Intorno alla lezione oggi: la crisi delle “funzioni-cornice”

di Leonardo Angelini

 

Premessa: Le quattro funzioni-cornice nella vecchia scuola

René Käes (1981) e, sulle sue orme, Paolo Mottana (1993) c’invitano a non circoscrivere la nostra attenzione solamente a ciò che avviene in classe durante la lezione, e ad allargare il nostro sguardo a ciò che sta a monte ed a valle della lezione stessa: cioè da una parte alle precondizioni che ne permettano lo svolgimento, dall’altra ciò che ne consegue nella psiche, nelle attese e nei comportamenti sia degli due attori presenti in classe (docenti e discenti), sia delle famiglie e, più in generale della società.

Quattro sono le precondizioni evidenziate da Käes nel suo lavoro di ricerca sulla scuola: quattro “funzioni-cornice”, come lui le chiama. Due della quali sono a monte della lezione: la funzione istituente e quella illudente; e due a valle: quella individualizzante e quella di separazione.

Nell’esercizio di queste funzioni – ci avverte sempre Käes – il docente si comporta come un genitore. Con una sostanziale differenza però: perché mentre il genitore opera e si rapporta con i propri figli all’interno di una atmosfera affettiva il docente al contrario esercita le “funzioni – cornice” all’interno di un quadro impregnato di operatività. Anzi le esercita proprio come indispensabile supporto all’operatività scolastica.

In “Affabulazione e formazione”[1] (Angelini, 1998) avevo cercato di mettere a fuoco ciascuna di queste funzioni avendo in mente però – me ne rendo conto ora – una scuola che proprio in quegli anni, come in una lunga “dissolvenza incrociata” andava sparendo per lasciare il posto alla nuova scuola che oggi abbiamo sotto gli occhi.

Per cui. prima di addentrarci nella descrizione delle torsioni cui sono sottoposte le quattro funzioni-cornice oggi, mi pare opportuno riprendere per sommi capi come mi appariva la situazione verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso. Lo farò riportando alcuni passaggi estratti da “Affabulazione e formazione”[2]:

1) La funzione istituente come istituzione di luoghi, tempi e campi del fare operativo scolastico: Prima ancora che il docente sia entrato materialmente nella classe, prima che sia stato definito fra sé stesso e l’insieme dei discenti quel particolare clima carico di passioni ambivalenti che abbiamo definito come l’insieme del transfert e del contro-transfert educativo, il docente e con lui l’amministrazione scolastica devono compiere una importante operazione:

– quella dell’istituzione di un determinato luogo (la classe) in cui la scena formativa ha diritto di svolgersi con tutte le garanzie di intimità e di non ingerenza da parte di estranei sulla scena stessa;

– quella della istituzione di un tempo, più o meno rigidamente determinato (l’orario delle lezioni) in cui docenti e discenti possono, anzi debbono lasciarsi prendere dai contenuti delle materie, possono anzi debbono mettere in atto delle modalità di scambio sublimate e desessualizzate;

– quella infine dell’istituzione di un determinato campo fatto di contenuti e di metodi, di pedagogia e di didattica, di materie e di procedure sublimate e desessualizzate, appunto, che permettono nel loro insieme di circoscrivere quel luogo, quel tempo, quel campo come luogo, tempo e campo in cui non solo per il docente e per ciascuno dei discenti, ma anche per l’amministrazione scolastica, per le famiglie, per la società intera il rapporto educativo e trans/formativo può aver luogo.

Nasce da questa triplice circoscrizione la scuola intesa come istituzione preposta dalla società alla formazione dei propri futuri individui adulti, e tale istituzione ora, in base a quanto abbiamo appena detto, comincia già ad apparire non solo come un’operazione burocratica e pedagogica, ma anche come un’importante operazione mentale che avviene innanzitutto all’interno del docente e gli permette di svolgere le proprie mansioni al riparo dalle tentazioni che altrimenti potrebbero nascere dentro di lui e dai fraintendimenti che potrebbero nascere in coloro che sono fuori dal diretto contatto con i discenti.

Qualora la società, l’amministrazione scolastica, le famiglie e i docenti stessi non convenissero, almeno implicitamente, nell’attribuire a tale istituzione questo terzo significato rischierebbe sempre di venir meno la implicita fiducia che tutti solitamente nutrono nei confronti dei docenti e delle loro lezioni.

2) La definizione di una membrana gruppale in/ludente. Una volta istituiti i luoghi e i tempi della formazione, e allorché siano state definite anche le merci che è possibile scambiare sul mercato formativo il docente si trova di fronte ad un secondo ostacolo: quello derivante dal fatto che la classe non sempre è disposta a lasciarsi affabulare, a lasciarsi prendere dall’argomento sublimato e desessualizzato che è all’ordine del giorno della lezione.

Docente e discenti cioè devono convenire, all’inizio di ogni singola lezione (così come in ogni singolo momento di partenza nel corso dell’anno e del ciclo formativo) sul fatto che quel luogo e quel tempo siano effettivamente per la formazione; essi devono, inoltre, condividere la stessa passione sublimata e desessualizzata per la materia, cioè per quell’insieme di argomenti cui i programmi ministeriali solo vagamente alludono.

Ed ancora una volta è il docente che deve supportare tutto lo sforzo che la situazione richiede. Infatti la classe, senza una pre\occupazione da parte del docente di avvincerla al tema, alla materia, non è detto che si lasci in ogni caso affabulare. Anzi, probabilmente, sua sponte la classe sarebbe più disposta a dis\trarsi per rivolgersi ad altri setting, ad altri giochi, meno sublimati e più spontanei.

Per conquistare la classe, per in/luderla in quel gioco sublimato e desessualizzato che noi chiamiamo lezione, il docente dovrà esplicare una funzione in/ludente, affabulante che ottenga, possibilmente da tutti i discenti presenti, l’equivalente sul piano scolastico di quell’ascolto a bocca aperta che è il primo obiettivo che si propone di raggiungere il buon raccontatore di fiabe (Angelini, 1989).

 

La funzione individualizzante. Se in un primo tempo il docente … ha cercato di dare senso e spessore in maniera indistinta alla sua classe immettendola sul piano dell’operatività e invogliandola, … ad accogliere il proprio sapere quasi fosse un cibo buono da introiettare.

Ora però il docente, in base alla maniera specifica con cui ciascun discente ha introiettato il sapere che da lui proveniva, lo ha fatto proprio, lo ha coniugato con tutto ciò che nel proprio mondo interno preesisteva a quel sapere, non può non cominciare ad attribuire a ciascun discente un senso, un profilo, uno spessore che è di quel discente e solo di esso – …. ogni segno che va nella direzione dell’individuazione … e le propone coram populo, cioè di fronte a tutta la classe attraverso l’esercizio della selezione, del voto, della pagella, ect.

E, così come nelle vecchie famiglie in cui c’erano molti figli i genitori non potevano distribuire in maniera uguale il proprio amore fra essi e non potevano esimersi dall’individuarli nelle loro particolarità esaltando i loro pregi e cercando di correggere i loro difetti, allo stesso modo in classe il docente non può esimersi, dopo che un certo percorso in una situazione di illusione sia stato effettuato, dall’individuare, cioè dal valutare i singoli discenti scoprendo le loro vocazioni; e nello stesso tempo cercando di spingerli a interessarsi anche di quei terreni ai quali i singoli non dovessero sentirsi vocati.

 

4. La funzione di separazione. Infine, come accade in ogni storia che si rispetti, anche le storie che si raccontano sulla scena scolastica finiscono; passano anche gli amori e gli odi, e l’insieme di tutte le passioni sublimate che sul palcoscenico della classe sono giocate. E, una volta che sono passate, si stemperano nel ricordo – …. Il pericolo maggiore nel susseguirsi di questi momenti di separazione è proprio nella stanchezza, nell’usura cui docenti e discenti sono sottoposti dal dover continuamente vestire e svestirsi dei panni della formazione, adattarsi ai nuovi incontri, alle nuove avventure formative – … E d’altro canto il pericolo opposto, e speculare rispetto a questo, è quello dell’abbraccio mortale del docente con la classe, del desiderio soffocante per i discenti di affiliazione perpetua, o di captazione e di rispecchiamento narcisistico che finiscono col negare la crescita dei discenti, i livelli di autonomia da essi già raggiunti, la possibilità di ciascuno di loro di affrontare da solo il mondo — In ogni caso però la separazione rimane un evento doloroso per il docente, un evento che egli dovrà affrontare con sé stesso e con i propri introietti, prima che con i propri discenti. Mentre il discente, allorché si pone in cammino lungo il percorso che lo conduce verso i propri obiettivi formativi è come un Ulisse che prima apprende a navigare sotto costa, e poi a poco a poco impara a navigare in mare aperto, a conoscere i venti, a seguire la propria rotta e, nonostante i tanti naufragi, a raggiungere la propria meta.

Vediamo ora a quali torsioni è sottoposta oggi ognuna di queste quattro funzioni.

 

  1. La funzione istituente nella scuola odierna

Venticinque di anni fa, quando tramite Mottana per la prima volta m’imbattei nei lavori di Käes, per spiegare a me stesso ed ai miei interlocutori cosa significhi la funzione istituente, facevo l’esempio della Scuola di Barbiana che, pur essendo scuola (e che scuola!), stentava a farsi riconoscere istituzionalmente come tale dal resto delle istituzioni scolastiche dell’Appennino toscano, dalle autorità costituite e – specialmente all’inizio – perfino dalle famiglie. Mentre al resto della scuola del circondario di Barbiana ciò non accadeva in base al fatto che esse erano riconoscibili da tutti come “scuola”, e per ciò istituite come tali sia dalle autorità che dalle famiglie.

Nel frattempo molta è l’acqua che è passata sotto i ponti della scuola italiana, e molte sono le trasformazioni avvenute nella nostra società. E certo è che, mentre qualche tempo fa le coordinate in base alle quali la scuola era istituzionalmente riconosciuta come tale erano condivise da tutti, oggi non è più così per un insieme di motivi che – come dicevamo nel capitolo precedente – sono riconducibili sia alle trasformazioni intervenute nella società e nella famiglia, sia agli atteggiamenti e ai comportamenti dei due attori presenti direttamente in classe. Partiamo da questa vignetta:

Innanzitutto infatti molti genitori non sono più disposti a ribadire la loro vecchia alleanza con i docenti[3], e tantomeno con i dirigenti: ed anzi sono propensi a contrapporsi ad essi insieme ai loro figli;

– dall’altra lo Stato, in tutte le sue espressioni, tende sempre più a disinvestire sulla scuola, a mortificare la docenza, ed in particolare la scuola e la docenza pubbliche;

– dall’altra ancora – e questo è ciò che brucia di più sul piano della quotidianità – i discenti fin dal primo impatto con la scuola fanno fatica ad accettare quelle regole che sono a fondamento al fare operativo.

Per cui oggi per spiegare che cos’è la funzione istituente non c’è più bisogno di tornare alla eterodossa ed “irriconoscibile” Scuola di Barbiana, poiché il problema della mancata evidenziazione della natura operativa del luogo che chiamiamo “scuola”, il mancato riconoscimento da parte di molti, dentro e fuori dall’aula, delle “regole” in base alle quali quel luogo si istituisce come “scuola” è sotto gli occhi di tutti.

Ed anzi la discussione sulle regole, il loro ripristino, o la loro integrazione con nuove regole sufficientemente condivise da tutti, la stesura di una nuova Carta Costituzionale adatta alla scuola odierna – come sa chi ha la ventura di dialogare con docenti e dirigenti – rappresentano in ogni ordine di scuola la più impellente richiesta che giunge agli “esperti” da parte della scuola.

Ecco perché la riflessione sulla funzione istituente si para di fronte a tutti coloro che hanno a cuore le sorti della scuola italiana come uno dei più importanti problemi da risolvere.

 

  1. La funzione in\ludente nella nuova scuola

Abbiamo già visto come le manovre che stanno alla base della funzione istituente servono al riconoscimento come ‘scuola’ dei luoghi in cui si fa lezione sia da parte dei genitori e della società, sia al loro interno da parte dei docenti e dei discenti. E abbiamo visto come tali manovre nella vecchia scuola di fatto quasi sempre coincidevano con quel piccolo gesto sacerdotale da parte del docente, l’apertura del registro, così discreto ma pure così efficace da predisporre immediatamente tutti i presenti al silenzio. Mentre nella nuova scuola il docente per ottenere lo stesso effetto deve ricorrere a gesti molto più ostentati, ed a volte imploranti.

Ma oggi come ieri le manovre istituenti di per sé non bastano ad introdurre i discenti alla lezione. Prima che cominci la ‘lezione’ – qui intesa come doppia lettura che di un determinato argomento scolastico fanno a turno sia i docenti che i discenti – è necessario ottenere l’attenzione da parte dei propri interlocutori. Cosa più facile se l’ascoltatore è il docente, molto meno facile se l’udienza è rappresentata dai singoli discenti e dalla classe nella sua interezza.

Per catturare l’attenzione dei discenti il docente deve cercare di avvincerli, di affabularli in modo che essi si appassionino alla lezione. Käes chiama ‘funzione illudente’ questo esercizio affabulatorio che vede il docente impegnato a catturare l’attenzione della propria classe, e che in un lavoro di una quindicina di anni fa ho cercato di paragonare all’attività del raccontatore di fiabe ‘in situazione’.

La differenza fra la posizione del docente in questo momento e quella del raccontatore di fiabe è che mentre il secondo solitamente non fa molta fatica ad ottenere l’attenzione da parte della propria ‘udienza attuale’, il primo invece si: perché solitamente l’argomento è meno avvincente; perché in alcune materie – quelle, come matematica, con un tasso di didascalicità più elevato rispetto all’area linguistica – almeno apparentemente ci sono scarsissime possibilità di avvincerla[4].

In entrambi i casi però lo sforzo è il medesimo, e consiste letteralmente nella capacità di in\ludere la propria udienza, la propria classe: cioè di introdurla in un gioco che per il raccontatore in situazione è il racconto di ‘storie’ naturalmente affascinanti; per il docente è una delle tante arti del buon parlare capaci di ottenere l’attenzione – possibilmente di tutti o almeno dei più – introno all’argomento all’ordine del giorno.

È chiaro che, anche senza rendersene conto, nel fare questo tipo di operazione illudente il docente usa degli artifici didattici che gli vengono in termini intuitivi non solo dalla sua esperienza attuale di docente, ma anche da quella passata di discente, ed a volte anche da quelle di genitore o di figlio. Non è un caso che molti docenti, interrogati in proposito, si riferiscano a questo tipo di “apprendimento” della proprie capacità in\ludenti, più che alle lezioni di didattica apprese a scuola. Anche perché – almeno in Italia – molti di essi, pur essendo docenti, non hanno mai fatto un corso di didattica.

Ciò che attraverso l’intuizione i docenti (come i raccontatori in situazione) colgono sono alcune cose alle quali spesso non si fa caso in termini riflessivi: – le possibilità offerte dalla liminalità del luogo; – la capacità di lettura di ciò che la propria udienza attuale, cioè la classe che ‘ora’ essi hanno di fronte, vuole sentirsi dire; – la capacità di contaminare il testo della lezione con ciò che di più personale ed avvincente il docente ha.

Riflettendoci un momento converrete con me che, mentre nel caso della funzione istituente la vecchia scuola era avvantaggiata nei confronti della nuova scuola, nel caso dell’esercizio della funzione illudente avviene il contrario.

Non è un caso che la vecchia scuola sia stata definita una “macchina del vuoto”; che nel nostro caso significa un luogo in cui il docente – al riparo della sacralità della sua posizione, della selezione di censo sulla quale si fondava la vecchia scuola e dell’alleanza a priori con i genitori – poteva passare alla lezione senza preoccuparsi eccessivamente del fatto che gli studenti seguissero o si appassionassero alla materia.

Nella nuova scuola, e nella nuova classe invece la posizione di minore liminalità del luogo implica un continuo sforzo per ripristinare quella membrana gruppale illudente che fa da contenitore dell’operatività condivisa.

La flessibilità dei programmi permette, e direi impone una più personale interpretazione di ciò che il docente vede nella materia e nella lezione che ha preparato per la propria classe attuale, in modo in modo da renderla più avvincente.

E questo sforzo, che è un tuffo dentro se stessi alla ricerca di materiale adatto ad istoriare la lezione con contenuti appetibili, lo costringe ad un continuo lavoro di immersione dentro se stesso alla ricerca di elementi capaci di suscitare interesse alla lezione, e -subito dopo- di emersione attraverso l’espressione di un testo che a quel punto è una lezione personale ed avvincente.

Resta inteso però che, in assenza di questo sforzo personale, il passaggio dal rituale pedagogico alla isterizzazione della scena scolastica pone il docente odierno molto più esposto all’insuccesso, poiché la sua lezione risulta scarsamente capace di avvincere la classe. E questo, in un clima in cui la selezione di merito incide (ancora) sulle attese di mobilità verticale delle famiglie, ai loro occhi, e a quelli dei loro figli lo rende come minimo superfluo.

Nel mezzo c’è la lezione[1]

 

  1. La funzione individualizzante, i discenti, le famiglie e l’Invalsi

Abbiamo visto che per Käes ciò che in ambito pedagogico di solito sta per “valutazione” in effetti può essere definito come “funzione individualizzante”, cioè come qualcosa che dovrebbe tendere ad individuare dinamicamente (cioè nel tempo) predisposizioni ed idiosincrasie del singolo discente, a esprimere ciò che va individuando su di esso non direttamente, ma da ciò che risulta attraverso il fare pedagogico, aiutandolo in questo modo, insieme alla famiglia, ad assumere una visione sempre più chiara e realistica di se stesso.

Ma tutto ciò nella nuova scuola va in crisi per due ordini di ragioni., legate per un verso al rapporto con le famiglie, per altro verso, potremmo sdire, all’Invalsi.

– Alle famiglie perché è proprio su questo piano che esse – spesso fin dai primi giorni delle elementari – oppongono resistenza al ridimensionamento dei loro piccoli narcisi, cui inevitabilmente qualsiasi realistica valutazione li ‘condanna’. Resistenza che, combinata con la crisi di autorità dei docenti, si trasforma in un’opera di costante invalidazione della loro valutazione.

– All’Invalsi perché la standardizzazione della valutazione dei singoli discenti, della classe, e implicitamente dell’operato dei docenti, nega ogni validità al loro giudizio personale, e soprattutto spersonalizza la valutazione deprivandola di ogni parentela con la singolarità,, la passionalità e la longitudinalità[2] delle funzioni genitoriali, cui Kaës le apparenta.

Il tutto si risolve spesso in una serie di tensioni lungo la faglia che separa e unisce i docenti con la burocrazia scolastica., se non altro perché quest’ultima componente non può non essere sensibile al richiamo forte che viene dal ministero e dall’Europa.

  1. La funzione di separazione e il precariato

Infine la funzione di separazione, che già nella vecchia scuola creava una serie di problemi legati all’usura cui erano sottoposti i docenti, ora ne crea di diversi, non più legati né all’usura derivante da quel vecchio gioco a rimpiattino con la propria individualità indotto dal ‘rituale pedagogico’, né alla esposizione ad quel rapporto coinvolgente da “missionariato sociale” che aveva caratterizzato agl’inizi la nuova scuola.

Il punto di svolta su questo piano è rappresentato dalla precarizzazione del lavoro avvenuta agli esordi della seconda repubblica. Per molti docenti giovani e meno giovani infatti la precarizzazione del lavoro – unita a leggi e procedure abilitanti farraginose e in perenne divenire –  rappresenta nei fatti l’impossibilità di definire legami forti e ravvicinati e longitudinali con la classe: cioè l’impossibilità di definire qualsiasi alleanza educativa con essa e con ciascuno dei suoi componenti.

Ciò nel breve periodo comporta la fine di ogni rapporto decente sul piano affettivo con essa.

Nel medio periodo, e al di là della competenza del docente, un depauperamento della stessa ‘istruzione’, vale a dire dell’insegnamento nudo e crudo della singole materie’.

 

[1] Cfr. in proposito il Cap. 2.5 del presente testo

[2] Cfr.: “Test, griglie, misurazioni: testomania voyeurismo dell’esattezza”, in Angelini L., pp. 201\214

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[1] e precisamente nel capitolo intitolato “Docenti e discenti un esempio di scambio ineguale”. Si tenga presente che “Affabulazione e formazione” praticamente era la messa per iscritto di un corso di formazione che avevo tenuto negli anni precedenti a Reggio Emilia rivolto ad una cinquantina di docenti reggiani “di ogni ordine e grado”.

[2] Ivi: pp. 59\69

[3] “visto, e severamente punito!”, era il commento che mio padre poneva sotto ogni nota che arrivava a casa.

[4] Sappiamo invece che anche il testo più didascalico si presta ad una certa esteticità: un mio amico, docente di matematica infatti, ascoltandomi su questo punto, mi ha detto che questa è la didattica che traspare dai testi di matematica cinesi o svizzeri.