Ritorno nel regno delle fiabe

di Silverio Tomeo

Se è altamente gradevole leggere le fiabe e “li cunti” di Locorotondo –  paese già di per se stesso fiabesco –  meticolosamente raccolte, riportate e tradotte da Dino Angelini, è davvero interessante la tematizzazione teorica a tutto campo della seconda parte del suo libro Raccontami una storia (Edizioni di Pagina, 2018). Siamo di fronte a un lavoro che nasce da lontano, da una ricerca sul campo delle estati del 1982-1984, che ritorna come torna il rimosso, che si ripropone all’analisi ininterrotta dei significati simbolici e intrapsichici nel flusso significante delle narrazioni orali. Una vertigine di storie, interpretabili a livello strutturale in più rigagnoli e dispositivi narrativi. Il dialetto (idioletto) conserva in sé come un eccesso di senso, e per lo più era ed è  la lingua della madre, comunque del teatro familiare.

Fiabe, apologhi, narrazioni da focolare, appaiono come racconti di iniziazione, come trasmissione senza dottrina – così come nello Zen –  di sapere pratico, accorto, tradizionale, paradossale. Numerose le presenze magiche, le figure-simbolo del potere, il femminile, il demoniaco, il perturbante, lo straniante. Lo spiritello folletto domestico, dispettoso e maligno o apportatore di fortune, è presente, è visibile, c’è sempre chi lo ha visto davvero, è in tutte le tradizioni rurali del Meridione.  Moniceddhu, Carcaluru, Laurieddhu, oppure detti Lauri o anche Uri e Urri, a secondo delle zone. Come curiosità: il nome della comune libertaria Urupia, che dal 1995 esiste produttivamente nelle campagne tra il brindisino e il tarantino, deriva proprio da una contrazione tra Uro e utopia. Insomma: chi è che narra? Il narratore è il familiare adulto o spesso anziano. Chi è che ascolta? Il bambino.  Angelini coglie in questo rapporto e nella stessa struttura delle narrazioni un significato terapeutico. Va ricordato che l’autore è psicoterapeuta dell’età evolutiva a Reggio Emilia, viene dall’esperienza del CIM di Giovanni Jervis che è stato uno dei maggiori psichiatri critici italiani, sia verso l’anti-psichiatria di Laing e di Cooper quando arriva a negare la sofferenza psichica, sia contro i dispositivi di potere della psichiatria ufficiale che accetta acriticamente  le nuove classificazioni nel  manuale diagnostico internazionale DSM-5 prodotte di continuo. Va anche ricordato come Jervis, assieme a De Martino, Diego Carpitella e altri, fu tra i pionieri della ricerca sulla “terra del rimorso” in Salento, nel giugno del 1959.

Per meglio chiarire la funzione abreatoria e terapeutica dei racconti popolari l’autore fa un’analogia tra sogno e fiaba nella sua continua rielaborazione, tant’è che di alcune ne esistono numerose versioni. Richiamandosi a Freud per i suoi scritti sul sogno, Angelini coglie come i meccanismi di condensazione e spostamento dell’attività onirica siano anche nelle storie da lui raccolte e trascritte. Se del resto il maestro del sospetto dell’analisi psichica parlava di lavoro onirico era proprio per sottolinearne il senso di e-laborazione proprio delle istanze inconsce. L’analisi strutturalista ed etnografica, nei suoi riferimenti teorici, è ben presente nel testo. Quindi Ernesto De Martino, Alberto Maria Cirese, Bruno Bettelheim, Vladimir Propp, Roland Barthes, Walter Benjamin, Giorgio Agamben, e tutto un rosario sgranato nella bibliografia finale.

L’autore si chiede come questo rapporto terapeutico, e anche sapienziale se vogliamo, sia ormai in frantumi nella modernità di fronte alla televisione, ai cellulari, ai videogiochi ed ai telefonini con le app. Se non è per nulla facile tematizzare il concetto di comunità, è molto più semplice vedere le aporie dell’individualismo neoliberale come modello pervasivo. La funzione della fiaba-merce sarebbe ridotta a una sorta di adattamento precoce del bambino ai riti e ai miti della società del consumo e di acculturazione tanto omologante quanto vuota di contenuti.

È difficile, leggendo queste fiabe e racconti di Locorotondo, non farsi affiorare in mente quelle proprie recepite nell’età infantile. Dal ramo paterno mi provenivano quelle della magica Irpinia, e da mio padre, in una città priva ormai di rete familiare, le disavventure del monaco Picuozzo, che è una figura tradizionale e fiabesca di monaco apprendista ancora e sempre laico. Cosa ovviamente diversa dal  Munaciello, che in entrambi i miei rami campani familiari era un’apparizione corrente. Anche le storielle divertenti, i calembour, le filastrocche, le storie con monito finale, le leggende del proprio romanzo familiare, le gesta dei nonni, erano diffuse ampiamente da zie e zii.

Come è noto e documentabile, ma spesso rimosso, Sigmund Freud ha sempre esplicitamente riconosciuto che le fratture psichiche non sono estranee alle condizioni sociali, quindi non  riconducibili solo al teatro edipico familiare. Anche la contestualizzazione storica e la temporalità dello spirito dei tempi  nel mutamento vertiginoso della nuova modernità sono necessarie da considerare. Se oggi nichilismo reattivo, individualismo di massa, deculturalizzazione, sono le cifre del presente, teniamolo in conto e mettiamoci sempre  in attenzione.