Per un’ecopolitica della cura – I codici sociali mutageni della vita mentale

Luigi D’Elia

Riassunto

Questo contributo si propone di avviare un nuovo approccio al lavoro clinico-psicologico alla luce dell’esplorazione delle interazioni tra mutamenti sociali e vita mentale, ed intende suggerire conseguenti variazioni degli assetti interni dei professionisti in merito alle pratiche cliniche e clinico-sociali.
Si valutano quindi alcuni cambiamenti in ordine alle nuove “grammatiche” relative al rapporto con gli oggetti, al vissuto dello spazio-tempo, alla socialità, agli assetti del famigliare, all’identità sociale, all’identità professionale e si valutano, sul finale, alcune ricontestualizzazioni/riformulazioni dei propri oggetti professionali e delle proprie mission sociali.
Le nuove generazioni di psicologi, psicoterapeuti ed operatori sociali e del benessere necessitano, ed anche con una certa urgenza, di un ri-orientamento riguardo paradigmi e pratiche, a fronte di una maggiore complessificazione/accelerazione dei processi sociali negli ultimi decenni e delle conseguenti ricadute semeiotiche riguardanti sia le strutture che i processi narrativi della mente.
La tesi di fondo di questo lavoro è che molti cambiamenti dei nostri ecosistemi sociali e culturali degli ultimi anni, connessi ad ulteriori cambiamenti su innumerevoli versanti – politici, economici, tecnologici, simbolici – hanno determinato, e vanno determinando, cambiamenti di scenari esterni/interni con immediata ricaduta mutagena sulla psiche umana. Per il momento questi effetti mutageni possono essere visibili laddove più vistosi sono stati i cambiamenti di cui si accennava, e cioè nell’occidente, ma per opera degli attuali rapidissimi meccanismi di trasmissione globale, essi si suppone diverranno presto patrimonio comune.
A fronte di questo scenario, ci si affanna talora a ricollocare dentro categorie “nosofiliche” (mi si conceda il neologismo), l’intera società o il suo carattere prevalente: ed ecco che la società diventa di volta in volta borderline, narcisista, bulimica, depressa, panica, dipendente, si vanno talora a ripescare rassicuranti modellistiche onnicomprensive dell’edipo assente, del padre eclissato e depotenziato, e così via, ma con ogni probabilità questo sforzo “nosofilico” attesta solo che ci troviamo di fronte a nuove fenomenologie che, in quanto pervasive ed ubiquitarie, sono, per paradosso, in gran parte inosservabili. Ovvero, i fenomeni nuovi entrano assai silenziosamente nei nostri presidi (ambulatoriali e istituzionali) ed occupano già tutto lo spazio, sono cioè già parte dell’aria che respiriamo. Dunque accade che ciò che è visibile sotto gli occhi di tutti non sia osservabile, ma neanche raccontabile attraverso sintesi non banali e riduttive.
Il rischio reale che corriamo oggi, in quanto operatori di benessere, è quello di perdere fatalmente di vista gli orizzonti di senso che nutrono le nostre professioni sia riguardo le mete interne alle stesse professioni “psi”, sia riguardo gli statuti sociali e i mandati etici relativi al nostro stesso esistere in quanto “terapeuti”, in quanto cioè soggetti sociali che, per statuto, si prendono cura di altri esseri umani, dell’uomo in generale e delle istituzioni/organizzazioni/comunità in cui vive.
Il sentimento che mi precede e mi motiva è quello dell’insufficienza. L’insufficienza dei modelli di comprensione dei saperi e dei paradigmi psicologici e medici nel comprendere la progressiva opacizzazione dell’uomo contemporaneo. Questo determina, come intuibile, l’automatismo di vecchie griglie di comprensione e di vecchie procedure che rischiano in tal modo, sovrapponendosi forzosamente a nuovi fenomeni sfuggenti, di diventare iatrogene ed intrinsecamente invalidanti o, se tutto va bene, inutili.
Già da tempo e da più parti sta crescendo un movimento di idee trasversale che investe per ora gli osservatori più sensibili, i quali sottolineano la prossimità ad un punto di rottura a cui i nostri stili di vita e i nostri sistemi socio-economici ci hanno inesorabilmente condotti. Si parla, per ora, di impatto ambientale, di sviluppo sostenibile, di economia etica, di etica della responsabilità, di consumo e commercio etico, ma si comincia a parlare anche di sobrietà, di lentezza, di tenerezza, di risparmio, di recupero e riparazione, di nuovi stili di vita più accorti e consapevoli: una sorta di manuale d’istruzione per praticare una sorta di recessione felice, o una recessione possibile e percorribile, (vedere le concettualizzazioni di Serge Latouche e del movimento Decrescita*), sembra oramai diventato necessario alle prossime generazioni.
Non si tratta solo di punti di rottura eco-sistemici (politici, economici, sociali), pur evidenti, ma anche e soprattutto di criticità psichiche, inevitabilmente interconnesse con le prime e in qualche modo interdipendenti.
Gli appelli al cambiamento provengono, per il momento, da quelle parti della società più esposte a tematiche etiche (laiche e religiose) e sociali mentre gli altri “umanisti”, psicologi e psichiatri compresi, sembrano non curarsi troppo di questi problemi (sarà perché non si considerano umanisti?). O meglio, se ne curano, ma molto, molto più a valle, nei loro presidi, spesso inadeguatamente, in qualità di osservatori o a volte in qualità d’inventori di nuovi nomi da dare a nuove patologie al fine di ritagliare nuove fette di mercato per qualche farmaco miracoloso o per qualche nuova rivoluzionaria psicoterapia validata evidence based.
Ciò che mi appare invece evidente è che c’è qualcosa che non và.
Eppure l’osservatorio che gli operatori della psiche hanno la fortuna di utilizzare sembrerebbe l’ideale posto di vedetta dal quale indovinare per primi i fenomeni riguardanti l’uomo senza che ciò costituisca in alcun modo uno sconfinamento indebito in altri ambiti del sapere.
La fiducia nelle possibilità plastiche, autopoietiche, autoriparative, riequilibratici dei sistemi sociali e culturali, la sensazione cioè che comunque vada cascheremo in piedi e che il mondo procederà senza troppi intoppi, diventa sempre più ai nostri giorni come un sentimento inerziale di ottimismo, ma non si riesce ad intravedere all’orizzonte, per ora, alcuna forma di nuovo umanesimo.
Occorre allora con una certa urgenza evidenziare i nessi socio-culturali che presiedono le mutazioni in corso esplorando, per quanto ci è possibile, alcune aree d’interesse più specifiche, quali i cambiamenti della vita quotidiana, la semeiosi consumista, la struttura antropologica delle famiglie, alcuni vistosi processi di significazione della realtà che riguardano la comunicazione, le relazioni, l’identità, il rapporto col corpo, il rapporto con le comunità, con il tempo, etc., provando a cominciare a riconoscere le nuove “grammatiche del mentale” in relazione ai fenomeni metapsichici.
Sono consapevole che questo lavoro non può che avere, vista la vastità dei campi d’indagine toccati, un carattere introduttivo e propedeutico, una sorta di work in progress molto parziale e un pro-memoria per futuri psicoterapeuti. Diventa necessario da parte mia l’invito ai lettori ad articolare e promuovere la ricerca in questi ambiti appena dischiusi ed accennati in questo contributo.
Grammatica degli oggetti
Ogni psiche è abitata dagli oggetti, ma per i nostri antichi progenitori ogni oggetto ed ogni luogo era abitato dalla psiche, aveva cioè un suo spirito/carattere, un suo “genius loci”, l’ambiente e i suoi contenuti erano psiche alla stessa stregua dei pensieri e dei sogni. Probabile, in qualche misura, sia ancora oggi così.
Secondo Morin (1973), uno dei passaggi più significativi nella direzione dell’ominidizzazione fu quello concernente l’inedita dialettica, inesistente nel mondo animale, tra esperienza oggettiva ed esperienza soggettiva venuta alla luce allorquando i sapiens cominciarono a simbolizzare attraverso sepolture rituali e segni grafici alcuni input provenienti dall’ambiente (naturale e sociale) che ponevano di fatto questioni nuove alla psiche. Il mondo degli oggetti viene investito non più solo della sua neutrale fattualità, ma acquista improvvisamente una carattere rituale-simbolico soggettivo: le ossa dei morti vengono dipinte di ocra, gli animali e le scene di caccia vengono riprodotte sulle pareti della caverne, alcuni segni rimandano all’uso di oggetti quotidiani; alcuni sassi, prima indifferenti, vengono misteriosamente e ineditamente disposti secondo un ordine preciso. Ciò che prima era oggetto (inerte o naturale), viene ad assumere immediatamente una sua propria vita interiore, e la qual cosa rimanda al movimento (e-motus) che la situazione legata a quell’oggetto richiama: il morto che torna (probabilmente nei sogni) o che esilia ad altra dimensione; l’animale braccato e catturato dal gruppo che promette la sopravvivenza; l’arma o l’utensile che garantiscono il successo di un’operazione; la figura umana o sue parti che diventano per qualche motivo significative; etc. La nuova e strana commistione, che Morin definisce “torbida” tra esperienza oggettiva ed esperienza soggettiva rappresenta nella filogenesi una nuova articolazione che è il risultato di una preliminare complessità (specie-specifica, cerebrale) ed è a sua volta motivo di una maggiore complessità. In questa zona torbida, in questa terra di confine tra onirismo e veglia, gli oggetti oscillano tra una funzione puramente simbolica ed una puramente “strumentale”.
Dunque gli oggetti “concreti” sono importanti. Anche D. Winnicott lo aveva compreso quando, parlando delle esperienze transizionali precoci, aveva dato agli oggetti un ruolo centrale nella formazione della psiche infantile attribuendo loro dignità di esperienza fondativa. Il rapporto con gli oggetti, con le cose, dunque non è affatto neutrale. Una convenzionalità o, se vogliamo, lo sviluppo della civiltà, ha dovuto collocare gli oggetti su un registro “altro” rispetto all’esperienza interiore, per poterla manipolare meglio, la cosiddetta “res extensa”, ma non è sempre stato così.
La loro quantità, la loro qualità, il loro uso, sia che si tratti di oggetti naturali, sia che si tratti soprattutto di oggetti creati dall’uomo, ci raccontano dunque la storia di individui, famiglie, gruppi, comunità, come se ci raccontasse una catena di eventi successivi i cui reperti sono sotto i nostri occhi. Alcuni di questi reperti vengono sepolti da sedimenti e diventano archeologia, oggi sempre più rapidamente, e con essi si perde anche la memoria della storia.
La disciplina moderna che studia l’utilizzo, la distribuzione ed il rapporto con le risorse (in particolare in relazione alla limitatezza di esse) si chiama Economia, esiste però una fonte originaria, elementare e antropologica di economia che risiede nelle prime esperienze e che riguarda gli affetti, le emozioni, e le valenze simboliche del rapporto immediato dell’uomo con le risorse e gli oggetti: la psicologia dell’economia primaria ed elementare che diventa prestissimo, come tutte le forme di psicologia, funzione di variabili socioculturali sovraordinate. Occorre dunque restituire agli oggetti e alle risorse il posto che in realtà hanno sempre avuto, cioè quello di “operatori psichici e culturali” a tutti gli effetti.
Proviamo per un attimo a soffermarci e riflettere su come sia radicalmente e vertiginosamente cambiato, nel corso delle ultime generazioni, il rapporto con gli oggetti, intesi qui in prima battuta come “risorse”, la percezione personale e sociale che di essi hanno avuto ed hanno le diverse generazioni dall’ultima guerra mondiale ad oggi, quindi un periodo relativamente breve di circa 60-70 anni. In questo periodo si sono succedute circa 3-4 gruppi di generazioni. Facendo semplicemente appello a racconti e memorie che chiunque di noi può reperire all’interno delle proprie famiglie relativi alle vicende dello scorso secolo, è possibile osservare un radicale cambiamento del vissuto relativo all’incremento auspicabile delle risorse, procedendo dalla generazione dei padri-nonni fino alle attuali.
Si passa cioè da una percezione di questo incremento auspicabile ben confinato da dati di realtà modesti se non proprio sconfortanti (la fame), ad una maggiore fiducia, dal boom in poi, fino ad un vissuto contemporaneo divenuto irrealisticamente infinito ed espansivo.
Basta osservare una qualunque stanza di un bambino contemporaneo (in alcune di esse è faticoso avere accesso perché deposito caotico di centinaia di giocattoli) e ricordarsi una analoga stanza di soli 20-30 anni fa, od oltre.
Coloro che sono nati tra gli anni 70-80 fino ad oggi – nel punto apicale storico (assoluto) di disponibilità di risorse – sono le generazioni più consumiste mai comparse nella storia e via-via fino ad oggi. Dal punto di vista degli oggetti, delle risorse, a loro non manca nulla (mancano ben altre cose). Per queste generazioni il sistema di aspettative riguardanti le risorse è, in relazione alle generazioni precedenti (padri e nonni), profondamente stravolto: è crollato definitivamente il timore di scarsità o di esaurimento delle risorse (nonni), ma è quasi inesistente anche l’idea di un raggiungimento faticoso e progressivo delle risorse mancanti (padri); tutto è già a disposizione dalla nascita, ciò che si può desiderare già c’è oppure è fin troppo facile da ottenere. Le aspettative si ricollocano, a questo punto, sul ricambio di oggetti che diventano rapidissimamente obsolescenti e che dunque vanno continuamente rinnovati. Quindi, dicevo, la prospettiva d’incremento delle risorse è divenuta irrealisticamente infinita ed espansiva. Del resto, gli stessi modelli di sviluppo si fondano sull’acquisto e soprattutto sul consumo degli oggetti, e sull’idea stessa di obsolescenza, e la maggiore preoccupazione dei governi, e di tutto il sistema politico-economico, sembra essere quella di evitare un andamento deflazionistico, cioè una regressione dei consumi. L’intero sistema economico è basato sulla ricerca o creazione di nuovi mercati e dunque di nuove esigenze consumistiche, non c’è da stupirsi quindi di un’escalation che investe gli stili di vita, i modi di leggere la realtà, i rapporti tra le generazioni, tra gli individui e la stessa formazione di processi identitari.

Le ricadute di tale rapidissimo mutamento di rapporto con gli oggetti sulla psiche individuale e collettiva sono ancora lungi dall’essere compiutamente esplorate: i fatti sembrano precedere la capacità degli osservatori di analizzarli, tanto meno di prevederli. La rapidità dei passaggi e dei mutamenti psichici connessi non depone dunque a favore della loro comprensione.
Ma tornando allo specifico del rapporto tra le generazioni e le risorse, sembrerebbe che la psiche non abiti più gli oggetti, ma sono gli oggetti che hanno intasato la psiche impedendo ad essa la propria prerogativa, ovverosia, funzionare simbolicamente*. Una “costipazione mentale”, causata da una forma di incontinenza collettiva dalle conseguenze infauste. Coloro che parlano di “società bulimica” si riferiscono a questo genere di fenomeni.
Grammatica dello spazio-tempo
Nel suo (per noi fondamentale) libro “La fabbrica dell’infelicità” Franco Berardi, analizza, senza alcun margine di consolazione e con molta lucidità, come il progetto economico-culturale dell’occidente sia diventato, come appunto dice il titolo, una fabbrica di sordo ed universale disagio.
Molti i fattori in gioco secondo l’autore: le logiche del mercato e dei processi economici e di produzione del mondo globalizzato, le ideologie feliciste, progressiste e consumiste del neocapitalismo, le modificazioni degli assetti comunicativi e tecnologici che incidono sull’organizzazione del lavoro, lo sconfinamento delle logiche e dei tempi che scandiscono la vita lavorativa in ogni ambito esistenziale e relazionale. Berardi giunge e definire semio-capitalismo questo processo d’inglobamento del mentale e delle sue rappresentazioni in una vera e propria semeiotica pervasiva.

Paulo Virilio, in “Città Panico” parla del “crepuscolo dei luoghi”, la crescente velocità degli spostamenti divora i luoghi, le coordinate territoriali e ogni altro riferimento di posizione: “le distanze si sono annullate e gli intervalli di spazio e tempo sono scomparsi nella progressiva desertificazione e miniaturizzazione del mondo”.[..] “Dopo essere riuscita a miniaturizzare gli oggetti, le macchine, i motori, la tecnica ha infine raggiunto i propri scopi miniaturizzando i tragitti, i confini del mondo”.

Solo due autori… ma solo come semplici portavoce di un fiume di pensieri su questo genere di fenomeni per i quali assistiamo al continuo e progressivo sfilacciamento non solo delle reti relazionali, delle socialità e del fare comunità, ma anche delle rappresentazioni profonde che attengono all’assegnazione del tempo e dello spazio che ognuno di noi produce e che finisce per diventare modalità esistenziale, un essere nel mondo fortemente caratterizzante.

Tempi produttivi, tempi familiari e sociali e tempi liberi stanno diventando sempre più indistinguibili. Le priorità interne relative alla gestione del tempo vanno confondendosi in una sorta di “marmellata” nella quale i ritmi e le logiche che codificano la scansione della vita produttiva invadono continuamente la vita non lavorativa per cui gli spazi della vita privata e del cosiddetto tempo libero sono tutt’altro che porti franchi nei quali ritrovarsi e ri-crearsi, in genere sono gli spazi della propria famiglia (di origine o nuova) già strutturalmente contaminati da abitudini stereotipate (la tv accesa per molte ore al giorno, alla quale oggi si affianca il computer o altre amenità tossicofiliche per ammassare cervelli), o sono gli infiniti ed intollerabili spazi della solitudine, divenuta una sorta di solitudine di massa; e quando si cercano le alternative di “evasione” anch’esse in definitiva appaiono spesso appiattite, stereotipe e vuote.
Tempo per pensare fra sé e sé, tempo da passare senza alcuno scopo preciso con le persone amate solo per godere della loro presenza o per raccontarsi, tempo da dedicare a tutto ciò che è bello, tempo da dedicare alla propria peculiare forma espressiva e creativa, tempo da dedicare al mondo e agli altri, tempo per la cura di sé e del proprio corpo (in un’idea di fisicità che non sia quella della fitness): tutti questi spazi-tempo sembrano oggi essersi drammaticamente assottigliati se non addirittura scomparsi. Essere padrone del proprio tempo rimane una petizione di principio astratta, e la vita quotidiana appare regolata da logiche sovraordinate ed aliene (e alienanti) con le quali non sembra possibile alcuna interlocuzione trasformativa.

Grammatica della socialità

Questi vistosi cambiamenti nel rapporto con il mondo, ed in particolare riguardo le aspettative riposte sulle risorse, la loro disponibilità, e soprattutto l’idea di un’espansione illimitata di esse, ma anche questa nuove grammatica dello spazio-tempo e della sua assegnazione interna, incidono dunque sensibilmente sul mondo interiore nelle modalità qui accennate, ma molto probabilmente vanno ad incidere anche sul sentimento di precarietà che andrà drammaticamente trasformandosi nel corso delle generazioni.
Intendiamoci, ogni generazione ha le proprie preoccupazioni, le proprie tragedie e quindi anche il proprio particolare sentimento di precarietà legato alle impellenze storicamente ed eco-politicamente di volta in volta date, ma le attuali generazioni, nel percorso qui descritto, hanno fatto della precarietà la loro precipua condizione e tutto lascerebbe presagire scenari preoccupanti.
È evidente che non mi riferisco alla precarietà dovuta a carenza di risorse (anzi, come detto, da quel punto di vista il problema è esattamente l’opposto), ma alla precarietà come condizione interiore, direi come condizione spirituale che ultimamente trova sempre più sponda in condizioni sociali sempre più “precarizzanti”.
Sembra paradossale (ma poi neanche tanto) che l’era di massima disponibilità di “oggetti concreti” corrisponda all’era di minima solidità di “oggetti interni”. Nel pensiero psicodinamico il concetto che più si avvicina per descrivere questo fenomeno è quello di permanenza dell’oggetto interno amato (la costanza dell’oggetto), in altri termini la capacità che l’individuo matura nel corso della sua crescita di conservare ben salda la presenza dell’altro amato come certezza interiore anche in assenza di esso. Si tratta dell’argine alle angosce basiche (cresciuto in noi nel corso delle nostre esperienze di affidamento affettivo, precoci e non) che consente, tra le altre cose, di saper stare da soli senza sentirsi troppo soli; di superare perdite, abbandoni, e vicissitudini varie, nella fiducia di riscattarsi prima o poi; di amare ed essere amati e di desiderare l’altro senza sentirsene schiavo. Insomma la permanenza dell’oggetto interno che sembra essere la traccia psichica dell’altro significativo in noi, come un codice di appartenenza antropico, si va oggi gradualmente sostituendosi con una congerie di feticci e surrogati. Ma l’altro in noi non è soltanto il guardiano delle nostre angosce, egli diventa immediatamente mediatore simbolico, colui il quale con il suo apparato psichico declina con noi ed in noi, anche quando non è concretamente presente, gli eventi della vita, fornendo griglie di osservazione dei fenomeni, codificazioni affettive, categorizzazioni valoriali, suggerimenti strategici su tutto ciò che è la nostra esperienza.
Immaginiamo dunque questo gruppo di baluardi interni che ad un certo punto lascia inopinatamente il campo…

Zigmunt Bauman nelle sue acute analisi sulla modernità e postmodernità sottolinea come alla base dello scambio tra individuo e società nella postmodernità non vi sia più il noto motto freudiano <L’uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza>. La rinuncia ad investimenti libidici nell’orizzonte del principio del piacere consentiva, secondo Freud, la possibilità di dirottare quelle energie nello scambio sociale, in cambio di appartenenza, codificazione e in definitiva sicurezza. Oggi, dice Bauman, i valori conquistati di libertà e autodeterminazione individuale, tipici delle società postmoderne, hanno soppiantato ogni bisogno di sicurezza individuale iscritto nel sociale. Le istituzioni che prima garantivano, seppure nella loro rigidità e austerità, se non disumano totalitarismo, la definizione di idoneità sociale degli individui, si sono depotenziate e deteriorate per lasciare il posto ad una maggiore autodeterminazione individuale. Risultato è che le incombenze simboliche che l’individuo precedentemente condivideva con gruppi di appartenenza e istituzioni di riferimento, oggi ricadono sempre più sulla responsabilità soggettiva.
Ma l’individuo non può, da solo, declinare gli aspetti simbolici e sacrali delle procedure personali e sociali, pena il sovraccarico indebito dei processi psichici che si vedono inondati di compiti sovrapposti e irrisolvibili. Tutti i passaggi relativi agli snodi maturativi delle diverse fasi vitali, dalla nascita alla morte, corrispondono a momenti nei quali il riferimento alla comunità (intesa qui sia come interna che esterna, sia come rete naturale che sociale) è di fatto essenziale. Laddove le domande relative ai compiti e ai transiti per forza maggiore sono destinate a cadere nel vuoto, l’individuo non è più in grado di affrontare alcuna incombenza maturativa. Quindi si bloccano i processi e la socialità regredisce.
Nella logica della precarietà imperante della tardo-modernità la privatizzazione degli spazi simbolici, appannaggio degli individui isolati, viene compensata dall’iperproduzione di feticci del simbolo, i gadgets del mercato che diventano i nuovi parametri definitori di adeguatezza e idoneità sociale.
Il sentimento di precarietà è dunque un fenomeno ubiquitario e isomorfo: sia socio-culturale che individuale. Sul piano culturale si assiste al sovraccarico sull’individuo di compiti precedentemente ed eminentemente sociali, sul piano individuale si assiste al progressivo depotenziamento delle strutture psichiche relazionali immediatamente connesse alla vita sociale.
D’altro canto, sempre Bauman in “Modernità liquida” dice a proposito della dimensione di comunità: le comunità attuali “tendono ad essere effimere (…), incentrate su un unico aspetto o finalità. Il loro arco vitale è breve (…). Il loro potere emana non dalla loro durata prevista ma, paradossalmente, dalla loro precarietà e incertezza del futuro, dalla vigilanza e dall’investimento emotivo che la loro fragile esistenza reclama a gran voce”.

Le nuove “regole d’ingaggio” del famigliare*

Altri vistosi mutamenti si osservano a partire dalla struttura delle coppie e delle famiglie. L’osservatorio privilegiato dello psicologo-psicoterapeuta, consente l’esplorazione profonda e privilegiata del campo sociopsichico appartenente ad individui, famiglie e gruppi che si muovono nella contemporaneità e rileva, come prima ambientazione naturale e come prima interfaccia critica – tra l’individuale ed il sociale – i percorsi maturativi e i loro inciampi, nel campo mentale del famigliare e nell’arco vitale, dalla condizione di figlio fino a quella di nonno.
Il campo del famigliare, con il suo flusso figlio-coniuge-genitore-nonno, appartiene a tutti gli effetti al campo sociopsichico e ne è in qualche modo un suo isomorfo in quanto contesto primario e naturale di ambientazione/disambientazione di un percorso d’individuazione tra individuo e gruppo che vede nello specifico ambiente del famigliare un confine critico e rivelatore.
Intendiamoci, il flusso progressivo del ciclo vitale qui indicato – figlio-coniuge-genitore-nonno – non vuole minimamente rappresentare un modello o tragitto di idoneità (ci si può sentire pacificamente idonei e adeguati pur scegliendo di non percorrerlo). Non c’è dubbio però che gran parte di noi, volente o nolente, ci fa ingresso e ci si ritrova al suo interno ad affrontare numerose questioni. E le istruzioni per l’uso a cui fa riferimento il titolo sembrano essersi smarrite.

Diventa necessario interrogarsi circa l’attuale criticità che investe gli individui nei loro passaggi all’interno del campo sociopsichico delle famiglie di origine e, in successione, nei loro tentativi di attraversamento di nuove funzioni gruppali, affettive, coniugali e genitoriali. La prospettiva psicologica qui proposta ha numerosi vantaggi: quello di depatologizzare lo sguardo su individui, coppie, famiglie e società; quello di utilizzare modelli di comprensione umanistico-antropologici; quello di conservare saldamente una posizione critica e d’indagine su fenomeni in fieri e, per tal motivo, fuori dalla portata di una comprensione esaustiva.
L’immagine che l’esperienza clinica ci suggerisce, nelle recenti e titaniche fatiche dei nostri pazienti, è quella di una sopraggiunta, quanto apparentemente inspiegabile, farraginosità nell’imbastitura di trame psicosociali e valoriali nel determinare le “regole d’ingaggio” appartenenti ai diversi passaggi maturativi, e al progettare con un senso minimamente condivisibile modalità di essere dentro le relazioni familiari, vecchie e nuove.
Questi passaggi maturativi, fino a una/due generazioni fa, erano dunque ordinariamente regolati da silenziosi ed impliciti sincronizzatori socio-culturali sia per le modalità di transito, sia per le specifiche funzioni di ciascun passaggio. Non s’intende certo con ciò edulcolorare il passato come un’età dell’oro perduta, non c’è alcun rimpianto da parte di chi scrive a tal proposito, ma serve solo a dettagliare le evidenti discontinuità (fratture) tra epoche storiche di fatto vicinissime.
Negli ultimi decenni, infatti, gli stessi passaggi sono stati progressivamente delegati alla responsabilità del singolo individuo il quale si ritrova costretto a gestirsi in modo solitario, come detto sopra a proposito della socialità in generale, un carico simbolico-procedurale immane, dovendosi di volta in volta “inventare/re-inventare” ciò che attiene ad ogni passaggio e ad ogni funzione, senza il conforto di riferimenti chiari e condivisi. Chi vive, ad esempio, la dimensione della coppia stabile e della fondazione di una nuova famiglia sembra aver perduto le necessarie “interfacce simbolico-procedurali” con il corpo socio-culturale e con il campo transgenerazionale che in precedenza nutrivano ed orientavano scelte, strategie e prospettive relative ad ogni singola posizione. Ma la stessa cosa la si potrebbe affermare riguardo i primi passaggi “iniziatici” dell’adolescenza, della sessualità, della vita di relazione, della vita di gruppo, così come di ogni snodo biografico, accompagnato fino a ieri da un supporto simbolico-procedurale, oggi divenuto invece sfuggente, sfumato ed inaccessibile
Il cambiamento più vistoso in merito al flusso figlio-coniuge-genitore-nonno è a carico delle singole posizioni e dei singoli passaggi generalmente vissuti come alternativi e successivi anziché come articolati e aggiuntivi: sembra essersi perduta l’articolazione tra i vari passaggi biografici. Entrare in una piena posizione coniugale, ad esempio, spesso può coincidere con l’idea di perdita irreversibile e catastrofica delle prerogative-certezze della posizione filiale; ugualmente, entrare in una piena posizione genitoriale fa perdere, nel vissuto, le certezze e le attenzioni della posizione coniugale, e così via. Nella prospettiva dell’articolazione e addizionalità delle diverse posizioni nel flusso, chi diventa coniuge non cessa di essere figlio, chi diventa genitore non cessa di essere coniuge e figlio, chi diventa nonno non cessa di essere coniuge e genitore. Ma imparare a coniugare ed integrare, in un’articolazione più complessa, i diversi ruoli-funzioni che si sovrappongono in uno scenario interno più ampio, corrisponde attualmente ad uno “sforzo di fantasia” che rappresenta per molti un compito oggettivamente (e non soggettivamente!) ancora troppo arduo.

L’identità consumista (anche della psicoterapia: un po’ di pulci in casa nostra)

Il progresso non risponde ai bisogni, li crea (F. Lyotard)

La parola “consumismo” è piuttosto nuova, è infatti un “neo-logismo” derivato dal termine consumo, un “ismo” che ha circa 40 anni, poco più o poco meno. Nella mia vecchia Treccani degli anni ’70 infatti non esiste.
È curioso osservare come una parola poco prima inesistente sia diventata così pregna di senso in pochi decenni, ed infatti è l’identità consumista quella che maggiormente definisce l’uomo della modernità sia nella sostanza che nelle forme autorappresentative: in particolare l’uomo occidentale, esponente massimo della modernità, non può più realisticamente e propriamente autorappresentarsi come “essere umano” appartenente cioè ad una collettività planetaria, sia perché non rimane quasi nulla che lo accomuni all’uomo non-occidentale, sia perché nel proprio mondo non c’è alcun terreno comune valoriale di tipo “umanistico” che lo sostenga; non può più nemmeno autorappresentarsi come “cittadino”, termine usato durante la Rivoluzione francese, ma che io qui uso nell’accezione di appartenente ad una polis, cioè ad una comunità organizzata intorno ad una storia comune e a comuni sentimenti.
Non rimane che autorappresentarsi come “consumatore”: è questo che sostanzialmente il sociale si aspetta da un uomo e, cosa ancor più tragica, ciò che egli si aspetta da se stesso: appartenere alla comunità planetaria dei consumatori, al mondo-mercato, è questo ciò che lastrica la via verso la felicità e la vita migliore, è questo l’elemento accomunante dotato di un reale vigore simbolico.
Non più dunque l’appartenenza ad un credo, un’ideologia, un sistema politico o teocratico, ad un’ideale di società civile, oppure più concretamente ad una famiglia, tribù, comunità, contrada, nazione, gruppo di amici, che costituisce l’ossatura identitaria, l’essenza umana, ciò per cui l’individuo o il gruppo si autosserva e si riconosce in quanto “uomo” o genere. O meglio, tutto questo permane, ma è stato bruscamente sospinto sullo sfondo, eclissato dall’identità consumista, la vera novità della recente storia umana. Non più “sudditi” devoti di sovrani divinizzati a capo di città-stato ispirate e protette anch’esse da dei, non più umili servi di Dio iscritti in un progetto cosmico, non più “cittadini” di repubbliche utopistiche, di civitae ordinate, democratiche e giuste, non più difensori degli inalienabili diritti dell’uomo e dei valori universali, ma semplicemente consumatori: è questo ciò che ci rimane.

Inutile dire che la psicoterapia, ovviamente, e come tutte le altre discipline scientifiche, è anch’essa a pieno titolo inscritta nelle logiche genetiche del consumismo, non può chiamarsi fuori dall’ipermercato, i suoi atti e le sue riflessioni sono tutt’altro che sciolti dai vincoli del pensiero e della prassi consumistici.
Solo che, prefiggendosi come “scopo nobile” il benessere della persona, non può non tenere conto delle trasformazioni eclatanti degli statuti fondativi l’identità umana. La sua posizione denuncia dunque un certo “imbarazzo” dovuto al “conflitto d’interesse” che viene a verificarsi tra la difesa del proprio obiettivo profondo (l’anima e la sua realizzazione) e la propria stessa esistenza in vita in quanto parte, seppure circoscritta e limitata, di un sistema culturale invaso dalle logiche consumiste. Conflitto che risiede nel non poter servire contestualmente e con disinvoltura due padroni così diversi e lontani.

In un’economia di uno stato, se si comincia a stampare ed invadere la società di moneta falsa o di moneta che non corrisponde a vera ricchezza, l’inflazione divora il tessuto connettivo di quello stato fino a quando lo stato va in default con tutti i disastri connessi.
Questo accade al tessuto morale e civile di una società se le sue istituzioni scientifiche, sanitarie, etiche, politiche cominciano a saturare il “mercato” con la propria moneta falsa: solo che il default in questo caso non corrisponde al fallimento economico della società, ma alla perdita di interesse e vitalità, alla perdita della speranza, all’inaridimento di prerogative umane.
Accade così che anche la psicoterapia – come molte altre discipline del resto – si ritrovi in certi momenti storici (come questo) a battere moneta falsa, si arrocchi cioè dietro fragili apparenze (suggestioni di potere istituzionale), mostrando di sé il proprio volto peggiore fatto d’inconsistenza, inefficacia, irresponsabilità.

Si batte moneta falsa già dalla formazione universitaria di base in Psicologia, un massimo di disorientamento e di confusione epistemologica, un minestrone insipido che quando va bene lascia un sentimento di inutilità e insoddisfazione, e se va male ci si convince del valore assoluto del proprio percorso culturale.
Si batte moneta falsa in molte (più di quanto si creda) esperienze analitiche personali, enfatizzate oltre misura ad uso e consumo (appunto) di un “mercato” chiuso su se stesso che vede negli studenti-laureati-specializzandi una delle principali voci di bilancio degli analisti: spesso durano ingiustificatamente all’infinito e determinano sentimenti di dipendenza e affiliazione.
Si batte moneta falsa nelle scuole di formazione post-universitarie (pubbliche e private), che corrispondono a tante piccole chiesette, ciascuna col proprio culto locale, più o meno accreditato, spesso raccolte intorno a poche teste pensanti (spesso anche figure carismatiche) e ad una gran massa di zavorra, nelle quali a volte non vi è alcuna ricerca, alcun dibattito, nessuna apertura al mondo, ma solo mera gestione di allievi-merce e riproposizione rituale e pedissequa di slogan ideologici e di prassi obsolete.
Certo, questo sconsolante quadretto non corrisponde alla realtà parallela dell’invisibile massa di colleghi, che non fanno audience, fuori dai circuiti o marginali, e che ce la mettono tutta in buona coscienza e con eccellenti risultati, nonostante le istituzioni che li rappresentano.

Il problema rimane allora “come sopravvivere e non affogare nelle logiche consumistiche”.
Cominciamo col dire, fuori da ipocrisie, che la psicoterapia offre prodotti di consumo ed i suoi clienti la utilizzano a volte in questa chiave. Molto spesso mi è capitato di pensare che la maggior parte di coloro che ne avrebbero giovamento non la utilizzano, non intravedono cioè itinerari di accesso, mentre tra coloro che la utilizzano, pur avendone giovamento, molti potrebbero farne a meno ricorrendo a dispositivi socio-relazionali più semplici e diretti (e più economici).
Una domandina sull’inefficacia relativa alla strategia del marketing si pone. Ma si pone a maggior ragione una domanda più profonda che riguarda lo statuto sociale della psicoterapia, il suo posto e la sua effettiva funzione nel mondo.
La psicoterapia è generalmente considerata, nell’immaginario collettivo, ma anche nella sua codificazione sociale, una branca sui generis della scienza medica che si occupa dei disturbi della mente, del comportamento, del disagio psicologico-esistenziale, del disagio familiare, di coppia e, nelle sue derivazioni sociali, di gruppi e istituzioni. Una branca della medicina che in definitiva si affianca al lavoro di altri operatori della salute, e del sistema socio-sanitario, utilizzando essenzialmente un comune bagaglio di simbologie e un comune orizzonte di senso, ma anche un comune pensiero scientifico, fondato su prove empiriche e/o sperimentali. Nella storia della psicoterapia la stragrande maggioranza dei fondatori erano medici, e ad oggi afferiscono alla specializzazione e all’esercizio della psicoterapia medici e psicologi, mentre gli specializzati in psichiatria li si considerano già psicoterapeuti d’ufficio, quasi per investitura divina.
Si, ma qual è il prodotto della psicoterapia?
Nel supermarket della salute lo scaffale della psicoterapia lo troviamo subito dopo quello del medico di base, quello del neurologo, quello dello psichiatra, e subito prima quello della medicina alternativa, del guaritore e del mago.
Ci troviamo di fronte ad una macroscopica menzogna conseguenza della mentalità consumistica imperante, per cui sono le logiche di mercato, in questo caso il mercato della salute, della felicità, del benessere, ad orientare forzosamente gli schieramenti sociali e le spartizioni delle torte, sulla base di ruoli e funzioni sociali tradizionalmente accreditati (anche da millenni), per cui guaritore, taumaturgo, medico, confessore, precettore, guida spirituale si sono aggiornati indossando il vestito talora del medico, talora dello psicoterapeuta, talora dell’esperto carismatico, e chi aveva già radicamento in questi territori ha potuto ovviamente dirigere meglio le spartizioni i flussi economici e i trasformismi. Lo psicoterapeuta si è dunque ritrovato a dividere le stanze dello stesso ambulatorio medico, occupandone però uno sgabuzzino non attrezzato.
In tutto ciò, quello che è completamente sfuggito nella lenta e faticosa elaborazione sociale, anche a causa dell’irrilevanza politica dei protagonisti di queste fasi elaborative, è stata proprio la definizione del territorio di azione della psicoterapia in quanto nettamente distinto dal territorio di azione del medico (così come è comunemente inteso oggi), ma anche del mago e del confessore.
Nella suddivisione di territori scientifici e scopi sociali, la psicoterapia è vittima di grossi equivoci ancora lontani dall’essere chiariti. Il primo di questi riguarda l’irresolubilità e l’incomprensibilità del confine natura/cultura, sul quale tipicamente si colloca lo psicoterapeuta nel suo occuparsi dell’uomo, e l’uomo è strutturalmente, direi geneticamente, articolato misteriosamente su tale valico. Il pensiero filosofico-scientifico non ha risolto (e semmai lo risolverà mai) questo nodo ed è sostanzialmente sommerso dalla complessità di tale questione. Nel frattempo, però, qualcosa bisogna pur fare. Il sociale non può attendere né sopportare la sospensione del problema: alcune risposte vengono pretese.
In attesa di una maggiore chiarezza, vigono le precedenti e antiche rappresentazioni sociali e la mappa di tale geografia si divide essenzialmente tra coloro che cadono nel campo gravitazionale della medicina e dei suoi metodi (i mediconzoli, come diceva un salace collega), con la prevalenza di approcci tecnico-scientisti (la maggioranza), e coloro che cadono nel campo gravitazionale del precettore-guida, i quali pur utilizzando una veste scientifica (mondana) utilizzano modalità iniziatiche all’approccio verso le proprie pratiche e le proprie teorie. In realtà tale geografia è molto più articolata e sfumata, c’è anche il campo gravitazionale del taumaturgo, lo psicoterapeuta santone e carismatico, ed altre rappresentazioni ancora, ma si tratta di situazioni minoritarie.
Conseguenza di questa ineffabilità dello snodo natura/cultura è l’indecifrabilità e indefinibilità dell’oggetto del quale si occupa, quindi l’impossibilità di sottoporlo pienamente ai soli metodi delle scienze della natura o viceversa ai soli metodi delle scienze umanistiche. Da qui consegue ulteriormente, direi a cascata, una serie di questioni legate alle metodologie di osservazione dei fenomeni, alle epistemologie, alle teorie della tecnica, ed infine alle pratiche, il tutto contraddistinto da una notevolissima varietà di voci per alcuni ritenuta segnale d’inattendibilità, per altri segnale di ricchezza e di spirito di ricerca.
Insomma, questa casa non sembra poi così ben progettata e costruita nelle sue fondamenta e l’intera struttura appare fragile e si presta a facili critiche.
Basti pensare a quanto sia facile mettere in crisi l’intero sistema ponendo delle semplicissime domande alla psicoterapia come queste: la psicoterapia guarisce? E se non guarisce cosa fa? E se guarisce come lo fa? È possibile stabilirne la durata? È possibile definirne univocamente i fattori efficienti ed isolarli? È possibile stabilire una connessione certa tra singola problematica e metodologia/strategia di cura? È possibile descrivere le procedure secondo protocolli? È possibile sottoporre ad analisi sperimentale tali procedure?
Queste sarebbero le domande di uno scienziato alle quali, aimé, credo proprio nessuno sia in grado oggi di poter rispondere con inequivoca certezza.
Chi decide di abitare in questa casa decide di tollerare queste insufficienze strutturali e di assumerne i rischi.

Qualche finestra clinica

Scelgo volutamente degli scorci di intervento ambulatoriale e privato poiché le contraddizioni dei presidi istituzionali e comunitari, essendo ancor più evidenti ed eclatanti, costituiscono osservatori più diretti.
Chiunque si addentri nelle pieghe delle istituzioni e organizzazioni di cura e formative conosce bene i più recenti processi di alienazione e di anomia che producono costanti disservizi e trascuratezze e costanti fenomeni di cecità collettiva verso l’umanità delle persone che vi si rivolgono.
Più sottile invece l’esplorazione del campo ambulatoriale e privato dove l’istituzione-psicoterapeuta incontra il sociale-individuo o il sociale-gruppo attraverso l’intreccio di variabili intervenienti ed impreviste.

Una vita in esilio

<Dottore, oggi sono veramente stanca, questo lavoro mi succhia l’anima> mi racconta praticamente ogni volta che si siede dinanzi a me Annamaria, una trentenne segretaria di azienda, da poco assunta a tempo indeterminato dopo anni di lavoro interinale; lei infatti si considera una “fortunata” anche se ha sempre odiato il proprio lavoro. <Come è organizzata la sua settimana, tra impegni lavorativi e tempo libero?> chiedo ingenuamente, <arrivo alle 8.30, tre quarti d’ora di pausa per il pranzo, e lavoro fino alle 18,00-18,30…sa, la mia collega deve andare via alle 16,00 e qui c’è da fare e se non ci sono io…>. Non mi pare poi così dispiaciuta. Faccio due conti, sono circa 9 ore (la pausa non è pagata) per 5 giorni, 45 ore minimo. Annamaria mi confermerà che il suo monte ore di straordinari (20 ore mensili) a volte viene superato abbondantemente, il suo contratto prevede l’orario di fine turno alle 17,00, ma non importa, Annamaria si sente costantemente sotto esame, in prova, deve dimostrare di essere in grado di sostenere i ritmi e gli impegni richiesti, l’ufficio dopo le 16,00 si rivolge tutto a lei; il tutto per un compenso di poco superiore ai 1000 €, appena sufficienti per pagare l’affitto di una stanza in appartamento con una collega al Prenestino e le altre spese di routine. <Si ma tornata a casa? I weekend?> <arrivo stremata a casa verso le 19,30, il tempo di prepararmi la cena e mi vedo la tv…non ho molta voglia di uscire e poi non ce la faccio proprio…nei weekend a volte esco, sempre con le stesse persone, ma non mi diverto, non mi rilasso molto, poi ho il corso di francese il sabato, il cineforum in parrocchia la domenica… mannaggia a me che mi sono presa ‘sto impegno…>,<nella sua casa nuova dunque non ci passa molto tempo, come mai?>, <non lo so…>È evidente che per Annamaria il lavoro è la parte della sua attuale vita, dopo la famiglia di origine, che per quantità e qualità definisce maggiormente la sua posizione nel mondo, il tempo solitario e “vuoto” della nuova casa, conquistata faticosamente dopo mille esitazioni e paure, è un tempo senza progetto e senza soggetto che si riempie immediatamente di angosce. Annamaria giunge in psicoterapia con l’idea di affrontare la sua insoddisfacente vita affettiva, ma anche per risolvere alcune blande sintomatologie psicosomatiche e di conversione, e comunque un’immagine del proprio corpo femminile svalutata. Evidentemente l’inevitabile riformulazione avvenuta durante il percorso ha inscritto la sua domanda di cura in un movimento molto più articolato riguardo la sua vita, ma oggi Annamaria si ritrova, dopo aver conquistato lavoro, casa, autonomia decisionale, come in esilio alla rincorsa di mete emancipative solo sulla carta, ma che non assumono per lei alcuna profondità o sentimento di verità.

Post-human-tetrapack
<Maurizio, i tuoi genitori sono molto preoccupati per il fatto che trascorri troppo tempo su internet a svolgere i tuoi giochi di ruolo. Che idea ti sei fatto della tua situazione?> <Boh…, …ma no, loro si preoccupano troppo…>, un filo di voce appena percettibile, interminabili silenzi.
Maurizio, 15 anni, arriva da me, dopo che ho incontrato i suoi genitori (separati dalla sua nascita) perché trascorre dalle 12 alle 18 ore al giorno sui giochi di ruolo su internet, trascurando tutto il resto. Famiglia benestante, colta, civile, piena di risorse, affettuosa. Il ragazzo anche lui, nonostante l’impatto demotivato/demotivante, in realtà non ha tagliato i ponti col mondo esterno: frequenta compagni di scuola, scout, la fidanzatina, fino a poco tempo prima, è un genietto del computer, programma in Linux come se scrivesse, ha quattro computer sparsi per le case dei genitori, zoppica a scuola, ma perché veramente non gliene frega niente (come dargli torto…). Ugualmente Maurizio viene a parlare con me solo perché glielo chiedono i genitori, abilissimo ad opporre una strenue resistenza passiva ad ogni iniziativa adulta, provando a sopravvivere e a barcamenarsi, ha imparato precocemente che meno parla di sé e meglio è.
Due mesi di silenzi nei quali la mia funzione si limiterà a segnalare i rischi della situazione e della sua evoluzione provando a promuovere un minimo di riflessione su come mai avvengono certi fatti come quello capitato a lui. Provo a mostrarmi interessato ai giochi di ruolo, ma figuriamoci se mi rendo minimamente credibile. Dunque nessuna risposta empatica, nessuna forma di alleanza, tutto sembra passivamente scorrere in un vuoto di relazione, in assenza di dialettica, al massimo qualche smorfia di diniego a dire che non si ha voglia di toccare certi argomenti troppo personali. Una consumata abilità ad ottenere tutto con il minimo sforzo, mostrandosi intolleranti verso ogni piccola frustrazione.
Solo in un momento, sempre con un filo di voce appena udibile, durante uno dei miei faticosissimi tentativi di stabilire un contatto, riuscirà a replicare a proposito della comunicazione mediatica: <i telegiornali mentono su tutto…> , mostrando sicurezza e consapevolezza non certo attribuibili a un ragazzino di 15 anni.
Fortunatamente di li a poco la situazione rientrerà (l’allarme viene raccolto) seppure Maurizio decida di interrompere la mia frequentazione (tre mesi più tardi sarà suo papà a chiamarmi per farsi dare una mano nello svolgere la sua funzione).
Anche qui in assenza di un vero “spessore esistenziale”, di una trama psico-relazionale minimamente supportiva dell’identità, il ragazzino si organizza in qualche modo un proprio scenario tecno-umano alternativo che per un momento gli prende la mano. L’ancoramento alla realtà lo salva, ma rimane la sensazione forte di una “labilità strutturale” di verità (o veracità) umana che induce una precocissima sfiducia nelle relazioni e nel loro potere di “cura”; si sviluppano allora, altrettanto precocemente, dei meccanismi di “protezione narcisistica” (quelli disparatissimi a disposizione in ogni momento) costruiti quasi sempre da materiali non-umani o pseudo-umani, che sarebbe come dire <avrei bisogno di latte, ma intanto mi mangio il tetrapack>. In un mondo ripetitivo e noioso l’unico modo per starci, abitarlo e sentirsene parte evidentemente è quello di mimare la sua intrinseca compulsività.

Pochi millimetri quadrati di pelle

Viola entra invariabilmente nel mio studio trafelatissima con una borsa 12 ore stracolma nella destra, mazzo gigantesco di chiavi nella sinistra, per darmi la mano mi offre il mignolo della mano sinistra, l’unico libero. Le lancio uno sguardo di benevolo compatimento.
45 anni, insegnante di lingue in una scuola privata di “famiglia”, della quale si occupa non solo come docente, ma anche come “affittacamere” (non proprio legale) di lofts appositamente ristrutturati all’ultimo piano dell’edificio scolastico. La sua vita si muove tra l’impossibilità di svolgere le proprie funzioni prima come figlia di un padre ricco, poi fallito e alcolista e di una madre distante; poi come giovanissima moglie di un marito che la scarica violentemente con due figli piccolissimi facendo richiesta di annullamento alla Sacra Rota per presunta omosessualità; poi come mamma lungamente sofferente ed incapace di svolgere il proprio ruolo, ed infine come lavoratrice, conosce bene 4 lingue e si sente sprecata come insegnante.
Viola appare come una nobile decaduta alle prese con i “cocci” di una storia personale e familiare segnata da onte e sconfitte. Vuole recuperare il rapporto con i figli, usciti giovanissimi di casa, vuole trovare una sua collocazione professionale adeguata, vuole soprattutto riabilitare la sua storia familiare costellata di ipocrisie, manie di grandezza, scivoloni morali.
<Viola, è riuscita a parlare con suo figlio grande?>, <Mi preoccupa molto la sua freddezza e la sua chiusura…l’altro giorno per telefono gli ho detto che con lui ho sbagliato tutto, gli ho chiesto di perdonarmi, ma gli ho anche ricordato quando da piccolo lo portavamo a mare e gli insegnavo a nuotare…gli ho detto che gli voglio bene…lui improvvisamente per la prima volta si è sciolto, mi ha detto che mi vuole bene>, <Che bello questo che mi sta raccontando… quando lei riesce a trovare il tempo nella sua vita per curare i suoi affetti tutto sembra più facile>.
La volta successiva, stessa scena trafelata: borsone, mazzo di chiavi, mignolo, stesso ingorgo di impegni, pensieri, preoccupazioni, del figlio non se ne riparla, si accavallano altre situazioni, sia aprono mille stanze e non si riesce ad abitarne una. L’unica sinapsi, l’unico punto di scambio è relegato ai pochi millimetri quadrati di contatto del mignolo (il dito più piccolo…) che rievocano marginalmente una stretta di mano.
Questa cos’è, ansia, maniacalità, superficialità? No, non credo. Cioè, non credo sia esaustiva la fenomenologia psicopatologica per comprendere. Viola non ha realmente tempo per soffermarsi. Stiamo parlando del tempo soggettivo ovviamente, cioè dello spazio nella propria mente da assegnare a questioni diverse da quelle che ingombrano il campo. Semplicemente non è prevista alcuna assegnazione (tranne quando è in terapia o in altri fugaci momenti intimi con amici). Tale mancata previsione di assegnazione non è un evento soggettivo o intrapsichico.
<Viola, mi perdoni, le posso chiedere di darmi tutta la mano destra quando mi saluta? Sa, questa mi sembra una bella metafora della sua situazione: un ingombro che rende scomodo ed impercorribile tutto. Grazie, arrivederci>.

Troppo tardi per un figlio?

<Sa dottore, mi sono resa conto che gli obiettivi nella vita di mia madre – mettere su famiglia, crescere dei figli – sono molto diversi dai miei. I  miei sono avere un uomo accanto e realizzarmi nel lavoro, tutto qui>.
È con una certa sorpresa che Fiammetta, trentottenne consulente imballatissima di lavoro, scopre che in circa quarant’anni si sono trasformate profondamente le mete interiori delle persone.
Fiammetta si presenta un anno prima da me in preda ad una crisi perché il suo fidanzato le dice dell’intenzione di allargare il proprio mondo affettivo ad un’altra donna presente nel suo cuore. Ella, donna dotata di rara intelligenza ed intuizione, non ha invece alcuno strumento di lettura di questi fatti, è in scacco totale e finisce per accettare, seppure con enorme disagio e confusione, questa nuova situazione.
Fiammetta ha da poco accettato un incarico di responsabilità della sua azienda e per lei, come per tutti i consulenti e per la gran parte dei lavoratori, essere parte di un progetto aziendale significa non avere limiti di spazio e di tempo da dedicarvi, lei che è sempre stata così bravina, disponibile con tutti, a cominciare da sua madre la quale, quando lei era piccola, minacciava costantemente il suicidio durante le liti col marito.
Fiammetta entra nel gruppo e dopo un paio di anni (e dopo aver rivisto un po’ di cose) lo scenario è radicalmente cambiato: ora convive con il suo compagno e, contrariamente a quanto pensato in precedenza, stanno provando a fare un figlio. Ma forse è troppo tardi a 40 anni, non ci riescono. Non ne vuole parlare molto.
Fiammetta dice: <ho capito che per mia madre è stato un vero sacrificio mettere su famiglia e convivere con mio padre… guarda un po’, non ricordo abbia mai detto e passato a me e mio fratello l’idea di un nostro figlio e suo nipote…>.
Nonostante il suo annullarsi per il lavoro sia radicalmente cambiato ed abbia assunto un pensiero costruttivo e critico su questa faccenda, continua comunque ad arrivare con la sua solita mezz’ora di ritardo al gruppo, pur con una partecipazione sempre intensa e con una rinnovata capacità di scambio e decisamente con una nuova socialità. Il suo percorso volge al termine seppure senza una lieta novella e con l’idea malinconica che alcune cose, come la biologia e il travolgimento nelle logiche aziendali (entrambe apparentemente ineluttabili!), non cambieranno come lei avrebbe desiderato. Rimane ugualmente una grande speranza che si traduce in uno rinnovato slancio vitale.

Il catalogo della mutazione

Proviamo ora, un po’ per gioco, a buttare giù un catalogo orientativo degli ambiti della nostra esperienza soggetti a mutazione e soggetti di mutazione, gli eco-sistemi simbolici (e non) che rappresentano i confini sensibili entro i quali noi tutti ci muoviamo, i medium più o meno fluidi (o più o meno solidi) che costituiscono la materia prima, l’alfabeto elementare della nostra trama semeiotica profonda.
La prospettiva, mi rendo conto, può inizialmente apparire alquanto inquietante, ma può essere invece assai utile soprattutto per coloro che pretendono di occuparsi di benessere psichico, mi riferisco oramai alle future generazioni di psicoterapeuti/psichiatri (visto che le attuali possono solo limitarsi a mettere le basi delle future analisi), ma è estendibile a sociologi, politici, antropologi, filosofi, etc., come griglia osservativa con la quale imparare a monitorare certi movimenti “ecologici” e collettivi che hanno un immediato risvolto nella formazione umana.
Alcune voci sono state appena sviluppate in questo contributo (e molto altro c’è da capire), altre vengono solo accennate qui di seguito, altre ancora possono essere senz’altro aggiunte all’elenco.

Ambiente    non appartenenza ad esso, insensatezza, bruttezza, rumore, puzza
Comunicazione    cyberspazio-cybertempo, anonimato, non corporeità, regole nuove, virtualità, lavoro digitalizzato, collassamento dei tempi del pensiero (stile tv, internet), anti-conoscenza.
Comunità    smantellata, disaggregata, comunità patologiche, non appartenenza, disidentità, non convivialità
Coppia-Famiglia    a-progettualità delle coppie, nuove regole d’ingaggio dei transiti familiari, struttura mobile della famiglia, funzioni incerte, educazione incerta (vedi sopra)
Corpo    investito di concretezze mitologico-sociali, disinvestito-superinvestito, economicizzato, immagine-schema in crisi/trasformazione
Identità    sentimento di vuoto, disancoramento, ri-ancoramento su strutture evanescenti
Infanzia/Adolescenza    disincanto precoce, codice bulimico, passaggio all’atto, iniziazioni inconsistenti e malriuscite (non simbologene)
Informazione    eccesso, non selezione, marmellata, falsità/manipolazione, indifferenza-anestesia
Interiorità/Pensiero
/Insight    non vissuto, annullamento del preconscio, pericoloso, rivoluzionario
Intimità/Relazioni personali    Deprivati, inariditi
Lavoro    semio-capitalismo onnipresente e allagatorio, logiche lavorative codificanti l’identità, i vissuti di tempo e spazio, le relazioni, gli affetti.
Politica    retta da logiche unicamente economiche e consumistiche, impotente, anetica, non autorevole
Qualità della vita    concetto svuotato
Quotidianità    noia, anedonia, astenia, vuoto, tempo che sfugge, logiche lavorative.
Rapporto con oggetti e risorse    bulimia, obsolescenza-distruttività, feticismo, non desiderio, aspettative irrealistiche di disponibilità e espansione, semio-consumismo.
Rapporto Individuo/Società    svuotamento dei compiti definitori delle istituzioni, affollamento di compiti simbolico-evolutivi delegati all’individuo, alla coppia, alla famiglia, non gratuità dello scambio (vedi sopra)
Salute (vita e morte)    oblio e oscenità della morte, salute medicalizzata, scientificizzata, sterilizzata, illusione della “salute migliore”
Tempo    non siamo padroni del tempo, accelerazione, ansia, vertigine, non meditazione

Cosa altro possono fare gli operatori del benessere?

La psicoterapia è un atto politico? È un atto ecologico? Mi domando se a questo punto del mio argomentare sia ancora possibile eludere queste due domande.
In una società ed in un periodo storico nel quale il rapporto con gli oggetti, col tempo, con l’ambiente, con la società, con la quotidianità, è impazzito non ci si può più sentire pienamente operatori di benessere senza sentire il dovere di assumere questo impazzimento come punto di partenza del nostro lavoro.
Occorre, a mio parere, visualizzare in modo chiaro e forte che ciò che accade al mondo sta già accadendo a noi, e se il mio ambiente di vita è scomodo, è pieno di oggetti orrendi, è saturato da inquinamento sensoriale e da inquinamento d’informazioni, è diventato una sorta di medium accidentale e svuotato di anima avvolto in una nube di gas venefico, se le istituzioni che mi rappresentano, dalla famiglia allo stato, passando dai luoghi di lavoro, comunità sociali, scientifiche, politiche, non sono altro che simulacri che rappresentano null’altro che la sopravvivenza della propria immagine, ebbene questo vuol dire che star male non è nulla di strano: è esattamente attinente. Non è importante sapere se è stata la mia demenza a provocare questa invivibilità o se il mio star male è una conseguenza dell’invivibilità, l’importante è sapere che le due cose avvengono contestualmente perché semplicemente sono una sola cosa. E tutto questo, guarda caso, avviene anche nelle mie relazioni personali, familiari e sociali, non perché vi sia una qualunque sorta di maledettissima causalità tra questi eventi (occorre una volta per tutte riscattarci dal pensiero etiologico), ma perché io sono le mie relazioni, e le mie relazioni sono una parte del mondo, esse sono parte del mio ambiente. Le mie relazioni, inoltre, non nascono con me e non esistono fuori dal mondo, esse esistono già da prima, sono genealogicamente strutturate.

Superato il dualismo mondo-mente, il luogo della psicoterapia diventa quel luogo se vogliamo più o meno convenzionale e artificiale, oppure più o meno formale o conviviale, dove due o più persone s’incontrano per pensare intorno ad ogni luogo mentale che si renda in qualche modo significativo. Compreso il luogo della psicoterapia, compreso l’ufficio, il quartiere, il governo, e ovviamente compreso il mondo familiare e relazionale, la vita quotidiana, le comuni abitudini.
Questa prospettiva introduce delle inevitabili modifiche della teoria della tecnica ed un cambiamento di statuto piuttosto significativo. Le vignette cliniche sopra riportate sono solo un iniziale introduzione di un cambiamento di assetto interno del cosiddetto terapeuta costretto (dai fatti) a pensarsi come un accompagnatore di/in nuove complessità, un co-pensatore di vicende molto diverse da quelle per le quali le agenzie formative lo hanno generalmente orientato.
Non occorre stravolgere le forme tradizionali di psicoterapia facendone un’altra cosa (un colto salotto, un atelier sociologico, una setta iniziatica, un circolo di eletti: il rischio della vulgata tra gli operatori della cura rimane altissimo); la psicoterapia deve continuare ad utilizzare gli strumenti che gli sono propri, la parola, lo scambio, l’incontro di anime, il prendersi cura, e finanche i suoi parziali modelli di comprensione del mondo e le sue velleitarie tecniche, solo che dovrebbe poter immaginare di occuparsi di un territorio notevolmente più ampio di ciò che le istituzioni psicoterapeutiche (interne ed esterne) sono riuscite fino ad oggi ad immaginare.

In questa prospettiva allora, la psicoterapia non potrà essere più tale se non in quanto azione politica, se non assume cioè “il senso dell’agire “terapeutico” iscritta nell’etica della liberazione, della dignità e dell’autodeterminazione di individui e gruppi sociali: assume senso voler incrementare il benessere se questo proposito si colloca su un orizzonte più ampio, che riguarda cioè, più precisamente, la politica dei legami sociali e la responsabilità ad essa connessa.

Lo scatto in avanti della psicoterapia e il riconoscimento di una prevalente mission sociale può allora finalmente corrispondere a questa augurabile metamorfosi profonda, a questa responsabilità etica verso la collettività, ed indicare una più verace collocazione di tali saperi in ambiti scientifici più adeguati a tali scopi e alle proprie prerogative: quelli umanistici, antropologici, sociali.
Per di più, solo riconoscendo questa prevalente mission sociale, è possibile per la psicoterapia distinguersi e riscattarsi dalla pervasiva “commercializzazione della salute” che caratterizza ogni atto ed ogni pensiero terapeutico nella postmodernità, proprio in virtù del fatto che il deliberato ancoramento della psicoterapia agli interessi prima descritti (liberazione, dignità, autodeterminazione) implica una sua non neutralità e una posizione necessariamente critica verso i pre-giudizi economicistici e consumistici propri della nostra epoca.

Più opportuno allora sarebbe parlare di psicoterapia per il sociale, o nel sociale, una psicoterapia debitrice di un’ottica trasversale che s’informi e s’intrighi di questioni superindividuali e metapsichiche, che attinga a saperi contigui, e che utilizzi tutto ciò nei contesti tradizionali (e non) arricchendone le prassi e le osservazioni. Una psicoterapia, per di più, che non esiti a transitare, oltre che con i propri pensieri e modelli, anche con le proprie pratiche, e si avvicini quanto più e possibile ai luoghi di vita dove si producono i malesseri individuali e sociali; una psicoterapia “sul campo” che intercetti le domande senza necessariamente attenderle, a volte vanamente, nei propri presidi-fortini istituzionalizzati (studi privati, ambulatori pubblici, istituzioni).” (Luigi D’Elia La mission sociale della psicoterapia – Parte I  )

Conclusioni

Per concludere, la revisione dei processi psicoterapeutici suggerita in questo contributo prevede che almeno due macro-aree devono poter irrompere sulle scene dei percorsi di cura, in ogni ambito essi avvengono:
una specifica attenzione alle condizioni socio-culturali mutagene sulla vita mentale come fonti elettive di disagio e disturbo, e di conseguenza una specifica attenzione alla vita quotidiana delle persone, all’organizzazione dei propri territori psichici a partire da quelli elementari-strutturali della vita mentale (rapporto con gli oggetti, spazio-tempo, tempo libero, desiderio, etc.);
una specifica attenzione e responsabilizzazione della psicoterapia verso la qualità dei legami sia familiari che sociali: nel caso dei legami familiari con particolare riferimento alle condizioni di dipendenza da contesto (Pontalti) che mi appaiono legate alle nuove regole d’ingaggio del famigliare, così come qui descritto; nel secondo caso con particolare riferimento a quelli che Fasolo definisce legami deboli, quelli cioè legati alla socialità extrafamiliare, in quanto indicatori di rinnovata capacità di salute mentale attraverso l’altro e gli altri.

L’operatore della cura e del benessere può proporsi perciò, all’interno dei propri presidi clinici e non, come co-pensatore/accompagnatore specializzato in quegli ambiti per i quali le condizione del disagio e del disturbo appaiono in stretta relazione ai fenomeni qui descritti.

Bibliografia di riferimento

La seguente bibliografia rispecchia più che altro uno spazio culturale di riferimento piuttosto che un semplice elenco di puntuali citazioni.

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Berardi Franco (Bifo) La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato. Derive Approdi. 2001
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Castoriadis C. L’istituzione immaginaria della società. Boringhieri. 1995 (1975)
Cosenza D., Recalcati M. Villa A. a cura di: Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia. Bruno Mondatori. 2006
D’Elia L. La mission sociale della psicoterapia. Parte I. In www.altrapsicologia.it 2005
D’Elia L. La mission sociale della psicoterapia. Parte II Fasi vitali, coppie e famiglie: istruzioni per l’uso. In www.altrapsicologia.it 2005
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