Istituzioni del welfare e prassi amministrativa ieri ed oggi a Reggio Emilia. Appunti per una microstoria dei servizi pubblici reggiani

di Leonardo Angelini *

 

“Chi si serve dei mezzi amministrativi e delle istituzioni con irremovibile coscienza criti­ca

può ancor sempre realizzare qualcosa di ciò che sarebbe diverso

dalla pura cultura am­ministrata” (Adorno)

 

Gli assalti che, con furia iconoclasta, in questi ultimi anni sono stati condotti al modello emiliano dagli epigoni di coloro che furono i suoi primi sperimentatori stanno per demolire anche le ultime cittadelle del welfare emiliano-romagnolo. Le pagine che seguono sono un tentativo di storia del welfare reggiano, un insieme di appunti, che, almeno nelle mie intenzioni, dovrebbero avere un carattere di sistematicità, ma che senz’altro richiedono ulteriori approfondimenti. Appunti presi dall’interno, vale a dire da un operatore della psichiatria, uno psicologo che ha avuto la ventura di vivere e operare, fin dal 1971, in quello che fu uno dei luoghi canonici del welfare emiliano-romagnolo: per l’appunto Reggio Emilia. Appunti quindi che, sotto certi punti di vista, costituiscono la trama di un racconto i cui protagonisti sono Reggio Emilia, i suoi abitanti, gli operatori del welfare reggiano che in questi anni si sono applicati in un lavoro appagante per ciò che concerne il rapporto con i propri fruitori, usurante spesso per gli aspetti burocratico-istituzionali.

Questi operatori e le loro istituzioni, l’insieme delle loro pratiche, dei contenuti e dei metodi di lavoro, hanno sedimentato nel tempo una cultura dei servizi (Angelini, 1987, 1995; Angelini e Bertani), abbastanza omogenea nelle sue linee di fondo, in grado di sconvolgere, almeno all’inizio, le vecchie pratiche e le vecchie discipline che erano a monte di esse, o di costituirne di nuove[1]. Il tutto in rapporto ad un territorio specifico, Reggio, in cui gli sconvolgimenti avvenuti nel tessuto sociale ed economico a seguito del rapido passaggio in questo quarantennio da una società contadina ad una società dapprima industriale, successivamente sempre più terziarizzata, da una parte, e le lotte che sono state portate avanti da una soggettività di massa che aveva nel PCI il suo fulcro, dall’altra, hanno permesso di costruire nel tempo una rete di servizi, che ora rischia di diventare sempre più marginale e, in certi settori, di scomparire, per ragioni che spero di riuscire a esplicare nelle pagine che seguono.

C’è stato insomma in Emilia e Romagna, e qui a Reggio in particolare, una specie di filo rosso che ha collegato operatori della sanità, della psichiatria, della fascia prescolare, della scuola e dell’assistenza, etc. in tutti questi anni. E, prima ancora, la presenza nel soggetto collettivo che aveva lottato per la nascita del welfare di un’idea di società, di un insieme di progetti e di realizzazioni che sono figli di questa terra di riformisti, che nel proprio modo di vivere mostrano di avere il dono di sapere realizzare ciò che dapprima hanno sognato. E’ quindi da questi elementi, legati alle istituzioni del welfare, ma anche ad un contenitore più ampio delle istituzioni stesse e capace di farle nascere e, fino a non molto tempo fa, di sostenerle nella loro crescita, che a mio avviso occorre partire per comprendere il welfare reggiano. E’ quello che cercherò di fare nelle prossime pagine.

1° fase: Il primo dopoguerra e la controcultura comunista

Il primo dopoguerra vede Reggio, come la maggior parte del territorio regionale, alle prese con i problemi della ricostruzione. I dati che risalgono al censimento del 1951[2] mettono in risalto una società che è ancora prevalentemente di tipo contadino e protoindustriale: il 55,1% della popolazione attiva in questo periodo è occupata in questo ramo di attività economica, mentre l’industria, dopo l’espansione degli anni bellici, non solo è arretrata, ma attraversa una profonda crisi di riconversione che vede in tutta l’Emilia e Romagna il numero degli occupati in questo settore diminuire rispetto anche al periodo prebellico[3].

Da un’analisi della struttura della famiglia reggiana nel 1951 risulta la prevalenza, specie fra i contadini e gli artigiani, della famiglia plurinucleare. Tale tipo di famiglia aveva i suoi capisaldi nell’autoconsumo e nella conseguente marginalità rispetto al mercato, nella realizzazione del Sé individuale di ciascun componente all’interno di un Sé familiare che lo comprendeva e lo condizionava, in una concezione dell’autorità parentale rigida e pervasiva che vedeva il capofamiglia maschile presiedere ai lavori extradomestici e la resdòra (letteralmente ‘la reggitrice’) – che era la moglie del capofamiglia – dirigere gli affari domestici. Sottoposto a questa duplice autorità, incapsulato in questa rigida gerarchia, costretto a questa vicinanza forzosa con la parentela meno stretta l’individuo reggiano del primo dopoguerra era meno autonomo ed individualizzato di quello odierno, con un enorme peso morale sulle spalle che lo portava a ritenersi perennemente legato alla famiglia, sia sul piano lavorativo sia su quello privato ed intimo.

A questo quadro, ancora statico e patriarcale, faceva come da pendant una tradizione riformista, che risaliva alla fine dell’800, che era stata socialista e prampoliniana fino all’avvento del fascismo[4] e che era rinata comunista, clandestina, minoritaria e legata ancora prevalentemente alla vecchia generazione sotto il fascismo, e via via più ampia e rinnovata nei suoi quadri e nella sua base di massa nel periodo della resistenza, e ancor più nei primi anni dopo la liberazione. In questa miscela di due parallele tradizioni, che si influenzavano, e a volte si contraddicevano, a volte si esaltavano a vicenda stava il segreto dell’ethos di questa terra. E non a caso quando Togliatti, proprio a Reggio Emilia, il 24 settembre del 1946 pronuncia il suo famoso discorso “Ceti medi ed Emilia rossa”, è proprio da questo mix, che faceva si che gli iscritti al partito fossero più contadini che operai, che parte per dire che era su questa alleanza fra classe operaia e ceti medi produttivi che occorreva partire per definire un terreno di crescita del modello emiliano.

Ebbene, se da un punto di vista socioeconomico tutto sembrava ancora fermo e statico, dal punto di vista politico, il dopoguerra reggiano era invece pieno di lotte di natura politico-sindacale. E da questo punto di vista si può dire che, con tutti i suoi slanci e con tutte le sue delusioni, il dopoguerra a Reggio Emilia ha il suo culmine nella sconfitta delle Reggiane. La lotta delle Reggiane rappresenta infatti da una parte la fine dell’epopea partigiana, ma nel contempo anche il punto di partenza di quell’ampio progetto di società che va sotto il nome di modello emiliano, che sarà perseguito prima attraverso le lotte degli anni ’50, e poi attuato attraverso una serie di pratiche che, fra l’altro, comprenderanno la costruzione delle istituzioni del welfare.

Modello composto innanzitutto, da una imprenditività diffusa, che nasce fra l’altro dalla diaspora delle maestranze delle Reggiane e degli operai disoccupati a causa della crisi di riconversione, che non erano operai tayloristi espropriati delle competenze complessive atte ad inventare e costruire le merci, ma operai artigiani e competenti[5], in grado, dopo il momento iniziale di scoramento successivo alla sconfitta, di riciclarsi e di diventare protagonisti dell’industria reggiana a partire dal boom. Modello però che è impregnato anche di quel solidarismo laico, d’origine contadina, di quella capacità di praticare le idee: di immaginarle e, non appena possibile, di attuarle attraverso l’invenzione di servizi di tipo universalistico, che, con il ‘salario indiretto’ che ne deriverà, permetterà all’Emilia l’attuazione di una politica di contenimento salariale che farà da ulteriore volàno per la crescita economica di questa terra.

Ma, se queste sono le condizioni che si vanno incubando in quei tremendi anni ’50, occorre ricordare che nell’immediato ciò che fa da cornice alle lotte difensive di quegli anni, che vedono Reggio Emilia e tutta la regione protagoniste non dome fino alla vigilia del boom, è ancora l’indigenza, la povertà, l’assenza di un qualsiasi reticolo di infrastrutture legate al potere locale, che è saldamente nelle mani della sinistra, ma che appare come un insieme di cittadelle assediate e vessate dallo stato centrale. Di modo che le sole azioni possibili ai pur moderati amministratori locali sono azioni di buona amministrazione, di sostegno della rinata cooperazione e di tutela delle fasce più deboli (Cavandoli). Il decentramento agli enti locali, che pure era nel mandato costituzionale, ma che i governi centristi osteggiarono in tutti i modi, non fu raggiunto in quegli anni se non in maniera minima e sempre contro lo stato centrale. Il risultato sul piano sociale in questa fase fu il permanere di due società.

Da una parte la società dei padroni che svolgeva una feroce battaglia antioperaia e anticontadina, nell’intenzione di scaricare sulle fasce deboli tutto il peso della ricostruzione. Società che godeva del sostegno ideologico di una chiesa locale che, oltre che preconciliare, era anche legata, a parte la minoranza dossettiana, alla borghesia agraria e ad altri gruppi sociali reazionari, spesso compromessi col fascismo, e quindi mille miglia lontana dai deboli. In questo periodo le istituzioni esistenti (scuola, psichiatria, etc.) sono saldamente nelle mani di questa borghesia e degli intellettuali provenienti da essa o, specie nella scuola, da una piccola borghesia di orientamento conservatore e cattolico.

Tali istituzioni sono quindi, senza eccezioni, in questo periodo luoghi di riprodu­zione della cultura dominante: cultura della esclusione, della selezione meritocratica, dell’egoismo di classe. Cultura che risultava funzionale: – ai processi di industrializzazio­ne (Reggio Emilia nei due decenni fra il ‘ 48 e il ‘68 diventa una realtà prevalentemen­te industriale, da agricola che era), – ai processi di immigrazione interna, che in questo periodo interessano la montagna, ma soprattutto quell’insieme di contadini che abbandonano le ville[6] e il lavoro nei campi e si inurbano, – alla preparazione di questo enorme flusso di manodopera all’ingresso in un mondo del lavoro che richiedeva all’improvviso una buona qualificazione a tutti i livelli, ma anche un’alta fungibilità ai fini di un adattamento passivo alle esigenze di mercato delle sempre più consistenti aree industriali.

Dall’altra parte vi è però a Reggio una controsocietà, in cui si identifica la maggior parte dei dominati, che elabora una controcultura, che affonda le sue radici negli ideali antifascisti nonché in quelli tipici del riformismo prampoliniano. Controcultura che ha propri contenuti, propri metodi di espressione, propri luoghi, propri tempi, e propri intellettuali. Sul piano dei contenuti si va, nel maschile, dalla capacità immaginativa e progettuale che produrrà l’Erre-60, alla ripresa della cooperazione, fino a quella fucina di progettualità che fu la piccola azienda artigianale nata dalla sconfitta delle lotte difensive in fabbrica negli anni ‘50 e dal ripiegamento dei quadri operai non omologabili in imprese che nascono soprattutto come luogo di applicazione della propria capacità di espressione autonoma. Nel femminile dalla gestione delle prime scuole materne laiche e delle colonie estive dell’UDI alle lotte per l’istituzione dei servizi sociali (scuole materne ed asili nido comunali, servizi per anziani, consultori, etc.) che costituiranno la spinta decisiva a livello di massa alla battaglia parlamentare per il decentramento che è alla base della nascita del welfare in Emilia e Romagna.

Sul piano dei metodi si può dire che è in questi anni che nasce la partecipazione che però in questo periodo è collegata strettamente all’universo controsocietario ed alla controcultura comunista, e cioè ad una soggettività almeno parzialmente libera ed autonoma dalla ‘società dei padroni’, che si svi­luppa dentro la società dominante come pratica di massa di una sorta di città futura a metà, che ha nel pubblico tutte le sue parti migliori e realmente autonome, mentre nel privato risente di una situazione di dipendenza dai valori dominanti borghesi e piccoloborghesi.

I luoghi in cui tale città futura comincia a dispiegarsi sono le case del popolo, le sezioni, le organizzazioni di massa, i giornali “di parte”, etc.- E la stessa vita quotidiana, vissuta da una ampia base come testimonianza (a volte moralistica) di un modo di espressione di se stessi altro rispetto ai valori dominanti, fa da sfondo alla crescita di una soggettività di massa che generazionalmente sarà capace di reggere poi sul piano identitario a molte delle prove cui la città e il suo territorio saranno sottoposti nei decenni successivi.

I tempi di questa controsocietà sono quelli non ancora occupati dai mass ­media, e dalla televisione soprattutto, e cioè la sera in sezione e nelle case del popolo, l’estate con le feste dell’Unità, la domenica e il tempo libero in generale, in cui convivono, in maniera a volte schizofrenica, la dimensione pubblica della partecipazione, e quella privata dei legami fa­miliari in cui continuano ad operare spesso i miti e gli stili di vita della società contadina e protoindustriale.

Infine gli intellettuali di questo periodo sono i quadri nati dal­la resistenza e dalle lotte difensive di quegli anni che si sono formati nel crogiolo delle lotte, e ancor prima nelle carceri, che sono stati poi spostati nel partito e nelle organizzazioni di massa quando erano bruciati nel loro luogo di lavoro, o in base ad una sorta di operazione pere mature, e che vivono dentro questa controsocietà come pesci nell’acqua contribuendo a definirne i tratti in un rapporto di dialogo continuo con una base proletaria che faceva diventare questi luoghi e questi tempi come un’enorme scuola di massa alternativa capace di dispensare sapere e di seminare, direi, il gusto della trasformazione e della progettualità.

2° Fase: Il ’68 e la nascita dei centri di libertà e di sperimentazione

I dati del censimento del 1971 mostrano come ormai il settore agricolo a Reggio Emilia stia diventando marginale e come la forza-lavoro si indirizzi prevalentemente verso il settore industriale: il 47% della popolazione attiva occupa questo settore contro il 25,3% del 1951, e gli addetti all’agricoltura diminuiscono fino al 21,2%. La struttura economica della città risente positivamente , come gran parte del Nord, dei benefici effetti del boom economico. In meno di dieci anni nasce così una nuova realtà industriale. La vera e propria inversione, in termini percentuali, degli occupati nell’industria e nell’agricoltura in questi venti anni è importante sia per la rilevanza dell’incremento degli occupati nell’industria, sia per il decremento fra gli occupati in agricoltura. Infatti questo secondo dato, affermano Basini e Lugli, avvicina Reggio Emilia alle società industriali di prima e di seconda generazione.

Cosicché negli anni ‘60, e ancor prima nella seconda metà degli anni ’50, dalle campagne si assiste al primo grande flusso migratorio che prende la città: dalle ville, la popolazione si sposta nel centro cittadino, e da contadina si trasforma in operaia e impiegatizia. Alla lunga questi elementi sono destinati a sconvolgere anche il profilo della famiglia reggiana, e soprattutto quello della famiglia contadina. Si pensi al dato dell’inurbamento: la stessa struttura della casa cittadina – insieme agli altri importanti elementi strutturali cui abbiamo appena accennato – implica una spinta improvvisa e irreversibile verso l’abbandono della famiglia plurinucleare e l’enorme ampliamento della famiglia nucleare. Avviene in questo periodo l’inizio di un processo di emancipazione dalle autorità familiari tradizionali destinato a crescere ulteriormente e, in quest’ultimo ventennio, a costituire la base per ulteriori cambiamenti.

Sul piano politico, nel decennio che va dai fatti del Luglio ’60 al biennio 68/69 si esaurisce velocemente quella che abbiamo definito la fase della controsocietà. I morti del Luglio ‘60, sui quali a livello nazionale passerà il centrosinistra (Cooke, Crainz), a livello locale rappresentano l’ultimo grande episodio di una controsocietà che non vuole mangiare alla tavola delle classi dominanti, ma neanche rovesciarla. Una generazione che in ultima istanza, e usando ancora la metafora conviviale, intende costruire una propria tavola sulla quale mangiare il proprio cibo, cioè produrre e fruire della propria cultura, vivere la propria vita.

Ciò che accadrà nel quadriennio successivo è il boom, che la crisi del ‘65/’66 riuscirà appena a scalfire, e che riprenderà poi rigoglioso negli anni dopo il ‘66. E Reggio Emilia sarà pronta a sfruttare fino in fondo le possibi­lità di espansione che dalla congiuntura economica sono origi­nate proprio perché quel tessuto di imprese, di competenze, di etica padana del lavoro[7], fatta di risparmio e di investimento, ma anche di cooperazione e di partecipazione, sembra ora fatto apposta per diventare il terreno sul quale si costruirà poi il benessere degli anni ‘70: il decentramento produttivo, la crescita e la trasformazio­ne delle cooperative in imprese sempre più centrali nel mercato capitalistico, la disponibilità e l’accortezza sul piano degli investimenti, la capacità di tradurre velocemente le idee sul piano della produzione, di sfruttare gli interstizi del mercato, etc.

Contemporaneamente, il varo del centrosinistra a livello na­zionale, la continuazione delle lotte sociali per le riforme da parte della generazione precedente, e soprattutto il movimento anti-istituzionale nato nel ’68, con i suoi programmi e i suoi nuovi soggetti, forgiati nelle lotte antiautoritarie studentesche ed operaie del biennio rosso – che a Reggio Emilia furono consistenti, diffusi e ancora una volta realisti movimenti di base – permettono di avere, nell’arco di pochi anni, da una parte le leggi e le possibilità finanziarie per far nascere scuole materne, asili nido comunali, nuove strut­ture per gli anziani, nuovi luoghi dell’antipsichiatria etc., dall’altra e soprattutto nuovi soggetti in grado di riempire questi luoghi e queste pratiche di nuovi contenuti e nuovi metodi, non più subordinati alle vecchie discipline e ai vecchi saperi, messi in crisi profondamente dal ’68.- E ciò che non fanno le leggi lo fanno gli amministratori locali di quegli anni, che sono tutti figli della resistenza e delle lotte degli anni 50.

Nascono così il CIM di Jervis, la medicina del lavoro, le scuole per l’infanzia e gli asili nido comunali, etc. che rappresentano ben presto la nascita di centri di libertà e di sperimentazione[8] nati dalla felice congiuntura che permette una dialettica fra amministratori accorti[9], da una parte, ed esperti, nati nelle lotte di quegli anni, che non rinunciano ad avere cognizione della cosa, dall’altra, e movimenti di base che cominciano ad affidare le proprie istanze e i propri progetti a queste istituzioni decentrate rinunciando gradualmente alla controsocietà ed alla controcultura. Ed anche la scuola, che rimane apparentemente una istituzione centrale, in effetti viene fortemente investita e trasformata dai movimenti i e dalle istituzioni locali che propongono (e a volte impongono, sotto la spinta dei movimenti di base) non solo nuovi contenuti e nuovi metodi, ma anche nuovi tempi e nuove figure che la permeano e la sconvolgono, nel bene e nel male.

Ciò determina un nuovo rapporto fra intellettuali e masse che non è più confinato nei “Fort Apache” dei luoghi della con­trosocietà, ma tende a proporsi su tutto il territorio (questo termine comincia ad essere usato proprio in quegli anni nell’accezione che ancor oggi è in voga). Il territorio cioè rappresenta non una entità geografica, ma un contenitore, una specie di utero sociale fatto di movimenti e di programmi, di operatori esperti, cioè critici e non di meri esecutori tecnici; di amministratori accorti (e non di burocrati) attraverso i quali e solo attraverso i quali il modello del welfare emiliano-romagnolo ha potuto attecchire. Un luogo nel quale, almeno inizialmente, centri di libertà e di sperimentazione si pongono non più in un’ottica di separazione dalla società capitalistica, ma in un’ottica di riforma che vuole ridefinire tutto il sociale, il sanitario etc. ‘in base agli interessi delle classi subalterne’, in nome delle quali, a torto o a ragione, presume di parlare e di operare.

Anche la partecipazione in questo periodo si modifica e nei suoi significati e nelle sue modalità espressive. Esce fuori dal luogo separato in cui si era esercitata preceden­temente e spesso diventa la testa d’ariete che conduce alla con­quista delle vecchie istituzioni o alla nascita delle nuove istituzioni decentrate: è il caso, ad esempio dei Comitati Scuola e Città (Angelini et al., 1978) che permettono la nascita del tempo pieno e della sperimentazione nelle scuole elementari e medie; è il caso del Comitato contro le malattie mentali che porta alla nascita del CIM.

Grande importanza assume l’analisi dei cri­teri di selezione secondo i quali vengono ad aggregarsi gli intellettuali che opereranno in queste istituzioni (tutti gli intellettuali, e non solo i dirigenti) poiché, come avremo modo di vedere anche più avanti, ciò che fa da testa di ponte in direzione di tutti i cambiamenti avvenuti d’ora in poi nelle istituzioni del welfare è la selezione di operatori ad hoc che, a volte si aggiungono, a volte si sostituiscono a quelli dei periodi precedenti, dando così origine ad una sedimentazione di storie e di percorsi istituzionali del tutto specifici che si addensano e si solidificano in vari strati fra loro più o meno permeabili. Ciò che viene richiesta in questo primo momento a questi operatori, presi dai luoghi delle lotte anti-istituzionali, è una disponibilità a farsi carico in termini critici e complessivi dei problemi. In una parola[10] si cercano degli esperti e non dei tecnici. E’ su queste gambe che marcia la sperimentazione ed è da un’alleanza fra questi esperti, figli del ‘68 e ‘gli amministratori accorti’ di questi anni, figli della resistenza e delle lotte difensive degli anni ’50, che è possibile mettere in piedi quella prassi amministrativa maggiorenne che potremmo definire l’epopea iniziale del welfare reggiano.

Ci sono però, ad onor del vero, due elementi che – diciamo così – rappresentano il limite di questa esperienza. Il primo è sul versante degli operatori, degli esperti che a volte, sospinti dall’impeto destruens nei confronti delle vecchie istituzioni, compiono degli eccessi e tendono a sottovalutare la rete delle alleanze, istituzionali e non, che è necessaria allorché si vuole costruire insieme agli altri il nuovo[11]. Dall’altra gli amministratori, specie se hanno di fronte operatori tendenti all’ideologizzazione, propendono a volte verso atteggiamenti semplicistici e essi stessi ideologizzanti, per cui, ad esempio, se si è a corto di idee si dirà: ‘si fa così perché così vuole il movimento dei lavoratori’.

In conclusione su questo periodo due sono gli elementi che mi preme sottolineare. Il primo è relativo al significato che il territorio assume a partire da quegli anni: per territorio si comincia ad intendere, a partire dall’inizio degli anni ‘70, non una entità di tipo geografico, ma un insieme di servizi, un vero e proprio tessuto istituzionale che una volta non c’era e che, da un certo momento in avanti, ha cominciato ad essere imbastito, a volte in contrapposizione ad istituzioni preesistenti, a volte in aggiunta ad esse, a volte ancora ex novo, senza cioè alcun modello precedente cui contrapporsi o giustapporsi.

Il secondo elemento, strettamente legato al primo, è nel diverso significato che il welfare, sempre a partire da quegli anni assume in Italia a seconda del luogo specifico in cui esso si sviluppa e della presenza o meno in ciascun luogo del territorio. E’ noto che il welfare in Italia è stato bifronte: stato sociale, basato sullo sviluppo dei servizi, da una parte e stato assistenziale, basato sulla distribuzione di sussidi, dall’altra. Ora in Emilia l’opzione, fin dall’inizio fu quella del welfare dei servizi, al contrario di ciò che accadde ad esempio in tutto il Sud in cui la direzione presa dalle amministrazioni locali fu quella dell’espansione di un welfare dei sussidi, e cioè dello stato assistenziale. Ebbene la presenza o meno del territorio (e cioè dei servizi territoriali) può essere presa come cartina di tornasole che evidenzia il tipo di scelte che le amministrazioni locali fecero a partire da quegli anni: e cioè se andarono nel senso del welfare dei servizi o dello stato assistenziale. Ma la presenza o meno di un welfare dei servizi – al di là di ciò che accade sul piano del consenso – implica nel tempo la presenza o meno di una cultura dei servizi, di identità professionali figlie di quella cultura, di strutture territoriali che rimangono, e che divengono la spina dorsale di quel territorio, con esiti – anche sul piano della spesa – molto diversi da quelli che è possibile ottenere in zone in cui l’assistenzialismo e’ imperante.

3° Fase: Dallo sperimentalismo alla cultura amministrata

Ma già verso la fine degli anni ‘70 e ancor più negli anni ‘80 la sperimentazione mostra la corda. Da una parte infatti una componente minoritaria e violenta del movimento anticapitalistico in maniera sempre più evidente occupa la scena con le sue azioni terroristiche che ben presto finiscono con lo screditare ogni istanza critica trasformandola in qualcosa di sinistro che fa paura a tutti e finisce col fare terra bruciata di ogni movimento critico. Dall’altra il PCI, a partire dal compromesso storico e da tutte le svolte e controsvolte che da esso nascono, anche in Emilia comincia a rinunciare a quella grande opera di formazione di una soggettività critica di massa, così come invece aveva fatto negli anni ’50 e ’60, con esiti alla lunga nefasti sul piano della formazione non solo dei quadri dirigenti ed intermedi, ma anche di buona parte della base. Esiti, peraltro, che lì per lì non risultano evidenti e che solo successivamente verranno in piena in luce.

D’altro canto sul piano economico dopo il boom, e soprattutto a partire dagli anni ’70, nuove componenti strutturali si irradiano nella già dinamica base produttiva reggiana. Tali componenti sono legate solo in parte alla nuova politica di decentramento amministrativo che – al contrario dei governi centristi che lo hanno preceduto – il centrosinistra ora permette e, sotto certi punti di vista, incoraggia (vedi nascita delle regioni); decentramento che gli enti locali rossi possono attuare in scala molto più ampia rispetto al dopoguerra, proseguendo nella costruzione del welfare dei servizi e accentuando quel lavoro di sostegno alla piccola e media impresa e alla cooperazione che, a dir la verità, era già stato messo in atto dagli istituti di governo locale fin dall’immediato dopoguerra, ma con possibilità limitate, dato l’ostracismo che centralmente il blocco moderato aveva mostrato, fino al 6263, nei confronti degli enti locali, e di quelli rossi in particolare (Crainz).

L’elemento che risulta strutturalmente più importante in questo periodo è l’uso massivo da parte dell’industria locale del decentramento produttivo e del lavoro a domicilio che assorbe, a Reggio così come in tutta l’Emilia in quegli anni, fra il 30 e il 40% del lavoro (Sechi). Questo elemento si lega e si intreccia con altre tre importanti componenti: 1. la tendenza dell’industria locale ad autofinanziarsi ed a reinvestire nella produzione (e non nella speculazione finanziaria): il che permette l’espandersi del numero degli occupati; 2. la presenza di una rete produttiva e distributiva legata alla cooperazione che rappresenta un primo grande ammortizzatore sociale; ed infine – ricongiungendoci a quanto dicevamo prima a proposito del decentramento amministrativo – 3. ciò che in termini economici viene definito ‘salario indiretto’ ed in termini sociali l’architettura di quel welfare dei servizi, nato sotto l’impulso dell’ente locale emiliano, che permette “l’erogazione … di salario sociale sotto forma di servizi”. Salario sociale che, a sua volta “ consente una minore pressione dei bisogni operai sul profitto d’impresa”[12]: vale a dire la presenza di un secondo rilevantissimo ammortizzatore sociale.

Il decentramento produttivo con la sua struttura a scatola cinese, ben presto riesce a permeare di sè e della sua logica ogni interstizio, ogni luogo, ogni famiglia, ogni soggetto in grado di prestare almeno un po’ del suo tempo quotidiano in un’opera di costruzione di un microscopico tassello che – messo insieme agli altri tasselli e condotto, là dove è necessario, da quelle formiche impazzite rappresentate dai piazzisti – finisce con il fare assumere alla merce, nella sua versione finale, un valore aggiunto che nel proprio interstizio locale il singolo soggetto non vede. In questo modo il senso della produzione, che al raffinato operaio-artigiano delle Reggiane era chiarissimo, al lavorante a domicilio diventa sconosciuto. Ma la cosa più gravida di conseguenze sul piano sociale è nel fatto che mentre il lavorante a domicilio si affanna, con i suoi familiari, ad assemblare e a rifinire gli oggetti della produzione, i suoi legami sociali, così come quelli più intimi e privati si spezzano. In questo modo tendono a venir meno contemporaneamente due delle componenti decisive alla formazione dell’etica padana del lavoro: la spinta solidaristica e la visione d’insieme dei processi trasformativi, mentre le tonalità maniacali del lavoro a domicilio esprimono, in maniera fin troppo enfatica, le logiche di sfruttamento e di autosfruttamento che le sottendono.

Il solidificarsi di questo nuovo stile di vita, attento alla produzione e ad ogni mezzo e occasione che permetta una rapida ascesa sociale, la grande spinta verso la mobilità verticale che è insita in questo improvviso diffondersi del lavoro in ogni interstizio familiare, si verificano così per la prima volta a Reggio in base ad un impegno individuale (o al massimo familiare), e non più come il prodotto di uno sforzo immaginativo di massa guidato dal partito, o in ogni caso innescato da una qualche entità in rapporto con esso e con i movimenti e le istituzioni da esso ispirate[13].

Questi sono i connotati di fondo in base ai quali in Emilia si espande l’industrializzazione: si tratta di un modello che ha i suoi capisaldi nella piccola e media impresa, le quali usano massicciamente il decentramento produttivo come grimaldello che permette massimizzazione dei profitti, a minor costo e senza i condizionamenti derivanti dai mille lacci e laccioli cui sono costrette le grandi industrie.

I risultati, sul piano della composizione del blocco sociale dominante in regione e in città sono molto importanti: la rapidissima industrializzazione e terziarizzazione (cfr. nota 1) sconvolge il vecchio mondo e le vecchie identità e fa emergere nuovi strati e nuove classi che, per un insieme di motivi, finiscono per fruire gratuitamente, e spesso in situazione di concorrenza drogata con le classi del lavoro dipendente, di quel welfare dei servizi che era stato pensato anche come strumento difensivo (salario indiretto) proprio per il lavoro dipendente.

Questa contraddizione, che l’erogazione quasi gratuita dei servizi per ora copre, sarà ben presto destinata ad esplodere allorchè l’epoca del deficit spending, tipica dei centrosinistra della I repubblica troverà il suo culo di sacco nella crisi dei primi anni ’90. Certo è che negli anni ’80, e forse ancor prima, qui a Reggio si innesca quella contraddizione fra vecchie e nuove classi sociali in base alla quale si determinerà un vero e proprio meccanismo perverso di fruizione del welfare che, ad esempio, nell’assegnazione di un posto al nido o in casa di riposo privilegerà il partito degli evasori rispetto a quello degli onesti contribuenti.

Su questa base si è andato saldando negli anni ‘80 un vero e proprio blocco sociale che vedeva nel territorio il luogo in cui da una parte il welfare ancora continuava, in base alla sua gratuità, a svolgere una funzione di salario indiretto, ma con funzioni perverse, cui abbiamo appena accennato, che oggettivamente avvantaggiavano le nuove classi sociali, più che il lavoro dipendente. Dall’altra la partecipazione alienata permetteva ancora l’ade­sione delle masse alla politica pidiessina di gestione del welfare.

In questo quadro, a mio avviso, il tema della mancata battaglia per il decentramento fiscale assume un significato centrale. Diceva Barbera nell’82 (!): a un certo punto “la sinistra abbandona le battaglie degli anni precedenti e preferisce rivendicare risorse finanziarie da un centro sempre più condizionato da politiche anticongiunturali anziché rivendicare l’assunzione di responsabilità autonome; e nel vuoto cadeva il monito di chi si ostinava a ripetere, soprattutto a sinistra, che non si sono mai conosciute in Occidente forme di democrazia locale che non fossero legate al prelievo di risorse tributarie”.

Cosicché di fatto l’ultimo PCI ed il PDS si sono trovati, nel momento della crisi, a continuare a fare demagogicamente richieste ad uno stato centrale non più in grado di rifornire gli enti locali di risorse e hanno lasciato uscire dalla regione il capitale finanziario che, in mancanza di un pre­lievo a livello locale e superata la fase iniziale di reinserimento nella produzione locale, attraverso le banche è stato in questi ultimi anni reinvestito sempre più altrove. E la mancanza di una politica di decentramento tributario in grado di massimizzare le possibilità create per i lavoratori dall’aumento della ricchezza sociale in Emilia ha regalato questa istanza alla Lega che lo agita ora a fini razzistici, ed ha strozzato le riforme[14].

In questa situazione estremamente dinamica avviene un rapido processo di sostituzione dei vecchi quadri dirigenti sia nel partito, sia nelle istituzioni del welfare. Un po’ per ragioni anagrafiche, un po’ per precise scelte politiche si assiste ad un ricambio che, nell’epoca del compromesso storico, e con tutte le preoccupazioni di accreditamento che il PCI ha presso le altre forze dell’arco costituzionale, non può non avere un effetto a cascata nella definizione di nuovi criteri secondo i quali assumere, programmare, decidere.

E tali criteri sono quelli di una distillazione degli sforzi e di una diffusione dei poteri compiuta per due ordini di motivi: – il primo è in una politica locale che mette in soffitta l’indicazione togliattiana dell’alleanza con i ceti medi produttivi sotto l’egemonia della classe operaia, o meglio che rinuncia ad un aggiornamento di questa politica alle esigenze dell’oggi, nel tentativo di cavalcare gli interessi dei nuovi strati emergenti; – il secondo, che a mio avviso va visto in subordine al primo, ma su un piano di stretta consequenzialità ad esso, è nella logica consociativa in base alla quale, abbandonata la battaglia per il decentramento contributivo, non restava che rimanere in buona con il potere centrale, nei confronti del quale ci si limitava a rivendicare le risorse, come diceva Barbera.

Ciò determinava anche in città una politica di grande apertura nei confronti delle minoranze che centralmente detenevano il potere (e specialmente dei cattolici). Nelle istituzioni del welfare ciò significò che gli amministratori, per mettersi al riparo dalle critiche eventuali provenienti dalle altre componenti dell’arco costituzionale si impegnarono in un continuo sforzo di tipo interpretativo in base al quale – ad esempio – i consultori, che a Reggio “non hanno fatto in tem­po” a nascere nella prima metà degli anni 70, nascono più tardi secondo quest’ottica di tipo consociativo e senza che alcuno, da parte delle minoranze, oltretutto, abbia fatto alcuna pressione, in quegli anni almeno, su questo piano, ma semplicemente perché i nuovi amministratori stavano diventando all’improvviso ‘più realisti del re’.

Per cui in base a queste premesse, come Aymone ebbe a dire già nel ’79, nelle istituzioni del welfare emiliano rapidamente si passa dal ‘periodo delle giuste parole d’ordine’, a quello ‘della costruzione nel territorio’, ed infine al ‘periodo della crisi e del riflusso’ [15]. Cosicché il nuovo ceto politico, nato a partire dal ’68, ma che si va agglomerando in base ad una specie di selezione alla rovescia che privilegia sempre più le capacità di allineamento consociativo dei quadri lentamente, ma inesorabilmente – e a volte in maniera brutale – manda a casa i vecchi amministratori.

In questo periodo le istituzioni, intese come spazi di libertà, cominciano a diventare disfunzionali rispetto al nuovo clima consociativo. Comincia così una inesorabile opera di trasformazione delle istituzioni del welfare reggiano che, da luoghi di sperimentazione, diventano istituzioni bonificate in cui la ‘cultura amministrata’ tende sempre più a soppiantare la cultura vista come esercizio critico; e gli esperti o sono marginalizzati e sostituiti da tecnici che non hanno cognizione della cosa, funzionali al nuovo modo di vedere i servizi, o fanno karakiri e si ridimensionano essi stessi.

Ciò nondimeno in questo periodo, a Reggio E. come nel resto della Regione Emilia e Romagna, si completa e si perfeziona sul piano amministrativo la costruzione dei servizi. Non siamo più in una situazione di ‘stato nascente’ in cui l’alleanza fra esperti e amministratori accorti inventa il nuovo e lo ripropone sempre in maniera creativa e critica: si tenta anzi da più parti di evirare la cultura critica che era nata negli anni precedenti, ma il progetto, l’architettura dei servizi continua ad andare avanti.

Anche la partecipazione, che nel primo dopoguerra era stata la spina dorsale della controcultura comunista, e che nell’epoca della sperimentazione post-sessantottina si era trasformata a Reggio Emilia in quell’insieme di istanze di base[16] che avevano innescato il cambiamento in tutti i luoghi del welfare, ora diventa un’altra cosa. Cosicché la libertà e l’autonomia dei soggetti della partecipazione – che fino all’inizio degli anni 70 era come un insieme di onde che continuamente si riproducevano dapprima nella controsocietà, poi nella sfida alle vec­chie istituzioni, per poi magari essere costrette a sfaldarsi nella battigia del tran tran politico-istituzionale – a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 tendono ad essere compresse fin dall’esordio dei nuovi soggetti sulla scena politica cittadina, quando non nascono già evirate di ogni reale spinta critica.

Si assiste così in quegli anni da una parte alla scomparsa dei vecchi soggetti della partecipazione, intesi come soggetti autonomi e liberi (dai condizionamenti di chicchessia), dall’altra alla comparsa – come abbiamo visto più sopra – di un nuovo soggetto burocratico che vede la parte­cipazione come attivizzazione eterodiretta ed eteronoma (vedi ad es. i Comitati di Gestione , Decreti Delegati, i Quartieri, le Circoscrizioni, i Comprensori, etc.). Laddove l’eteronomia appare evidente nella incontrollabilità delle mo­dalità secondo le quali si formano realmente le decisioni in questi luoghi presto svuotati di ogni nerbo critico e abbandonati da tutti, tranne che dagli apprendisti stregoni della nuova burocrazia; e l’eterodirezione spinge verso continui tentativi di attivizzazione della base senza che ad essa venga dato alcun elemento per dirigere realmente il movimento: tentativi che alla fine spingono verso la formazione di una ‘autocoscienza alienata’ che ufficialmente dovrebbe permettere una comunicazione fra apparato e utenti, ma che in effetti mira a pilotare il cambiamento secondo la logica dell’apparato.

E il territorio in questa nuova logica comincia a cambiare pelle e a diventare la tela di Penelope che viene continuamente fatta e disfatta in base ad esigenze che appaiono più legate alle logiche attuali dell’apparato che a quelle dei soggetti che dovrebbero essere i fruitori e i controllori dei servizi. Didascalica in proposito è la nascita e la repentina scomparsa dei Comprensori sociosanitari che nascono a freddo, a tavolino e alla fine servono solo ad immettere nel circuito del welfare una nuova leva di operatori (prevalentemente amministrativi) ampiamente selezionati col ‘manuale Cencelli’ del consociativismo.

E’ ciò che resta della mentalità da ‘centralismo democratico’ che, nella sua immaterialità e in questo nuovo clima consociativo, ha permesso all’apparato di autopromuoversi ed autoselezionarsi, poiché il centralismo democratico ora, attraverso un’opera di smussamento ed eliminazione di ogni tratto individuale nella definizione del “cursus honorum” burocratico, produce alla fine un ‘quadro’ senza slanci e senza passioni che in effetti diventa una tela che si presta passivamente ad essere ridipinta secondo le esigenze del partito o della corrente del partito di cui il quadro è espressione. L’assenza di principi e di passione politica spinge il ‘quadro’, sia esso impiegato nelle istituzioni del welfare, sia nel partito, o in altri luoghi del potere locale, in uno stato di (fal­sa) sicurezza che implica alla lunga una crescita a metà, un non diventare mai adulti e autonomi, e cioè il permanere sempre in una posizione filiale in cui l’unico rischio che si corre è quello di essere riciclati, come figli inetti, in un settore dell’apparato ritenuto (a volte a torto) meno importante.

 

 

4° Fase: L’aziendalizzazione, il welfare mix e il declino

La fine della prima repubblica significa anche crisi sia del welfare dei servizi sia dello stato assistenziale. Ciò che spinge in questa direzione è l’enorme buco che nel bilancio dello stato si era prodotto negli anni ’80 per via degli scriteriati criteri (BOT – CCT, etc) in base ai quali il pentapartito aveva cercato di risolvere il problema della spesa. Il protrarsi per oltre un decennio di queste politiche aveva, fra l’altro, contribuito non poco a sconvolgere la base del blocco sociale che era stato cementato dall’avvento del centrosinistra ed aveva contribuito altresì alla nascita di nuove classi sociali legate alla rendita e alla speculazione finanziaria, i cui interessi – come abbiamo visto – avevano cominciato a minare alle radici il significato del welfare.

La crisi del blocco sociale che aveva tenuto su il centrosinistra spinge dapprima il trio Amato, Ciampi, Dini, successivamente l’Ulivo a cercare un nuovo patto fra produttori, che è alla base del programma dell’Ulivo e che consiste in una politica di austerità necessaria per consentire all’Italia l’ingresso in Europa. Ciò in sede locale significa apertura ai popolari, che era stata già incubata nel decennio precedente e che perciò diventa ora di facile attuazione in città.

La linea di rigore che i governi del nuovo centrosinistra assumono nei confronti della spesa, però, a mio avviso, non basta a comprendere ciò che sta avvenendo nei territori del welfare qui in Emilia, e a Reggio in particolare. E’ vero infatti che già la riforma De Lorenzo e giù giù fino ai recenti progetti di riforma della scuola di Berlinguer e De Mauro, tutto va verso l’aziendalizzazione dei servizi che dovrebbe essere l’architrave su cui costruire una rigorosa politica della spesa. Ma in effetti l’altro versante del programma prodiano prima, e del centrosinistra poi, quello che va nella direzione del welfare mix, determina, almeno qui a Reggio Emilia, una situazione particolare che sotto certi punti di vista, conferma le politiche del rigore, ad esempio attraverso la dismissione pura e semplice di settori del welfare ed il ritorno della cura sulle spalle delle famiglie e delle donne, in particolare; sotto altri punti di vista appare, più che altro, come una pura e semplice spinta verso la nascita, a fianco dei servizi pubblici, di veri e propri doppioni (e a volte anche di triploni) dati in appalto al privato no profit o profit.

Tali nuovi ambiti del welfare non solo si aggiungono, spesso in maniera concorrenziale a quelli che qui ci sono già da 30 anni, non solo spesso non hanno alcun legame di continuità con la cultura dei servizi che qui si è sedimentata fra gli operatori, ma vengono anche erogati con criteri di appalto poco chiari, che non è azzardato definire clientelari. Criteri che mortificano l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro perché li obbligano a salire su uno dei due o tre carrozzoni clientelari presenti in città che, di fatto, operano in condizioni monopolio.

Le recenti concessioni che a livello centrale ci sono state da parte degli elementi più moderati del centrosinistra alle posizioni della Compagnia delle Opere, posizioni che ribaltano la logica del ‘pubblico al primo posto’ e della natura universalistica del welfare, e definiscono come prioritario l’intervento privato e solo residuale quello pubblico[17], hanno prodotto una accentuazione del fenomeno.

La presenza inoltre di logiche di assegnazione degli appalti secondo regole definite in sede regionale e locale che premiano i progetti meno costosi pongono gli attori del privato sociale in una condizione di povertà di risorse che spinge verso l’erogazione di servizi di basso profilo che pesano sui fruitori e sugli operatori. Questi ultimi infatti, privati del tempo e delle risorse per la formazione, pagati male e perciò in perenne situazione di turn over non solo sono posti oggi nella impossibilità di svolgere un lavoro qualitativamente elevato, ma, in prospettiva, sono anche impediti, al di là delle loro qualità e della loro dedizione personale, nel potere contribuire alla sedimentazione nel tempo di una cultura dei servizi, etc. Il tutto mentre spesso il pubblico è in grado di offrire lo stesso servizio a costo zero.

Il tutto mentre nei 30 anni scorsi nel pubblico, almeno qui in Emilia e Romagna, si è sedimentata una cultura dei servizi ricca, stimata spesso anche extramoenia, trasferibile, se solo ci fosse la volontà politica di trasmetterla[18].

Nel frattempo sul piano sociale la realtà reggiana si va sempre più configurando come una società postindustriale e terziarizzata. E ciò è rilevabile, da una parte, a partire dal fatto che quasi la metà della popolazione attiva di Reggio Emilia nel ’91 è impegnata nel settore dei servizi, dall’altra dal fatto che, anche rispetto ai dati del ’71, è cambiata la qualità del terziario, che – da arretrato che era fino al ’71 – ora diventa avanzato, cioè sempre più concentrato sul piano della comunicazione e nella finanza[19].

Da una recente rivelazione compiuta dall’Osservatorio per le famiglie di Reggio Emilia emerge una nuova fisionomia della famiglia reggiana che appare ormai come “un quadro strutturale complesso”, ormai mille miglia lontano dalla famiglia contadina, e analogo sotto molti profili a quello che va emergendo oggi in tutta Europa (Zanatta). I dati raccolti mostrano una netta prevalenza di nuclei semplici, con una scomparsa della tradizionale struttura plurinucleare, con l’emergere, a fianco di quella nucleare, della famiglia prolungata (Scabini), e con l’espansione della famiglia mononucleare, che implica – in ultima istanza – un complessivo aumento del numero di famiglie, unito alla contemporanea contrazione della loro dimensione media (Iori).

Ma c’è un’altra e più sconvolgente trasformazione che prende Reggio Emilia specie a partire dalla seconda metà degli anni ’90: l’immigrazione. La trasformazione di Reggio in una società opulenta attrae chi, da tutto il mondo, vien qui per trovare un luogo di lavoro e di vita. Tutte le statistiche parlano di un trend che fra il 2008 e il 2028 dovrebbe vedere gli immigrati superare il 20% dei residenti. E’ chiaro che in una società provinciale, che, nonostante i gli sconvolgimenti degli ultimi decenni, aveva mantenuto un profilo delle tradizioni e perfino un dialetto locale, l’arrivo degli immigrati, in misura così massiccia, risulta un fatto nuovo e una sfida, che fra l’altro, proprio perché va ad innestarsi su di un ceppo già provato dalle rapidissime trasformazioni degli ultimi decenni espone la città a gravi pericoli.

Reggio così, che negli ultimi anni ha assunto la veste di società multietnica (Mottura), stenta a darsi una cultura capace di rapportarsi con i nuovi arrivati, e non riesce a considerare questi ultimi come portatori di culture altre con le quali fare i conti. Di nuovo è possibile costatare oggi la nascita di due società, di due culture. Da una parte la società dei consumi, la ricca tavola imban­dita intorno alla quale tutte le classi sociali affluenti si ingegnano a trovare un senso alla loro sempre più sfrenata pul­sione a “ingerire” qualsiasi prodotto il mercato proponga (Angelini, 1999; Scanagatta). Dall’altra una seconda società, che non è invitata alla tavola consumistica, ma che anzi ne è esclusa e che da alcuni strati sociali della città[20] è vessata e sfruttata.

Le caratteristiche di alterità, di non domesticità di questa seconda società tendono ad essere nascoste alla città. Pur tuttavia gli altri ci sono. Ma questa seconda società, al contrario di quella comunista degli anni ’50, non si pone come controsocietà nei confronti della prima, e non presenta al proprio interno, al­meno a Reggio E., significativi momenti di autocoscien­za dai quali partire per reclamare i propri diritti e le proprie libertà, a parte alcune significative iniziative della CGIL. Anzi sembra attualmente succube della cultura dominante.

Insomma penso sia chiaro ora che Reggio Emilia è diventata il capoluogo di un territorio che, nell’arco di pochi decenni ha subito una serie di cambiamenti strutturali radicali. Affermano Basini e Lugli: Reggio in particolare, e l’Emilia in generale, ‘sono stati sottoposti in questo quarantennio ad un processo di cambiamento che in Inghilterra ed in Francia sono avvenuti nell’arco di centocinquanta anni’. Il rischio sul piano della identità e della coesione sociale in situazioni di rapidissimo mutamento sociale, è quello dell’ingenerarsi di una situazione di anomia (Durkheim) in cui i soggetti hanno l’impressione che i vecchi valori siano diventati obsoleti e che i nuovi valori siano ancora incerti, non sufficientemente condivisi ed appena abbozzati.

Ebbene è giusto dirsi, come fa Ghelfi, che in una terra come questa, diversamente da situazioni simili come il Veneto, in cui il cambiamento è stato altrettanto rapido, i rischi di una disgregazione sociale siano stati meno ampi e la società ha tenuto. Occorre chiedersi anche però fino a che punto l’argine della tradizione, rappresentato da quel mix di spirito di intrapresa e di solidarismo laico, sia oggi ancora in grado di tenere, e fino a che punto invece è diventato un argine costruito su fondamenta di generazioni e di stili di vita che stanno scomparendo e che, prima o poi, rischia di cedere, anche di botto, attraverso le falle rappresentate dalla cesura fra vecchie e nuove generazioni che, ormai prive di ideali, vanno verso il Polo.

In conclusione cosa è accaduto in questi ultimi tempi al welfare reggiano? In quello che fu tra i cantieri principali della sperimentazione del welfare dei servizi con lo stesso zelo speso nel momento della nascita dei servizi, ma con una tonalità mortuaria che è l’opposto del fervore creativo che contraddistinse quell’epoca e quell’epopea, si sta facendo di tutto per potere essere primi anche in un’opera di demolizione.

Il nuovo blocco sociale che qui si è aggregato intorno all’Ulivo ha ai propri vertici un nuovo ceto politico che è diventato esso stesso un fattore di accelerazione dell’opera di disgregazione del vecchio modello di welfare e di riaggregazione di una nuova entità i cui contorni sono quelli dell’aziendalizzazione e del welfare mix. Tre sono fin dall’inizio le strade che l’Ulivo va intraprendendo per ridisegnare in chiave leggera ed in termini di welfare mix il welfare emiliano e quello reggiano, in particolare.

La prima strada, come dicevamo prima, è quella dell’aziendalizzazione che sostanzialmente nasce dalla supposta esigenza di agire sulle spese con rigore. Ciò ha posto le premesse per una mutazione genetica dei servizi, proponendosi di trasformarli in aziende. E qui in Emilia, proprio per lo zelo iconoclasta di cui sopra, in molti scomparti tale trasformazione è già avvenuta. Il tutto accompagnato, specie nella prima fase, da una improbabile total quality applicata ai pubblici servizi, di importazione bocconiana, che appare più come una mano di fondotinta tesa a nascondere il sostanziale taglio dei servizi, che una operazione aziendalistica. Ma questa operazione da sola non basta a spiegare ciò che realmente qui sta avvenendo.

Infatti, a fianco a questa strategia, ve ne sono almeno altre due che sono altrettanto significative. Vi è intanto, come abbiamo già visto, una seconda strada intrapresa dagli amministratori locali: quella della dismissione di settori più o meno ampi di welfare pubblico e dell’appalto di questi stessi settori al privato. Tale dismissione, che dovrebbe avvenire, secondo quanto ci dicono, per ragioni di bilancio, in effetti sta avvenendo secondo criteri che sono tutti da studiare e con logiche poco trasparenti sul piano della spesa. Su questo piano l’alleanza con i popolari presenta interessanti elementi di specificità rispetto a quella storica con i socialisti. I popolari cioè – al contrario dei socialisti, che non avevano una linea sui servizi e si preoccupavano solo di presidiarli – si propongono come portatori di una nuova offerta di prestazioni sociali, sanitarie ed educative e di riallocare le risorse nel loro privato sociale e non. Ciò implica la nascita di un vero e proprio nuovo modello di erogazione delle prestazioni e dei servizi (il welfare mix, per l’appunto!), di un nuovo operatore del welfare leggero, di un nuovo modo di concepire il rapporto con l’utente, di un nuovo modo di fare cultura in questi nuovi servizi che merita un’attenzione particolare, poiché è l’anello principale destinato a fare da vettore e da stabilizzatore del nuovo blocco storico fra ulivisti del centro e della sinistra qui in Emilia.

Infine vi è una terza strada che è quella della sottrazione di ingenti quote del welfare sia dai servizi pubblici, sia dal privato più o meno sociale, attraverso un’opera di inabissamento della cura in quel fiume carsico che è la famiglia, che così viene di nuovo sovraccaricata, soprattutto nella sua componente femminile (AA.VV., 1990), di quelle incombenze suppletive e marginalizzanti dalle quali per tutto il novecento aveva tentato di emanciparsi.

Il risultato di tutta questa complessa operazione non sarà solo la perdita di un modello di welfare che ci è stato invidiato nel mondo, ma anche un rilevante processo di riallocazione delle risorse a danno delle famiglie (e delle imprese) che vedranno venir meno quel salario indiretto prodotto dal welfare che, con la conseguente politica di moderazione salariale, era stato uno dei volani del modello emiliano a partire dalla fine degli anni ’60; e – nella versione degli anni ’80 – aveva costituito, insieme alla rinuncia alla esazione fiscale diretta da parte dell’ente locale, una delle basi su cui si era costituito il nuovo blocco sociale che aveva preso a funzionare alla fine della prima repubblica, e che ancora continua a rimanere in piedi, direi, per forza d’inerzia.

In effetti l’aziendalizzazione, l’appalto al privato, l’inabissamento della cura, ed infine la tikettazione ormai generalizzata stanno minando alla radice il welfare dei servizi, per cui né le nuove classi medie traggono più vantaggi rilevanti da esso, né tantomeno i lavoratori dipendenti, ormai costretti a pagare due o tre volte le prestazioni, e quindi ormai paradossalmente gravati dal welfare.

Ancora più penalizzate dalla situazione attuale sono le donne doppiamente marginalizzate sia per l’enorme aumento del peso che la cura intra-familiare, e perciò femminile, è destinato ad avere nei prossimi anni, sia perché con la contrazione del welfare è destinato a venir meno quell’importante bacino di lavoro femminile extradomestico che è rappresentato dal welfare stesso. Mentre per i nuovi arrivati, che vengono a noi con le loro speranze e senza le loro famiglie, lungi dal ribadire l’equanimità tipica dell’ormai tramontato welfare universalistico, o si prospettano soluzioni che non fanno parte dell’ambito dei diritti, ma della carità, o si dà loro risposte pigre, a rimorchio dei problemi, incapaci di prevederli e di governarli.

Gli homines novi di questo coacervo di forze e di parrocchie pretendono di trattare il welfare emiliano, e reggiano in particolare, come se fosse un vecchio reperto fossile assimilabile al loro stato assistenziale, democristiano, dispendioso e clientelare, e vorrebbero ridurlo a mera istanza di controllo del vero welfare che nei loro disegni dovrebbe traslocare altrove[21]: un ferrovecchio da fare tendenzialmente scomparire.

Molteplici le ragioni di questo declino e non certo identificabili in termini causalistici: abbiamo fatto cenno ai rapidissimi mutamenti avvenuti in città sul piano economico-sociale in questo quarantennio; alla crisi d’identità che ne è derivata all’interno di ogni classe sociale; alle profonde trasformazioni del welfare reggiano sul piano dei contenuti e dei metodi, ed a quelle cui, lungo questo quarantennio, sono andati incontro la partecipazione e gli intellettuali del welfare.

Ciò che mi preme rimarcare, alla fine di questo excursus storico, è però l’assenza oggi nella sinistra locale di un soggetto collettivo e di un luogo in cui il cambiamento (e non solo quello relativo alla politica dei servizi) possa essere interpretato, guidato, piegato agli interessi della propria parte politica. Di fronte a questa inerzia, di fronte all’assenza di luoghi politici in cui la sinistra possa disegnare il proprio futuro, di fronte alla sua presa di distanza da quello che pur fu un aspetto del suo prestigioso passato, l’attivismo del centro, che ha un proprio progetto di welfare, come abbiamo tentato di dimostrare, è destinato ad avere partita vinta.

Intanto gli operatori del welfare sono incanutiti. Molti sono andati anzitempo in pensione e c’è seriamente il rischio che si scavi un grosso fossato fra passato e presente. Su questa linea di discontinuità peraltro incombono altri rischi connessi ai processi di frantumazione dei grossi contenitori che prima dell’aziendalizzazione erano necessari per comprendere i nessi fra gli eventi, e che ora si rivelano disfunzionali poiché non permettono rapide ristrutturazioni e rapidi spostamenti di personale da un settore ad un altro. Tale rischio, che nel breve periodo è di un eccesso di frantumazione, di parcellizzazione in settori sempre meno dialoganti fra di loro e sempre più egemonizzati da una cultura aziendalistica che mira a fini eteronomi rispetto alla cura, nel medio periodo può innescare processi di perdita di ogni memoria del proprio passato e di sottomissione, sul piano culturale, rispetto ai nuovi soggetti privati, profit o no profit, che irrompono sulla scena del welfare leggero dei giorni nostri.

Contro questa disposizione adialettica rispetto al passato e contro questo assurdo oblio mi pare importante prendere appunti per lasciare alle generazioni che verranno tracce di sè e della propria storia.

Reggio Emilia, Maggio 2001

Post scriptum: Oggi, 11 Giugno 2001, s’insedia il secondo governo Berlusconi, che si appresta a maramaldeggiare su un welfare ormai moribondo.

Bibliografia:

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  • Zavaroni A. (a cura di), Uniti siamo tutto. Il movimento cooperativo dalle origini all’esperienza reggiana, Mazzotta, 1977

* Il presente lavoro è tra i vincitori dell’edizione 2001 del premio Michelangelo Notarianni. Apparso in forma ridotta sul N. 27 della Rivista del Manifesto col titolo “La parabola del welfare emiliano – Il caso Reggio Emilia”

[1] Per un racconto puntuale e appassionato di quegli inizi nel mondo dell’antipsichiatria reggiana cfr. Jervis, e specialmente il primo saggio, pp. 9-42.

[2] Questi dati, e quelli che utilizzeremo in seguito per descrivere le trasformazioni che seguiranno a Reggio Emilia nei decenni successivi, vengono da un confronto fra i tre censimenti del 51, del 71 e del 91 e precisamente dalla distribuzione percentuale degli occupati nei tre censimenti presi in considerazione:

ANNO   DEL CENSIMENTO SETTORE

AGRICOLOSETTORE INDUSTRIALESERVIZIALTRO195155,1 %25,I %19,3 %0,5 %1971

2I,2 %

47,0 %31,2 %0,6 %19916,6 %44,7 %48,1 %0,6 %

 

[3] Cfr. il recentissimo studio sull’industria reggiana a cura di Basini e Lugli, che – fra l’altro – riferendosi all’intera regione Emilia e Romagna dice: “Secondo l’Ufficio regionale del lavoro, dal ’37 al ’52 la piccola industria e l’artigianato , che vivono delle commesse della grande industria, perdono il 40% dei posti di lavoro. Le 74.000 unità produttive, che nel ’37 occupavano 295.000, nel ’51 si riducono a 58.000 e occupano 268.000 persone.” (ivi, pag. 143)

[4] Cfr. in proposito: Profumieri, Zavaroni.

[5] Operai capaci di inventare e di costruire l’Erre.60, un mitico trattore che, in alcuni prototipi, era ancora in funzione ancora agli inizi degli anni ’70 (per una ricostruzione della lotta delle Reggiane cfr.: AA.VV., 1977)

[6] Reggio Emilia è ancora oggi contornata da molte ville, cioè da molte frazioni, che negli anni 50 erano ancora agglomerati contadini, che a partire degli anni del boom economico si sono via via trasformate in luoghi residenziali borghesi, o, più tardi, in dormitori degli immigrati.

[7] Cfr. in proposito: Angelini L., 1999.

[8] Mi pare importante, a questo punto fare alcune specificazioni relative al significato che, all’interno di questo lavoro assumo i termini che ho qui usato. Intanto devo ad Adorno la distinzione fra tecnico ed esperto all’interno degli intellettuali delle amministrazioni e del welfare in particolare. Questa distinzione va collocata in una dimensione che, appunto, non è assolutamente legata ad una visione piramidale dei due termini (per cui il tecnico sarebbe nei gradi bassi e l’esperto nei gradi alti della gerar­chia istituzionale) ma secondo il grado di autocoscien­za che concretamente si esprime nella prassi.

Il tecnico, afferma Adorno, non ha comprensione della cosa ma solo competenze di tipo manipolativo. E’ cioè un esecutore che non si pone mai il problema dei criteri di funzionalità che informano il proprio lavoro e tantomeno quelli della istituzione in cui opera (qualora operi in una istituzione). L’esperto invece, secondo Adorno, è uno dei pochi – in una società che uccide sistematicamente le possibilità di autoaffermazione e di autocoscienza – che ha la possibilità di fare “un’esperien­za differenziata ed avanzata”. In questo senso l’esperto compie una forzatura che però va “a beneficio di coloro che, certamente sen­za loro colpa, sono esclusi dall’espressione viva della propria causa”. Cioè, come l’intellettuale critico di Benjamin, ‘deve rappresentare gli interessi del pubblico contro il pubblico”

[9] Gli amministratori, afferma Adorno, si trovano sempre di fronte a due opzioni: possono ridurre le istituzioni ad un insieme più o meno efficace ed efficiente di attività amministrate, possono cioè ridurre le istituzioni del welfare ad un puro affare di natura amministrativa, ed allora avranno bisogno di contornarsi di tecnici, che non si pongono il problema della cosa, e non di esperti. La cultura che informerà tali istituzioni, in questo modo, sarà essa stessa una cultura amministrata, cioè evirata di ogni istanza critica. Oppure possono mettere in atto “una prassi amministrativa maggiorenne”. E possono far ciò rappresentando ‘gli interessi del pubblico contro il pubblico’. Da questo punto di vista il potere che gli amministratori hanno non è sostanzialmente molto diverso da quello degli intellet­tuali, tecnici o esperti che essi siano, che lavorano nell’istituzione: anche il potere di allocare le risorse in un modo o nell’altro infatti nasce da una dialettica fra amministratori e intellet­tuali alle loro dipendenze. Cosicché sia che le istituzioni operino, come in questo primo periodo reggiano in rapporto a movimenti di base capaci di definirle come centri di libertà e sperimentazione, sia che acquisiscano una forza tale “da ren­derle autonome da un effettivo controllo di tipo plebiscitario” è sempre possibile definire un’alleanza fra loro e gli operatori che andrà in un senso o nell’altro, in base ad una serie di fattori che non può essere solo ricondotto alla presenza di un forte movimento di base o di massa.

[10] E riprendendo la distinzione di Adorno fra ‘tecnico’’ ed ‘esperto’ cui si accennava prima in nota.

[11] L’opera di deisitituzionalizzazione, ad esempio, si accompagnava sempre in quegli anni al recupero e al riciclaggio dei vecchi operatori che andavano territorializzati.

[12] Piro, pp.147-148, cit. in Sechi.

[13] E’ noto, in ambito sindacale, l’episodio di Amendola che in quegli anni, durante la lotta della Blok viene a Reggio per riprendere le donne comuniste licenziate che mostravano di essere meno combattive di quelle di Bergamo (dove esisteva un altro opificio Blok) e scopre che la maggior parte di loro nel frattempo o aveva già trovato un nuovo lavoro o era a casa a carico dei familiari, tutte in una situazione in cui il venir meno di uno stipendio per qualche mese poteva essere facilmente riassorbito dalla contemporanea entrata di altri stipendi familiari.

[14] La rinuncia ad una battaglia per un nuovo sistema decentrato di esazione delle finanze per rilanciare le riforme, creando dei sistemi di compensazione per le regioni più povere ed arretrate fa venire in mente lo scontro fra Salvemini e i socialisti emiliani sul rapporto nord – sud degli inizi del 1900.

[15] T. Aymone, Potere locale e burocrazia nell’esperienza della sinistra’, in Inchiesta, N.40, Luglio- Agosto 1979, pp.3-9 (Cfr. anche: Aymone, 1976)

[16] Si tenga presente che Reggio non aveva una università, e questo impediva la formazione, anche in un’epoca di grandi fermenti quale fu il ‘68, di movimenti di massa al di fuori o a latere del PCI.

[17] Per esempio quanto è previsto nella legge Turco sull’assistenza

[18] E qui mi associo al grido di dolore di Burgio nei confronti del welfare pubblico morente, anche se – sul piano programmatico – come Burgio stesso mi pare si proponga, occorre avere un atteggiamento non schizoparanoideo sul welfare mix dei giorni nostri. Infatti da una parte è vero che le ipotesi alla Revelli che propugnano una ‘auto-amministrazione solidale’ risultano utopiche ed idealistiche di fronte ad una classe politica che mette le mani sul no profit in maniera pesante e clientelare. Dall’altra la rinuncia da parte della sinistra ad una battaglia tesa ad evitare che nel no profit si determino situazioni di monopolio, la rinuncia a immaginare e legiferare prevedendo meccanismi di appalto e di remunerazione degli operatori no profit fondati su presupposti di giustizia e di qualità fa da pendant a operazioni, quali quella della Turco, che pongono nelle mani degli apparati amministrativi un potere discrezionale enorme che già sta innescando operazioni neoclientelari. Io penso però che, di fronte a condizioni di appalto giuste e qualitativamente garantite, sarebbe possibile: – innanzitutto far convivere il pubblico, laddove questo ha delle tradizioni ancora vive e feconde, con il no profit; – e soprattutto, dove le condizioni lo permettano, sperimentare forme di cogestione e prima ancora di programmazione comune fra pubblico e no profit a tutto vantaggio degli utenti.

[19] Fra il ’71 e il ’91 gli addetti del terziario nel settore della finanza passano dal 5 al 12 % sul tot. della popolazione attiva.

[20] E non solo da quelli di destra, se è vero che, ad esempio, sul problema degli alloggi, molti dei proprietari profittatori sono di sinistra.

[21] (facendo addirittura questioni circa le effettive possibilità che il pubblico avrebbe di controllare bene, da un punto di vista qualitativo, i nuovi luoghi della cura