Stato centrale e welfare locale reggiano ieri ed oggi: previsioni, opportunità e realizzazioni

Leonardo Angelini

L’immediato dopoguerra fra continuità e discontinuità

C’è una foto del 25 Luglio del 1945 che mostra il neosindaco comunista della città di Reggio Emilia, Cesare Campioli, che insieme ad altre personalità cittadine festeggia dal balcone del teatro Ariosto il successo elettorale dei laburisti inglesi. E in qualche polveroso archivio ci saranno ancora i documenti della Commissione  D’Aragona che in quegli anni per conto della Costituente andava elaborando un nuovo modello di sicurezza sociale che si ispirava in gran parte a quello inglese.

L’Inghilterra però aveva vinto la guerra e il piano di sicurezza sociale inglese – che prese il nome dal ministro Beveridge che l’aveva varato fin dall’epoca in cui sotto la guida del conservatore Churchill gli inglesi combattevano contro il nazismo – era figlio di quel clima di emergenza e di unità nazionale che si impose sia nel periodo bellico sia nell’immediato dopoguerra. E il fatto che i laburisti di Attle dopo la vittoria elettorale del luglio ‘45 confermino Beveridge come ministro della sicurezza sociale testimonia la loro volontà di porsi su di un piano di continuità con il governo di guerra di Churchill.

In Italia le cose non stavano assolutamente così: i vari governi De Gasperi, che operarono parallelamente all’Assemblea Costituente fra il ’46 e il ’48, infatti non riconobbero alcun potere legislativo alla Costituente e alle sue commissioni. Cosicché da una parte la Commissione D’Aragona emanò degli orientamenti molto avanzati che ridisegnavano in chiave universalista il modello di previdenza fascista. Dall’altra a livello governativo si creò nella gestione dalla ricostruzione un gruppo ministeriale ristretto che comprendeva, oltre al Presidente del Consiglio, solo i ministeri economici e che dettava l’agenda economica senza alcun vincolo nei confronti delle Costituente e con forti legami con la Banca d’Italia e la Confindustria[1].In questo modo furono poste le premesse perché di fatto in Italia subito dopo la crisi dei governi unitari e l’avvento del centrismo, il fronte conservatore, sempre capeggiato dalla Confindustria e dalla Banca d’Italia, riuscì a rimandare sine die le riforme che la commissione D’Aragona aveva previsto; e, in base a questa scelta sostanzialmente liberista, mentre in Inghilterra, in Francia e nella Germania occidentale negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra nacque il welfare state,  in Italia sul piano dei principi si predicò una esigenza di discontinuità rispetto al modello previdenziale corporativo fascista, su quello legislativo alla fine si operò su un piano di continuità con esso.

Di modo che nel guardare al modello di tutele che in quegli anni si vanno imponendo in Italia non si può certo dire che è possibile scorgere in esso dei tratti che attestino la nascita di un welfare italiano. Anzi, specialmente dopo l’avvento dei governi centristi, si può affermare che il modello che si impone da noi nel primo dopoguerra nasce sulla base di una ripresa e di una estensione del modello previdenziale fascista, basato su una costosa moltiplicazione su base corporativa degli enti di previdenza che ben presto porterà alla nascita dei cosiddetti “carrozzoni”.

 

Sotto il segno del liberismo (1945 – 60)

Cosicché, mentre nei più popolosi stati europei le classi sociali medio-basse già nell’immediato dopoguerra sono introdotte nell’ambito del mercato e del consumo attraverso una serie di operazioni economiche di tipo inclusivo volte a implementare la domanda interna, fra le quali dappertutto fondamentale è l’istituzione del welfare, in Italia il blocco centrista adottò un modello di ricostruzione e di sviluppo di stampo liberista che tese a mantenere ai margini del mercato le classi meno abbienti attraverso una politica di tipo deflattivo volta a tenere alti i prezzi, a comprimere i salari e, di conseguenza, a circoscrivere l’ambito del mercato alle sole classi abbienti, a non far nulla di fronte alla disoccupazione, con ciò favorendo la ripresa dei flussi migratori interni ed esterni e a ripristinare, e sotto certi punti di vista ad estendere, il modello fascista di sicurezza sociale, corporativo e clientelare.

Gli amministratori reggiani in quegli anni ben presto si trovarono ad operare in un situazione locale che per un verso risentiva fortemente delle conseguenze che sul piano economico derivavano dalle scelte liberiste dei governi centristi, e che sul piano  politico ben presto sfociarono in quell’anomalia tutta italiana che Guido Crainz ha definito come doppio stato: «l’uno caratterizzato dalla normalità e dal diritto; l’altro invece dalla potenziale e sotterranea esclusione di un’ampia fascia di cittadini dalla pienezza di quel diritto»[2]; il primo riservato ai cittadini di centro-destra, l’altro a quelli di sinistra che venivano marginalizzati e penalizzati in base a criteri di discriminazione e di esclusione molto selettivi e calibrati sul livello di esposizione e di critica che i singoli e i gruppi assumevano sulla scena politica e sociale, peraltro costantemente monitorata da un sistema di osservazione, di delazione e di vero e proprio spionaggio presente a tutti i livelli.

Come reazione al primo ordine di problemi gli amministratori emiliano-romagnoli fanno leva su un complesso ordine di provvedimenti che in parte poggiano sulla vecchia tradizione di buona amministrazione che i governi locali socialisti avevano dimostrato in epoca prefascista: sostegno alla mutualità e alla cooperazione e impulso alla nascita delle municipalizzate; in parte, e come reazione alla mancata riforma della finanza locale, su una politica della spesa che tende in continuazione ad aggirare i vincoli liberisti di pareggio del bilancio e a mettere sovente i prefetti di fronte al fatto compiuto di spese eccedenti, legate al soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione[3] che vien chiamata a sostegno delle scelte dell’ente locale. Comincia così una lunga sequenza di lotte contro il Prefetto, rappresentante dello stato in sede locale, che con i suoi provvedimenti cerca di bloccare o di ritardare queste eterodosse deliberazioni degli enti locali.

Un secondo fronte sul quale gli enti locali reggiani si impegnano molto, a fianco del sindacato, fu quello della lotta contro lo smantellamento delle fabbriche. Epica fu la battaglia delle Reggiane, una delle più grandi aziende reggiane, in crisi di riconversione post-bellica che intendeva licenziare gran parte delle maestranze; battaglia apparentemente perduta, che ingenerò una diaspora a partire dalla quale si diffuse quella intelligenza imprenditoriale che accompagnò e segnò la ristrutturazione industriale negli anni e nei decenni successivi.

Un terzo fronte, infine, fu quello che si sviluppò in reazione alle discriminazioni derivanti dalla collocazione di questo territorio e della maggioranza dei suoi cittadini in una situazione di esclusione dalla pienezza del diritto e che si incentrò sulla nascita a Reggio di un reticolo fittissimo di luoghi a parte (le case del popolo, le sezioni, i centri di socialità nati intorno alle organizzazione di massa della sinistra) che determinano la strutturazione di una vera e propria controsocietà, che non si propone di rovesciare la società dominante, ma si ritaglia degli spazi di vita in cui difensivamente si cerca di vivere secondo modelli propri, non influenzati dalle ideologie dominanti[4].

 

L’avvento del centrosinistra e la nascita del welfare (dagli anni del boom alla metà degli anni ‘70)

 

Intorno alla metà degli anni ‘50 nelle zone industriali dell’Italia settentrionale viene finalmente raggiunto e sorpassato il livello di produttività del ’39: c’è una rapida crescita che ben presto porterà agli anni del boom e della crisi dei governi centristi. I modelli di esclusione che avevano caratterizzato le scelte liberiste del primo dopoguerra e che avevano condotto ad una crescita squilibrata cominciano ad andare in crisi anche e soprattutto perché il movimento dei lavoratori in quegli anni torna alla lotta e per la prima volta nel dopoguerra ottiene degli importanti risultati sul piano salariale.

Comincia così in quegli anni un movimento di allargamento sostanziale del mercato interno sostenuto dalla nuova domanda che viene da queste classi sociali fino ad allora escluse o marginali rispetto al mercato e diventa subito chiaro che, anche a livello di rappresentanza politica, occorre cambiar pagina: è l’avvento del centrosinistra che comporta un nuovo e aspro livello di lotte e di negoziazione fra il vecchio  blocco di potere e le nuove forze che premono sia nella sinistra di governo che a livello di massa.

Tutti questi fermenti troveranno poi nel biennio ’68 ’69 uno sbocco che farà da volàno alle riforme, che già erano iniziate, fra mille impedimenti e rallentamenti, con i primi governi di centrosinistra, molte delle quali si riveleranno decisive nella definizione del welfare italiano che  nasce di fatto in quegli anni.

Sotto l’impulso delle lotte sociali e sindacali si comincia a sfoltire il sottobosco delle cento e cento previdenze corporative e clientelari, veri e propri carrozzoni che pesano sui contribuenti e non rendono; si vara la scuola media unica che corrisponde alle nuove esigenze formative di una società che si va rapidamente modernizzando; vengono poste le basi per la nascita e lo sviluppo delle scuole per l’infanzia e degli asili nido comunali; nascono le regioni, anche se sostanzialmente la riforma della finanza locale è ancora una volta disattesa.

In questo nuovo clima si assiste a Reggio ad un ricambio generazionale che conduce al governo locale un nuovo gruppo dirigente che attinge ampiamente al bacino di militanti e di quadri che vengono dalla resistenza e dalle lotte difensive degli anni ’50, che lentamente, ma inesorabilmente marginalizza il vecchio gruppo formatosi prima delle guerra nella lotta clandestina al fascismo. Questi nuovi amministratori si trovano ad operare in un quadro sociale profondamente mutato.

Alla fine degli anni ’60 la città appariva infatti profondamente sconvolta nel suo tessuto sociale:  non era più un grosso borgo contadino e paleo-industriale, ma si era come rigenerata e velocissimamente trasformata in una moderna città industriale. Il dato più eclatante che appariva a occhio nudo era quello dell’inurbamento, che era figlio dell’industrializzazione e portatore di modelli di vita e di riproduzione sociale del tutto nuovi che si ponevano su un piano di profonda discontinuità con i modi di vita precedenti[5]

Riprendendo e ampliando quel modo di operare sul piano finanziario cui accennavamo prima e approfittando della nascita della Regione che comincia ben presto a muoversi sul piano della programmazione e della messa a punto di una modellistica dei servizi capace di individuare e implementare le esperienze esemplari presenti sul territorio, in questo nuovo tessuto sociale esplode ben presto una feconda primavera in cui una serie di consistenti e realistici movimenti anti-istituzionali nati in città intorno al  ’68, innescano una serie di lotte che conducono ben presto, e grazie all’alleanza con quei nuovi e lungimiranti amministratori locali, alla nascita di centri di libertà e di sperimentazione. Cosicché nell’arco di pochi anni assistiamo al fiorire in città delle scuole materne e degli asili nido comunali, delle nuove strut­ture per gli anziani, dei nuovi luoghi dell’antipsichiatria, della medicina del lavoro, etc.-

Insomma a Reggio E., così come in tutte le regioni rosse, l’opzione a favore del welfare dei servizi è decisa, mentre nella zone bianche il modello di welfare che nel frattempo si afferma è quello dei sussidi, che rinuncia ad un investimento a lungo termine sui servizi in cambio di un allargamento immediato dell’ambio del consenso che è sotteso alla logica dei sussidi.

 

Il rapporto fra welfare locale e stato centrale in epoca craxiana (dalla metà anni ’70 alla fine della prima repubblica)

 

La spinta riformatrice e programmatica del centrosinistra verso la metà degli anni ’70  va in crisi sia per motivi esterni (la crisi petrolifera) che endogeni: infatti l’allegra politica di spesa già iniziata in epoca dorotea e accentuata in epoca craxiana, unita ad una sostanziale rinuncia ad una politica fiscale centrata su criteri di equità, conducono ben presto ad un nuovo punto di equilibrio a livello nazionale che si definisce intorno agli interessi di questo nuovo blocco sociale legato alla rendita e alla speculazione finanziaria: è il popolo dei BOT che s’infoltisce ed ingrassa sui crediti accumulati a danno dello stato spendaccione che in questo modo accumula un debito pubblico di cui ancora stiamo pagando le conseguenze, e che soprattutto non paga le tasse.

In questo modo si crea un effetto perverso in base al quale da una parte si forma un popolo di evasori e di redditieri che può fruire gratis dei servizi di un welfare ancora universalistico e ancora praticamente gratuito, mente dall’altra i lavoratori dipendenti che non possono esimersi dal pagare la tasse, più che tutelati dal welfare, risultano sempre più gravati da esso.

E questa volta Reggio Emilia non è pronta ad inventare un bilanciere locale in grado di attutire gli effetti di questo meccanismo. La realtà sociale ed economica della provincia è profondamente mutata e intorno ad decentramento produttivo, che la connota ormai in maniera peculiare e massiccia, anche a livello locale si forma un nuovo sociale ampiamente apparentabile a quello che si va concrezionando a livello nazionale.

Cosicché anche in Emilia, come ci ricordava Barbera proprio in quegli anni: “a un certo punto la sinistra abbandona le battaglie degli anni precedenti e preferisce rivendicare risorse finanziarie da un centro sempre più condizionato da politiche anticongiunturali anziché rivendicare l’assunzione di responsabilità autonome; e nel vuoto cadeva il monito di chi si ostinava a ripetere, soprattutto a sinistra, che non si sono mai conosciute in Occidente forme di democrazia locale che non fossero legate al prelievo di risorse tributarie”[6].

Nel contempo, sempre viene avviato un ulteriore processo di ricambio nei gruppi dirigenti locali che marginalizza ormai i quadri nati nella resistenza e nelle lotte difensive degli anni ’50 e impone la presenza sulla scena dei nuovi quadri nati intorno al movimento del ’68 che però spesso avviene in base ad una selezione che non premia tanto i più capaci quanto i più abili a barcamenarsi nei meandri della politica politicante.

Sono questi gli anni in cui cessa la sperimentazione nei servizi che tendono ad essere normalizzati da questo nuovo ceto dirigente, mentre in contemporanea la Regione, comincia ad abdicare a quel ruolo di guida e di razionalizzazione che con grande prestigio si era conquistato sul campo nel quindicennio precedente.

 

 

L’aziendalizzazione e il declino (dalla nascita della seconda Repubblica ai giorni nostri)

Le basi monetariste sulle quali poggia l’Europa a partire da Maastricht hanno eroso i margini di manovra degli stati nazionali e hanno posto una serie di vincoli ai governi, fra i quali il taglio della spesa pubblica a danno dei progetti di welfare è uno degli elementi fondamentali.

Nel caso dell’Italia il precedente enorme buco di bilancio che si era prodotto in epoca dorotea e craxiana a causa della rinuncia ad una equa politica fiscale all’improvviso diventa un enorme ostacolo all’ingresso del paese in Europa. E’ la fine della prima repubblica e l’inizio della cosiddetta politica di rigore perseguita fin dagli albori della seconda repubblica sia dal centrosinistra che dal centrodestra.

Ma la linea di rigore che i vari governi assumono nei confronti della spesa trova un culo di sacco per i primi nel varo del welfare mix che si basa sulla ricollocazione di parte dei servizi nel privato profit e no profit, per i secondi in un tentativo di prosciugamento totale del welfare, di scardinamento delle tutele e di appalto al privato che, rispetto alla prima soluzione appare solo più sguaiatamente clientelare.

In entrambi i casi all’aziendalizzazione si accompagnano altri due fenomeni altrettanto gravi: la dismissione pura e semplice di settori del welfare ed il ritorno della cura sulle spalle delle famiglie, e delle donne in particolare[7]; la nascita, a fianco dei servizi pubblici, di un imponente apparato privato no profit o profit che in molte regioni d’Italia si accompagna alla nascita di nuove clientele centrate su logiche di appalto e subappalto e – forte elemento di novità – sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Anche Reggio Emilia, nel frattempo sconvolta da una ulteriore profonda trasformazione che la rendono rapidissimamente una realtà in cui si concentra un massiccio fenomeno migratorio, viene investita da questa modalità di gestione dei servizi. [8] Certo, sarebbe errato paragonare la situazione reggiana a quelle in cui un welfare dei servizi non è mai nato, come ad esempio è avvenuto in gran parte del Sud. Va detto però che anche qui l’assegnazione degli appalti spesso avviene in maniera discrezionale, che i nuovi servizi profit e no profit spesso si pongono in maniera concorrenziale e non complementare, come vorrebbe una logica economica accorta, a quelli che sono in piedi già da 30 anni.

Va detto infine che la presenza di logiche di assegnazione degli appalti secondo regole che premiano i progetti meno costosi pongono gli attori del privato sociale in una condizione di povertà di risorse che spinge verso l’erogazione di servizi di basso profilo che pesano sui fruitori e sugli operatori. I primi condannati a ricevere servizi meno qualificati e più costosi, i secondi perché, privati del tempo e delle risorse per la formazione sono condannati a non crescere, e perché rimanendo precari sono impediti, al di là delle loro qualità e della loro dedizione personale, a contribuire alla sedimentazione nel tempo di una cultura dei servizi.

Il tutto mentre nei 30 anni scorsi nel pubblico, almeno qui in Emilia e Romagna, si è sedimentata una cultura dei servizi ricca, stimata spesso anche extramoenia, che viene ridimensionata e disarticolata, ma che non ha altra colpa se non quella di rappresentare la falsa coscienza della nuova classe dirigente locale.


[1] Per una analisi approfondita di ciò che accadeva in quegli anni nle rapporto fra governo e costituente cfr:  I: Masulli, Welfare state e patto sociale in Europa, CLUEB, Bologna, 2004, pp. 8499

[2] Cfr.: Guido Crainz, Storia del miracolo italiano”, Donzelli, Roma, 1996, pag. 4. Il termine “doppio stato” è stato usato per la prima volta da Franco De Felice in: F. De Felice, Doppia lealtà e doppio stato, in: Studi storici, 1989, 3, pp. 493-563

[3] In una recente intervista al sottoscritto l’ex-sindaco della città di Reggio Renzo Bonazzi, succeduto a Campioli nel ‘62, sostiene che questa operazione divenne di uso comune nelle amministrazioni emiliano-romagnole, non fu mai teorizzata, ma continuò anche dopo l’istituzione delle Regioni, poiché a questa importante innovazione non si accompagnò ancora una volta alcuna riforma della finanza locale. D’altro canto è quanto emerge dal recente libro su Dozza di Luisa Lama ”Giuseppe Dozza – Storia di un sindaco comunista”, Aliberti, Reggio Emilia, 2007.

[4] Per un’analisi più puntuale di ciò che avviene in questa controsocietà cfr: L. Angelini, Istituzioni del welfare e prassi amministrativa ieri e oggi a Reggio Emilia, in: AA.VV., La società in trasformazione, Manifestolibri, 2004, Roma, pp. 247 – 276

[5] per un’analisi più approfondita cfr: L. Angelini, Istituzioni del welfare e prassi amministrativa ieri e oggi a Reggio Emilia, op. cit. pag.252257

[6] Barbera A., Partecipazione e decisione: La crisi dei poteri locali, in: Laboratorio Politico, 1982, N.5/6, pp. 112 – 126

[7] fra l’altro con l’emergere in questi anni del fenomeno delle badanti.

[8] Affermano Basini e Lugli che L’Emilia e Reggio in particolare sono stati sottoposti nell’arco di due generazioni ad un processo di cambiamento che in Inghilterra ed in Francia sono avvenuti nell’arco di centocinquanta anni (cfr: Basini G. L., Lugli G., L’affermazione dell’industria: Reggio Emilia 1940-1973, Roma – Bari, Laterza, 1999)