Irrealizzabilità del desiderio

di Luciano Rossi

 “Se il pensiero psicoanalitico […] non s’interrogherà sull’origine e sul destino dell’uomo, non riuscirà a dar conto d’alcune questioni essenziali del nostro mestiere: tra queste una teoria della salute”. Così afferma Sergio Erba all’Assemblea annuale del Ruolo.

Bene. Questo apre alla filosofia un varco più ampio di quello consueto nella clinica. Ricordo che in passato Sergio mi ha tirato qualche volta le orecchie perché nei miei interventi “facevo” troppa filosofia e poca clinica. Magari aveva anche ragione, perché esageravo col taglio filosofico, che evidentemente, per formazione, mi è congeniale. Pur sapendo di correre il rischio di una nuova strigliata, ci provo ancora una volta, approfittando della breccia che in questo momento mi si offre. Sono certo, dopotutto, che il dialogo che il Direttore ha aperto con Sisso Tincati traduce la sua antica propensione all’epistemologia e alle scienze umane (testimonio che me l’ha confessata almeno sette anni fa) nel piacere di un esercizio concreto sulle pagine della Sua rivista. A testimoniare le Sue propensioni inconsce a queste materie c’è inoltre la Sua profonda, e sofferta, riflessione sull’etica che è materia di marca prettamente filosofica.

Spero che questa premessa sia logicamente sufficiente ad ingraziarmelo (come vedete, lo temo maledettamente!) e a consentirmi di aprire una finestra sul tema filosofico del desiderio.

Per farlo approfitto della citazione di Sergio Erba sull’irrealizzabilità del desiderio. Anche se il desiderio di cui parlerò io non è probabilmente quello di cui parla Lui. Mi rivolgo al desiderio nella sua accezione più vasta. Vorrei parlare un po’ di questo, non solo perché si connette con la pratica psicoanalitica (Freud, Bion), ma riguarda anche, in senso più ampio, il Destino dell’uomo, che è appunto una delle questioni poste sul tappeto, e, in senso molto più feriale e contingente, il destino (notate la “d” minuscola) dello psicologo.

Prima questione: se il desiderio è irrealizzabile non è meglio arrendersi? La resa è una grande ed inequivoca espressione di forza. Il problema sta semmai nell’esserne capaci. Tanto che il Buddha vi dedicò tutta la sua filosofia e la sua pratica. La sua enunciazione lapidaria fu fatta con le quattro nobili verità: nella vita c’è dolore, il dolore è causato dal desiderio, tutti possono liberarsi dal desiderio, il modo per farlo è l’ottuplice sentiero (che è il percorso terapeutico del buddhismo che deve essere sempre  successivo alla conquista preliminare di un sé integrato).

Seconda questione: il desiderio è buono o non è piuttosto, e spesso, un cattivo consigliere? Lo sappiamo tutti: quando il cielo vuole punirci realizza i nostri desideri. Per Freud, ad esempio, è un cattivo consigliere il desiderio di risanare il paziente. Per Bion la presenza del desiderio ci rende cattivi ascoltatori. È il desiderio che spinge l’analista ad agire, a reagire. Anche per il buddhismo reagire è il sommo male, sì che ad esso sostituisce l’osservare con distacco.

Terza questione: non è che il desiderio sia sempre irrealizzabile; è che porta spesso al dolore e quasi sempre all’errore.

Quarta questione: quanto sono radicati e positivamente connotati, presso di noi, la lotta e il desiderio? Quanto è possibile per noi mutuare da altre culture la resa e il distacco?

Se ne potrebbero porre altre, ma credo che le provocazioni siano sufficienti.

Voglio aggiungere una cosa sulla quarta questione. Si tratta di questo: mi pare che la psicoanalisi non possa propriamente dirsi, in senso pieno, una cultura occidentale. Il suo metodo e il suo setting appaiono, infatti, assai strani a molti pazienti. Certo il comportamento dell’analista si avvicina di più a quello del maestro o del guru orientali che non a quello dell’insegnante o del medico occidentali.

Il suo silenzio, la sua assenza di fretta, di giudizio, di costrizione, sono quanto di più lontano ci può essere dalla nostra cultura. La stessa assenza d’intellettualismo, l’esperienza emozionale correttiva, con i suoi tempi lunghi, il passaggio dei messaggi da centro silenzioso a centro silenzioso, fanno di questa disciplina un’arte più iniziatica che accademica.

In essa la relazione conflittuale, esistente sia per deficit relazionale che per presenza di conflitto, fra l’es e il superego, fra il sé e l’oggetto-sé, fra l’ego e il mondo, si gioca tutta nella relazione fra l’analizzando e l’analista, relazione che da conflittuale diventa conciliata attraverso un processo dialettico che accade in assenza di desiderio. Desiderare un processo veloce non accelera i tempi di trasformazione; semmai li allunga. Questo concetto è sconosciuto nelle scuole statali, tanto in quelle occidentali che, immagino, in quelle orientali. Il problema nasce quando si istituzionalizza qualcosa che per sua natura non può essere istituzionalizzato; vedi la polemica mai sopita sull’autorizzazione dell’analista e dello psicoterapeuta. Tendenza presente peraltro solo del mondo moderno per motivi notissimi e poco nobili. Nel mondo antico si è sempre fatta psicoterapia senza albo: a volte facendosi pagare, a volte no. Aveva altri nomi, certo. Come altri nomi avevano i medici. La medicina esiste dai tempi di Esculapio; l’Ordine dei medici da molto meno. Ma, aldilà di questo, ha poi ragione Manghi quando dice che fare il medico e fare lo psicoterapeuta sono due cose diverse. Credo per esempio che nel medico il desiderio possa sussistere senza troppi danni: nello psicoterapeuta no.

Né gioverebbe produrre una diversa sensibilità nel legislatore, ammesso che fosse possibile, data l’enorme difficoltà, per gli stessi psicologi, a comprendere l’inautenticità di un’analisi di stato o di un’analisi didattica al posto di una personale. A guidare tutto sono ancora una volta gli interessi economici, degli Ordini e delle Società: il massimo del desiderio e dell’avidità. È l’assenza d’interessi economici a far sì che non esista l’albo dei poeti e dei filosofi. È la presenza d’interessi corporativi e di concorrenza a far sì che alla laurea si aggiunga un inutile esame di stato, lassista o severo a seconda dei numeri in gioco.

Un’idea per il legislatore: perché non due, successivi, esami di stato. Sarebbe il trionfo del desiderio. Di chi è già abilitato.