Le comunità di accoglienza per minori: una storia dietro le spalle…

Le comunità di accoglienza per minori: una storia dietro le spalle…

di Deliana Bertani

(Intervento a un convegno sulle Comunità, tenuto dalle comunità socio-assistenziali reggiane e dal Comune di Reggio Emilia il 21-1-2009)


Molti ricorderanno quanto fosse vivo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, il dibattito culturale in Italia sulla necessità di orientare i servizi socio sanitari, come li chiameremmo oggi, verso la promozione e lo sviluppo della persona umana ,la tutela dei suoi diritti e come si discutessero i problemi delle istituzioni totali.
Quel dibattito ha comunque avuto grandi meriti, al di là delle contraddizioni ancora attuali, e ha prodotto importanti risultati in ambito sanitario e in ambito educativo – assistenziale.
In ambito sanitario cito solo la L. 180 come sintesi del recupero del diritto alla salute e della dignità e centralità della persona ;
in ambito sociale assistenziale, educativo – (vorrei aggiungere riparativo, riabilitativo):
– ha permesso un graduale passaggio dalle strutture di grandi dimensioni a strutture più piccole che facilitassero i rapporti, non più gerarchici ed autoritari, ma educativi e d’aiuto.
– nell’ambito dei minori ai grandi istituti dove il disagio, la sofferenza, le carenze, l’annullamento della personalità erano garantiti, soprattutto se il soggiorno era di lunga durata  si sono sostituiti le Comunità di piccole dimensioni.
I cambiamenti successivi sono stati molti e radicali:
– le Comunità sono diventate degli alloggi, delle case inserite nel territorio: non più grandi strutture isolate dal mondo ma nuclei inseriti in un contesto reale che mette gli utenti nella condizione di poter interagire con l’ambiente circostante;
– sono cambiati  gli educatori. Si è passati da educatori “spontanei”, magari chiamati a tale missione da ideali religiosi, sociali e politici, a degli educatori “professionali”, preparati ed in grado di intervenire progettualmente in una relazione d’aiuto
Hanno avuto un grande impulso sia teorico che pratico l’adozione e l’affido famigliare . A Reggio per noi operatori è diventata pressoché automatica l’equivalenza  accoglienza = affido famigliare

Per chi, come noi, lavora in questo campo oggi è importante avere presente questo sfondo “storico-culturale”: lo è ancora di più se pensiamo a quanta confusione vi sia, nell’opinione pubblica, tra “istituti” e “comunità alloggio”. Gli stili di funzionamento di molte Comunità non aiutano a far chiarezza e i relativi reportage sui mass-media

Queste considerazioni a proposito della ricerca che ho fatto nella mia memoria quando mi hanno chiesto di partecipare all’iniziativa di oggi e del fatto che non mi ricordavo di riflessioni, considerazioni, incontri fatti sulla comunità di accoglienza nell’ambito materno infantile almeno negli ultimi anni. Cosa mi è invece venuto alla memoria: – casi singoli, situazioni per le quali alla fine con i servizi sociali si è pensato alla comunità, si è cercato invano la comunità che avesse certe caratteristiche, che desse certe garanzie per poi  accontentarsi di  chi ci ha dato la disponibilità (spesso fuori Reggio). Situazioni molto diverse l’una dall’altra. Nuove tipologie, in continua trasformazione che non sostituiscono quelle vecchie ma che si aggiungono ad esse.

Apprezzo questa iniziativa che riapre la riflessione su un importante strumento di lavoro.
Apprezzo che siano stati coinvolti i servizi territoriali sociali e sanitari nella riflessione: fare accoglienza  non è un atto neutro: “gestire” una comunità, specie in Italia così segnata da tradizioni assistenziali consolidate, lo è ancor meno; scegliere di farlo in rete non è scontato.
Ancora mi è venuto alla mente: la Comunità è un luogo educativo ambivalente, protetto ed esposto, al tempo stesso. E’ quindi coinvolto in dinamiche, interne ed esterne, molto differenti che ne condizionano le modalità d’intervento e d’esistenza.
Luogo “protetto” dicevo: perché il suo scopo resta quello di accogliere e proteggere, tutelare dei bambini in crisi, dei bambini in difficoltà offrendo loro uno spazio alternativo alla famiglia perturbata e/o perturbante quando non destrutturante.
Ma è anche un luogo “esposto”, a rischio. Non è un vaso ermetico: ma è un alambicco comunicante. Ed in quanto tale inserito, suo malgrado, in un contesto.
Il contesto non è soltanto quello sociale, ma è rappresentato anche dalle aspettative degli attori del sistema stesso.
I bambini, in primo luogo, si attendono delle cose, si immaginano la comunità in un certo modo: di solito non tanto bene. Molti pensano di essere lì per “punizione”, altri hanno ben chiaro che si tratta di un “passaggio”, tutti chiedono, in maniera più o meno conscia, una forma di “protezione”.
Poi ci sono i genitori: ne abbiamo incontrati alcuni che accettavano la Comunità di buon grado per vari motivi,  altri che l’attaccavano ferocemente perché la ritenevano il peggiore dei lager, specie quando era là a testimoniare della loro incapacità “genitoriale”.
Poi ci sono anche gli operatori: i giudici, gli assistenti sociali, i tecnici, gli psicologi, i neuropsichiatri, gli stessi educatori.
Ogni Comunità  ha  un suo universo di riferimento, un modello di funzionamento: questo è un piano del discorso non sempre chiaramente esplicitabile ed esplicitato da chi la gestisce ;se si inizia da un contesto aperto penso che sia un buon inizio,segnale  che il modello cui si pensa è una figura processuale, una costellazione dinamica, una struttura in movimento.
Le comunità sono tanto cambiate ed ancora cambieranno. Dovranno cambiare se si parte dai bisogni dei bambini, dei ragazzi  sotto il segno della problematicità, della ricerca, della logica induttiva che definisce la Comunità come uno spazio temporaneo di convivenza, che è una cosa ben diversa dall’istituto, dall’ospedale, dalla scuola, dalla famiglia, ma che però, essendo un luogo più complesso, può partecipare degli aspetti positivi di quegli altri modelli. E’ importante che in una Comunità ci sia capacità di contenimento, che ci sia familiarità, che ci sia organizzazione dell’attività, che ci sia cura ed aiuto per la persona, che ci sia affettività ed emozione.

Credo sia questo il modello di riferimento che meglio può supportare le modalità d’accoglienza dei minori perché da un lato, assume la complessità anziché scotomizzarla e perché ci permette di entrare nel vivo di una questione di fondo: il rifiuto di una visione statica della Comunità.
La Comunità come “alternativa affidataria”. La Comunità come spazio temporaneo di convivenza. La comunità come “luogo di vita”, nodo di un percorso individuale (per il minore accolto) che si fa carico delle contraddizioni della quotidianità, che entra, con coraggio e discrezione, nel vivo del disagio.
Un luogo di vita quotidiana, coi suoi riti e le sue sorprese con la consapevolezza che  la costruzione di questo clima subisce “attentati” continui, la fragilità dei risultati raggiunti è evidente, i fallimenti, le frustrazioni sono un ingrediente inevitabile. Penso che questo possa essere un punto fondamentale del rifiuto di un visione statica di una visione cioè che:
* non comprenda il minore solo sulla base di cause esplicative;
* non stabilisca percorsi più a misura delle esigenze della comunità stessa (turni, costi ecc.);
*  non elabori interventi a partire dalle proprie inferenze valoriali  ed ideologiche.

Accettare le “avventure del quotidiano” significa, al contrario, restare all’interno di una prospettiva di “probabilità/possibilità” e vedere il minore come soggetto portatore di una storia personale originale, complessa ed in evoluzione; significa essere disposti a mettere in discussione le proprie certezze e premesse in funzione delle risposte e delle attese dei bambini; costruire continuamente nuove cornici, nuove possibilità di percepire l’altro, nuovi punti d’osservazione; significa sforzarsi di cogliere le differenze, le risorse positive del minore evitando risposte stereotipate e rigide.
In ambito metodologico clinico, questo atteggiamento significa  passare  dalla  cura  come soluzione ottimale di natura “tecnico-scientifica”, al  “prendersi cura di..”.
Penso che tutti i servizi sociali e sanitari, Tribunale compreso, debbano verificare sino a che punto tengano conto concretamente di questa svolta, indispensabile per non naufragare nella “complessità sociale”.
Quella stessa complessità che, in molti casi, è alla base del disagio delle  famiglie d’origine e della stessa sofferenza personale dei minori E’ la fatica di reggere il gioco della flessibilità dei percorsi, delle scelte, degli atteggiamenti in un contesto disgregato che occorre fronteggiare.

Un’ultima considerazione: ci troviamo sempre più spesso a fare i conti con  gravi difficoltà nei percorsi di affido famigliare, di adozione; a volte a veri e propri fallimenti.
I servizi possono, debbono senz’altro mettere in atto più di quanto non facciano ora: accompagnamenti, consulenza, appoggio. Però penso che non basti ad evitare il fallimento.
La complessità delle situazioni, la varietà, la multiproblematicità, la  continua trasformazione socio-economica e culturale richiedono risposte più articolate.
Gli educatori hanno strumenti per  poter evitare ogni velleità di onnipotenza: sono delle persone che hanno scelto un certo tipo di lavoro, che sanno quanto esso sia difficile e coinvolgente, come sia duro non identificarsi con la parte sofferente del bambino ma, anche, quanto sia duro sottovalutare il disagio profondo dei ragazzi che accogliamo; che hanno fra le loro competenze la consapevolezza che “Della propria sensibilità non bisogna fare virtù. Si può sperimentarla e tenere gelosamente in serbo questa esperienza. Ma non bisogna adornarsene. Colui che l’appunta sul petto a mo’ di decorazione, ne viene come drogato” (Elias Canetti)

Accogliere dei minori in Comunità: non per mascherare forme di istituzionalizzazione cronicizzante, ma offrire uno spazio di transizione temporaneo in cui si offrono al bambino degli aiuti sia sostitutivi che integrativi.
La Comunità dovrebbe quindi rappresentare un nodo intermedio tra un “prima” ed un “dopo . E non uno “spazio sospeso”, un eterno presente, tanto rassicurante per i Servizi finché non esplode per eccesso di compressione.
I bambini, indipendentemente dalla gravità del loro caso, percepiscono la Comunità come soluzione temporanea: essi si interrogano sul loro futuro ed hanno bisogno di prospettive.
La temporaneità della permanenza del minore è dunque condizione essenziale per assolvere alla funzione di affidamento. Lo stesso vale ovviamente per le famiglie affidatarie che però anche più degli educatori debbono fare i conti con  lacci e laccioli delle dinamiche transferali e contro-transferali a volte molto difficili da capire ed elaborare in un contesto dove l’affettività prevale “naturalmente” sull’operatività
Dobbiamo cercare di evitare i repentini “processi d’ espulsione” dei minori da parte di educatori,di famiglie o di operatori dei servizi ormai “scoppiati “uscendo innanzi tutto da una “non detta” gerarchia di interventi di aiuto nei confronti del bambino: se non può stare nella sua famiglia deve andare in una famiglia affidataria, se questa non è reperibile deve andare in una Comunità di tipo familiare, se questo non è possibile, infine, in un istituto; e se tutto ciò non funziona ci sono poi i servizi psichiatrici.
“Lavoro di rete “ tra le diverse istituzioni che tutelano il minore dovrebbe essere qualcosa  che implica una cultura del progettare in funzione del bisogno del minore e non della “prima soluzione” a disposizione; richiede strategie integrate e non il ricorso sistematico a dispositivi di emergenza o peggio da “ultima spiaggia”.
E di  questa cultura dovrebbero far parte non solo i tecnici, gli operatori delle istituzioni, ma anche i funzionari, gli amministrativi e per ultimo ma non ultimi gli amministratori.