Nostalgia: difficoltà di un ritorno

NOSTALGIA: DIFFICOLTA’ DI UN RITORNO. 
di Carla Tromellini

Una nostalgia senza nome piangeva senza suono
nella mia anima, nostalgia di vita piangeva,
come uno piange quando su grande nave
con gigantesche vele gialle verso sera
su acque blu cupo lungo la città
patria, costeggiando passa. E ne vede
le vie, ne sente gorgogliare le fontane, odora
il profumo dei glicini, se stesso vede
bambino, stare presso la riva, con occhi di fanciullo
che sono angosciati e vogliono piangere, vede
per la finestra aperta luce nella sua camera –ma la grande nave lo portaoltre, scivolando senza suono sull’acqua blu cupocon gialle gigantesche vele di foggia straniera.

(U. Von Hofmannsthal, Canto di vita)

La nostalgia è uno dei sentimenti sotterranei, struggenti che animano un soggetto con patologia oncologica. Il termine nostalgia è composto etimologicamente da nostos: ritorno e àlgos: dolore, per esprimere il dolore connesso ad es. al desiderio di tornare in patria che potrebbe essere impedito per qualsiasi motivo; all’origine si riferiva al sentimento di rimpianto che avevano i mercenari svizzeri verso la patria lontana (il termine compare nel 1688 in una disamina fatta da un medico alsaziano Johannes Hofer).

La nostalgia ci parla di un momento in cui dolorosamente si avverte che è impossibile il ritorno. Nello specifico della malattia è un evocare qualcosa che, nella vita del soggetto, si è dato e che si teme non possa tornare, reintegrarsi e darsi come sempre, sia sul piano fisico che relazionale.

Con l’evento malattia si evidenzia una scansione nella vita del soggetto che differenzia un prima e un dopo della malattia stessa. Si vorrebbe che tutto tornasse come prima, quando si coltivava l’illusione della propria infinitezza; nello stesso tempo ci si accorge che, con la malattia, è in atto un cambiamento fisico, mentale, che disorienta e che suscita interrogativi sul proprio presente e sulle prospettive future di vita.

Quando siamo in presenza di un soggetto con patologia mammaria, che ha subito un intervento di mastectomia radicale (monolaterale e/o bilaterale), ci si chiede come sarà possibile ricostituire quello che è andato perduto per sempre, ricostruire quell’unità di sé che è crollata sotto l’intervento chirurgico che ha inciso sui tessuti, nervi, muscoli recisi. E’ una donna “spezzata” quella che ci troviamo di fronte, che fa fatica a tenere insieme un corpo “disarticolato” con il vissuto di estraneità e di distacco di una parte di sé che percepisce come morta, non sensibile al tatto e spesso sottratta allo sguardo altrui, per timore di un giudizio e di un rifiuto.

Dall’ospedale la donna esce con un nuovo schema corporeo e un’immagine di sé che comporta una mancanza tutta da elaborare. E’ l’immagine del seno che ne esce alterata e di conseguenza la percezione dell’intero corpo. Nel mondo in cui viviamo “al corpo si chiede di rappresentare un’immagine, un ideale di perfezione che lo renda uno fra tanti, un eguale a modelli infiniti di corpi levigati, tonici, sottratti al divenire, perennemente giovani. Un corpo di una vitalità solo apparente, privo di storia e sottratto a una sua verità. Se facciamo riferimento per un attimo alla cultura attuale, per ciò che concerne le cure del corpo e l’imperativo dominante che il cambiamento esteriore si può manipolare, contrastare attraverso un continuo mettere mano, ad esempio chirurgicamente, a tutti quei piccoli “segni” che il divenire ha scritto nel nostro corpo (le piccole usure del tempo, per intenderci); incidendo seni, cambiandone la forma, tirando rughe d’espressione, si ha la sensazione che l’individuo venga allontanato in un lavoro centrato sull’immagine del corpo, da tutto ciò che potrebbe metterlo a contatto con se stesso, con la sua interiorità e con il mondo dell’Altro. L’evento malattia introduce nel fluire della vita una scansione insopportabile, apre un varco al pensiero della morte, fa uscire il corpo dal “silenzio”, lo porta prepotentemente in prima pagina, lo rende percepibile come ostacolo al mito dell’elisir di lunga vita”[1].

Lo stato di avanzamento tecnologico del percorso di cura di un soggetto con patologia mammaria implica oggi il poter ricorrere, una volta concluse le terapie, ad un progetto di ricostruzione del seno mancante. In medicina si parla di ricostruzione per descrivere una riparazione di un guasto, di un danno, di un difetto, che fa riferimento ad un corpo macchina che necessita di un rifacimento, di un’integrazione, di un pieno là dove si evidenzia un vuoto, un’assenza. Questo accesso rappresenta sicuramente un’opportunità per le donne che incontrano una diagnosi di malattia che apre alla possibilità di veder modificate l’immagine reale e inconscia del proprio corpo. Quest’ultima “è la sintesi inconscia di tutte le esperienze emotive e significative di piacere e di dolore e si produce in modo unico e specifico per un soggetto, perché è il concentrato della sua storia” [2].

Il corpo diventa così il luogo dove si depositano, si stratificano tracce di esperienze incancellabili, piacevoli e/o dolorose, nominabili e non; attraversato da emozioni dicibili e non dicibili, investito di carica libidica, e costantemente nominato da qualcuno che lo maneggia.

Da qui emerge l’importanza che assume nel recupero di una buona immagine del proprio corpo la dimensione dell’incontro con l’Altro, che ci aiuti, ci conforti nell’assumere uno sguardo non colpevolizzante, non troppo critico nei confronti della ferita inferta dalla malattia. Il danno percepito dal soggetto alla propria integrità evoca sentimenti di invidia verso i corpi di altre donne, quelle sane, corpi completi, tonici, levigati, seduttivi, fantasticati come perfetti. E così spesso ci si sottrae, giorno dopo giorno, all’incontro con un altro per timore di non essere più guardabili; si sottrae quella parte “oscura” di sé di cui ci si vergogna; si vive nell’incertezza di non essere più “presentabili” e attraenti. Prima ancora che allo sguardo altrui, sentito come valutante, ci si sottrae al proprio sguardo; si ha timore a guardare quella parte di sé vissuta come non più buona e familiare. Nell’esperienza di malattia, nel suo definirsi progressivo, emergono spesso difficoltà di incontro, di dialogo con il contesto d’appartenenza familiare del soggetto malato. Il percepire una sorta di distacco, di lontananza del proprio partner da sé, viene recepito come un segnale di condivisione del vissuto di estraneità dal proprio corpo che si esperimenta. A volte non si è capaci reciprocamente di nominare ciò che angoscia entrambi; si rimane entro angusti confini personali a meditare sul presentificarsi improvviso della morte nella propria vita. Per entrambi i soggetti il seno perduto è “distanziato, è l’inanimato, il rifiuto, l’innominabile, l’abietto”[3] (da ab-jacio, ciò che viene gettato lontano).

In questa occasione parlare di recupero dell’integrità fisica attraverso un’opera di ricostruzione, non significa, di per sé, promuovere un percorso di riparazione possibile del soggetto. Questo processo è di tutt’altro segno; include al proprio interno questo passaggio, ma non lo esaurisce. Entrano in essere alcune sfide esistenziali; dobbiamo prima di tutto curarci di noi stessi, della nostra vulnerabilità, trovare dentro di noi una capacità di accoglienza, d’accudimento di questo nostro “essere al mondo” portandoci appresso la fatica di stare in relazione con la sofferenza. “E’ una cura materna dura da vivere, quella di un corpo-psiche violato… Dolore del corpo e angoscia; angoscia di non sapere quanto lo si regge. Allora lo smarrimento che ci prende è di tipo fisico. Nell’esperienza del dolore fisico e nell’angoscia psichica torniamo a esperienze vissute e patite da neonati: quando il bambino è solo e i suoi confini non coincidono con il corpo della madre (in quanto da piccoli si ha ancora una percezione di sé indifferenziata tra il sé e il mondo esterno); il male alla pancia lo coglie come un attacco sia dall’interno che dall’esterno, un attacco cosmico, indifferenziato e si abbandona ad un dolore assoluto. L’assoluto del dolore toglie spazio alla pensabilità; è solo attraverso uno spazio affettivo che possiamo tentare di contenere questo dolore fisico, perché la ragione si schianta”[4].

Come modellare, costruire un’ipotesi di una vita futura, se non rimettendo in circolo quel qualcosa d’incompiuto, o mai dato, rimosso quel tanto che basta da non consentire perdite della memoria, ma un vago sentimento di “slittamento di sé”, che sembra temere ripiegamenti, sguardi troppo intimi all’indietro, in una parola l’aprirsi all’abisso dello smarrimento? Con l’incalzare della malattia non è evitabile una fuga da sé, se non attraverso una rimessa in campo di un agire frastornante e affannoso come quello che può aver preceduto l’insorgere della malattia. Ma quel modello di scansione di vita rivela al soggetto sempre più la sua inconsistenza e la sua banalità anche se si presenta “attraente” nel momento in cui lo si definisce e lo s’identifica come obiettivo del momento. Sono frequenti a questo proposito situazioni in cui il soggetto riprende a vivere non a piccoli passi, ma immettendosi con più foga “nelle cose che faceva prima dell’insorgenza della malattia”, come se la realtà di questa potesse essere negata.

Molto più frequentemente si evidenzia che, là dove la malattia si è “sovrapposta”, intrecciandosi inscindibilmente alla realtà esistenziale preesistente del soggetto, non è più possibile rimandare, continuare a “non vedere” ciò che “brucia” nell’esperienza del soggetto all’interno dei legami con gli oggetti significativi di riferimento.

E là dove si pone da subito l’esigenza di “sapere” la verità sulla propria malattia e sui suoi esiti – per chi non se la nega -, contemporaneamente si cerca di affidare a qualcuno che si lascerà usare e si prenderà cura di lui, dubbi e domande su quanto gli sta succedendo per “costruire” insieme un senso della sua malattia.

Ma questo percorso alla ricerca di verità e chiarezza, in tutti i luoghi in cui l’esperienza personale si modula (dentro e fuori di sé), si apre a domande estreme, radicali sul significato di ogni esistenza e dell’esistenza che accomuna tutti.


[1] Tromellini C, Occhipinti G. “Eclissi di sole. Dialoghi con il paziente oncologico in un percorso formativo”. Milano: Ed. Unicopli 2002

[2] F. Dolto “L’immagine inconscia del corpo” Como: Ed. Red

[3] Kristeva J. “Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione”. Milano: Spirali 1981

[4] Ravasi Bellocchio L. “La salute residua. La riparabilità” op.cit p. 34-35