quello del lavoro, e lo studio come un’applicazione che per ora è gratuita, ma che nel tempo potrà diventare più funzionale alle esigenze sociali; ma quest’ultima considerazione, a ben vedere, è già una forzatura.

10. La scuola però è anche luogo di acculturazione linguistica per eccellenza, poiché è il luogo di acquisizione della lingua burocratico-curiale che, in una società complessa, è uno degli strumenti più importanti di integrazione, di acquisizione di una coscienza nazionale, ecc. .

In una società che ha un mercato limitato l’apprendimento della lingua burocratico-curiale è limitato solo alle èlite: pare che al momento dell’unità d’Italia solo 200.000 persone conoscessero l’italiano. Poi quando i contadini hanno cominciato a lasciare il lavoro nei campi e si sono trasformati in operai hanno potuto farlo solo grazie al fatto che in parallelo la scuola pubblica ha insegnato loro una lingua con la quale potevano comunicare anche al di fuori delle anguste mura del proprio municipio.

11. Grazie a questa collocazione che la pone prima del lavoro e grazie a questa propensione alla propagazione della lingua burocratico-curiale oggi la scuola può continuare a svolgere – qui da noi lo fa – quest’importantissima opera di propagazione delle lingua nazionale.

E lo fa attraverso l’acculturazione linguistica che serve a preparare al lavoro ed all’integrazione la seconda generazione degli immigrati. Può farlo in diversi modi, più o meno feroci. Educare – da ex-ducere, e cioèportar fuori” – allude sempre ad un operazione ‘violenta’ che comporta una trasformazione del soggetto educato!

12. La scuola è stata ieri, e continua ad essere oggi per gli autoctoni luogo di incontro e di sutura fra due generazioni, in cui la generazione che declina passa alla più giovane che emerge la cultura, le competenze, la scienza, ecc.; e la più giovane fa propria, agglutina, ciò che ha ricevuto in eredità!

Ma oggi la scuola è anche luogo di incontro e di sutura, e cioè di acculturazionefra esseri che provengono da diverse culture, che sentono dentro di loro il peso di diverse appartenenze.

d. L’osservazione e la costruzione di un rapporto di relazione

 

13. In questo caso l’etimo non aiuta poiché allude ad un significato arcaico del termine, che alludeva all’obbligo dell’osservanza (conservo-verso).

Sappiamo invece che, nel nostro caso, e cioè in ambito psico-pedagogico, l’osservazione è alla base della spirale della programmazione, seguita dalla stesura dell’ipotesi, che dovrà avvenire in base all’osservazione; dalla conseguente sperimentazione e dalla verifica in base alla quale sarà varata una seconda e poi una terza …. osservazione.

14. Sappiamo anche che in Italia nasce, insieme alla programmazione di cui è parte, in polemica con i programmi centrali di gentiliana memoria, che proponevano programmi preconfezionati e funzionali ad altri fini più circoscritti rispetto a quelli che attualmente la scuola si propone di perseguire.

La programmazione cioè nasce con la scuola di massa ed è uno strumento volto a comprendere i bisogni attuali di studio di una platea molto più ampia e variegata di quella cui si rivolgeva la scuola gentiliana.

15. Sappiamo quindi che la programmazione è il segno distintivo dell’innovazione. Per noi che ci riferiamo alla psicoanalisi però l’osservazione è monca se non comprende anche l’auto-osservazione, cioè la riflessione su se stessi. Un mettersi in gioco che il rapporto con l’alterità, come vedremo fra un poco, esaspera.

16. La parola “costruire” – da cum-struere, cioè ammassare, mettere insieme – collegata alla relazione, ci suggerisce che all’interno del rapporto di relazione non c’è niente di dato; che tutto va tutto costruito, va sub-portato.

17. Vi è qui l’allusione ad un doppio sforzo: – di comprensione di ciò che avviene fuori di noi allorché arriva uno straniero, sforzo compiuto in base al primo fondamentale movimento di estroflessione e di successiva riflessione che è l’osservazione; – di comprensione di ciò che avviene dentro di me di fronte all’alterità, allo straniero: sforzo compiuto in base ad un secondo e complementare movimento di introflessione e di successiva riflessione su ciò che ho visto guardandomi dentro che è l’auto-osservazione.

18. Il “rapporto di relazione” invece implica – anche con la sua ridondanza (che non è mia ma di chi mi ha fornito la traccia di questo nostro incontro) – la costruzione di una connessione, di un riferimento (re-ferre) che ci ri-porta sul piano dei difficili processi di identificazione con l’altro da me.

e. Quali supporti psicopedagogici?

 

19. Vediamo ora quali a mio avviso possono essere i supporti psicopedagogici che permettano l’identificazione con l’altro da me e la costruzione di programmi volti all’integrazione ed al meticciato sociale. Ne elenco una decina. È chiaro che per ognuno di essi sarebbe necessario volgere una più particolare attenzione:

a. l’affinamento delle capacità osservative ed autosservative;

b. la disposizione a entrare e rimanere in contatto, sul piano identificatorio, con elementi che vengono dall’estroflessione e dall’introspezione, dalla loro coniugazione con le altre nostre parti interne, senza eccessivi timori di esserne sconvolti;

c. la conoscenza e l’amore per la conoscenza: la conoscenza in questo caso sarà anche di tipo etnologico ed etnografico (il che in Italia, dove non esiste ancora un percorso di studi specificatamente etnologico, è una vera e propria sfida sul piano della conoscenza, e della conoscenza trasformativa in particolare);

d. la confidenza con il proprio preconscio, cioè con le propria intuizioni; e la capacità di far seguire alle intuizioni i fatti, che nel nostro caso sono i programmi;

e. la disposizione a stendere ipotesi di lavoro psicopedagogico che ‘li’ comprendano in termini discriminati ed individualizzati, così come facciamo solitamente con gli autoctoni; nel rispetto per la loro identità e nella consapevolezza che ogni sforzo fatto oggi dovrà fruttificare domani (capacità di tollerare le frustrazioni);

f. osare, sperimentare ciò che deriva dalla mia osservazione, dal mio sapere, dal mio intuito; prendere appunti a caldo; rifornirsi di maestri ad hoc che supervisionino il nostro operato;

g. non scartare mai alcuna idea;

h. nei follow up, nelle verifiche osare, partire dagli insuccessi;

i. imporre alle autorità una formazione continua, contro il semplicismo in base al quale (per risparmiare) basta la buona volontà e qualche giaculatoria;

m. evitare l’acquisizione di una formazione narcisistica, che si bei dei risultati raggiunti, ma fissarla a partire dai reali momenti di crisi.

20. Ed, in conclusione, prevedere una supervisione individuale o, meglio, di gruppo per potere attuare in maniera professionale quanto detto nei dieci punti precedenti.

Bibliografia:

Mioni A. M., Sociolinguistica, apprendimento della madre lingua e lingua standard, in Renzi L., Cortellazzo M. (a cura di), La lingua italiana oggi, un problema scolastico e sociale, Il Mulino, Bologna, 1977, pp. 7592

– Devoto G., Avviamento all’etimologia italiana, Mondadori, Milano, 1979