Il servizio di psicologia: un esempio di complessità organizzativa

di Giuseppe Sammartano

Direttore del Servizio di Psicologia, ASL 9 – Trapani

Convegno “La Psicologia: una risorsa del S.S.N.”, a cura dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – Roma 10 ottobre, 2001

Uno spunto per dare avvio a questa discussione con voi mi è venuto da un recente, ricco articolo di Umberto Galimberti sulla rivista Psicologia e Psicologi, scritto in occasione del centenario della nascita di Jacques Lacan.

Nel contesto dell’articolo,[1] Umberto Galimberti riprende un libro di James Hillman – dal titolo emblematico: “Dopo cento anni di psicoterapia il mondo va sempre peggio” – per affermare:

(Qualcosa spinge James Hillman – n.d.r.)… a dire che Dopo cento anni di psicoterapia il mondo va  sempre peggio, coronando con questo libro l’opinione diffusa che la psicoanalisi è alla fine e tra un po’ assisteremo al suo crollo non dissimile dal crollo dell’altra ideologia del novecento che è il marxismo. A crollare sarà invece la psicoanalisi che non pensa, quella che non esce dall’ambito ristretto di una clinica che tende al benessere di coloro che Nietzsche chiamava “i piccoli uomini”, le cui aspirazioni si risolvono in “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”.

Ho trovato di grande interesse questa riflessione; intanto perché io credo che, quello che Galimberti dice per la psicoanalisi, possa ben valere per il più ampio contesto della psicologia, nella quale non mancano certo esempi di riduzionismo e di appiattimento ideologico. Ma, ancor di più, per la sferzante ed implicita critica all’idea di salute che traspare dalla boutade di Galimberti sull’argomento.

Sulla nozione di salute noi psicologi tendiamo in genere ad acquisire, a dare per scontate, le  anguste definizioni che di questo tema tendenzialmente offrono le istituzioni sanitarie; le quali, a loro volta, di solito lo mutuano da ciò che dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità – un’istituzione considerata generalmente una sorta di “mostro sacro”.  A ben vedere, si tratta, per lo più, di definizioni che, per quanto ampliate nel corso degli ultimi 20 anni, risentono fortemente – diremo meglio che ne sono una coerente espressione – di una impostazione medicalista, anche quando applicate ai problemi dell’ “anima”. Esse si basano sul convincimento, assai diffuso, che corpo e “mente” si situino su un continuum teoretico-epistemologico e che essi siano distinguibili soltanto in ragione di secondarie differenziazioni metodologico-applicative.

A mio giudizio, invece, tale continuum – sulla cui attendibilità la psicologia sanitaria, in questi anni, si è interrogata piuttosto poco – è sostenibile soltanto in chiave ideologico-compromissoria, quindi politica, e non epistemologica.

Su questo argomento, trovo particolarmente illuminanti le seguenti parole di Diego Napolitani[2]


                L’individuo portatore di turbolenze cerca una salvezza, non una salute altra da quella a cui ha già provveduto attraverso quegli arrangiamenti predisposti dalla sua auto-organizzazione assolutamente singolare. Un delirio, un’allucinazione (…omissis…) sono rimedi a cui ogni singolo provvede contro un suo intollerabile sentimento di condanna (…omissis…). Necessita ovviamente un chiarimento approfondito la differenza tra salute e salvezza (…omissis…). La coppia condanna/salvezza appartiene alla polarità etica (e, quindi, strutturalmente relazionale), mentre la coppia malattia/salute appartiene alla polarità somatica (e quindi strutturalmente individuale). Le due coppie interagiscono e perdono la loro differenziazione quando vengono accomunate nel “luogo comune” della sofferenza. Ma tutt’altra cosa è la sofferenza del pathos, dell’insopprimibile frizione dell’uomo col mondo e col tempo, rispetto alla sofferenza prodotta (…omissis…) da una patologia.

 

Io so bene che ciò che sto sostenendo non è necessariamente condiviso da tutti,  però intendo affermare che i paradigmi biologici e neuro-fisiologici, con i quali inquadriamo i problemi del corpo, e i paradigmi ermeneutico-storiografici, attraverso i quali entriamo in rapporto con i problemi dell’anima, non siano raffrontabili tra di loro se non in chiave riduzionistica e, dunque, confusiva.

In questo quadro, ritengo che lo specifico della psicologia sia costituito, in buona parte, proprio dal cogliere la tensione drammatica che esiste tra l’individuo e il contesto culturale interno/esterno in cui egli è immerso e del quale in qualche modo partecipa. Ed è a quest’individuo che la psicologia può offrire uno spunto e un contenitore perché questa tensione sia per lui meno aspra e non finisca col divenire, come talora diviene, un problema a rilevanza psichiatrica. Ma questa offerta mi appare coerentemente praticabile solo a  condizione di porre a sua premessa la discontinuità corpo-mente, in aperta antitesi con quanto su ciò si sostiene, in genere, a proposito della necessità di superare questo dualismo.

La psicologia non si distingue dalle restanti discipline sanitarie solo in quanto campo applicativo “altro” di un medesimo tessuto teoretico-operativo; se ne distingue fondamentalmente per i suoi paradigmi riflessivi di fondo, i quali la collocano su un piano differenziato già sul livello filosofico-epistemologico.

Nella mia esperienza di Direttore del Servizio di psicologia della ASL di Trapani, ho tenuto a mente queste osservazioni di base, che adesso sto richiamando molto sommariamente, come una sorta di guida ispiratoria della mia azione. E, al riguardo, vorrei ancora ricollegarmi al già citato articolo di Galimberti laddove egli lamenta – ed anche qui sono molto d’accordo con lui – il fatto che la cultura psicologica italiana ha troppo affrettatamente reciso ogni collegamento con la filosofia; cosa che, aggiungo io, ha contribuito non poco al diffondersi, nella nostra disciplina, di un pragmatismo, talora acritico ed esso stesso affrettato, di derivazione medica.

Questo pragmatismo, rilanciato peraltro da una serie di ideologie sanitarie a carattere efficientistico, che in  questi ultimi anni ci attraversano tutti in modo copioso senza che la cultura psicologica abbia potuto metabolizzarli, rielaborarli criticamente e ricollegarli alle proprie tradizioni di pensiero, lo vedo come un rischio, tutt’altro che astratto, nel mantenimento di un accettabile livello di coerenza riflessiva e rigore teoretico della psicologia.

Ecco, questa è la premessa culturale che io mi sento di sottoscrivere su qualunque discorso si faccia oggi intorno al ruolo e alla posizione dello psicologo nel contesto della sanità.

Fatte queste considerazioni preliminari, presenterò alcuni spunti di riflessione specificamente dedicati ai Servizi di psicologia, per come li ho sperimentati in questi anni in Sicilia.

 

Occorre una struttura organizzativa autonoma della psicologia?

Questo è un problema che è emerso anche stamattina qui, con il quale noi psicologi in Sicilia ci siamo confrontati – lo ricordava Azzolini – in modo estremamente duro negli anni scorsi; per fortuna adesso siamo in una fase molto più calma e gestibile ma certamente, nel periodo che va più o meno dal ’93 al ’96/’97, la comunità  psicologica siciliana è stata attraversata da una tempesta problematica, riguardo a questa domanda che si è posta, la quale ha avuto talora esiti devastanti: numerosi rapporti personali sono risultati irreparabilmente distrutti da questo attraversamento conflittuale; ma, per fortuna, nel varco aperto da questa esperienza, abbiamo potuto anche sperimentare rapporti umani soddisfacenti nati ex novo.

Una prima considerazione che vorrei fare è il fatto che ragionare su questo problema dei Servizi di psicologia è molto difficoltoso. Conosco personalmente colleghi in varie parti d’Italia che, pur invitati dai loro Direttori Generali d’Azienda ad organizzare un Servizio di psicologia, hanno rifiutato il compito o hanno gettato la spugna dopo alcuni mesi di infruttuosi tentativi, perché hanno dovuto misurarsi con difficoltà ritenute insormontabili.

 E allora una prima necessità metodologica per affrontare bene questa questione è quella di riflettere intorno ad essa basandosi principalmente su paradigmi di tipo culturale e storico, piuttosto che non secondo valutazioni di tipo corporativo e sindacale. Il pensiero sindacale e corporativo, infatti, si fonda essenzialmente sulla gestione dei nostri “appetiti”,  pur legittimi, mentre noi dobbiamo affrontare questo problema con la testa, e magari con il cuore, ma non con la pancia.

Ho sentito dei ragionamenti, negli anni scorsi in Sicilia, del genere:

“Ma quanti posti di psicologo dirigente produciamo se facciamo i Servizi e quanti posti di psicologo dirigente produciamo se non li facciamo?”

Questo, a mio giudizio, è un modo errato di impostare la riflessione.

Noi non dobbiamo mirare a costruire posti dirigenziali facili, ma posti dotati di senso culturale e organizzativo. Capaci, cioè, di reggere nel tempo alle potenti spinte degli interessi contrapposti: perché dai posti sensati potranno nascere, dopo, altri posti ancora sensati. Mentre dalle poltrone facili nasceranno solo vie chiuse che non porteranno da nessuna parte, se non alla progressiva ed irrimediabile perdita di credibilità della nostra azione complessiva.

È stata gia ricordata stamattina la multiformità culturale della psicologia. Non è neanche il caso di soffermarsi ulteriormente su questo, se non per dire che a quella complessità della psicologia come disciplina, cui il Professor Dazzi ha dedicato la sua ottima relazione, io aggiungerei anche la complessità della professione nello specifico contesto sanitario: la tradizione di questi ultimi 25 anni di esperienza sanitaria ha di fatto “costruito” degli psicologi a misura di istituzioni particolari, di servizi specifici; siano essi consultori, siano essi sert o dipartimenti di salute mentale non importa, ma si è di fatto teso a implementare profili di ruolo, per gli psicologi, che sono sostanzialmente “impacchettati” nella logica tipica di quelle strutture. Allora, se c’è una complessità epistemologica del pensare, in psicologia, vi è anche una complessità e una multiformità istituzionale del “fare psicologia”.

Non dobbiamo guardare a tutto questo, credo, come a un nostro “vergognoso” limite, da coprire con più o meno coreografiche foglie di fico. Dobbiamo poterlo riconcepire come una nostra risorsa; e, perché ciò avvenga, è necessario che i limiti del nostro essere, pensare ed agire vengano culturalmente e organizzativamente coordinati. Voglio dire che la necessità del coordinamento delle psicologie – più che non della psicologia al singolare – non nasce dall’ansia – o, se vogliamo usare il linguaggio di prima, dall’ “appetito di potere” – di chi deve andare a esercitare questa funzione di coordinamento, ma dal convincimento che questa multiformità, per non divenire frammentazione, vada armonizzata unitariamente: non dalla complessità della disciplina, in sé stessa, noi dobbiamo guardarci, ma dalla frammentazione discorsiva, pragmatica e istituzionale che da tale complessità così spesso nasce.

Non possiamo certo, con i Servizi di psicologia, risolvere alla radice – occorre dirlo – problemi di impostazione disciplinare, istituzionale, metodologica che la psicologia, in quanto area di ricerca culturale, deve risolvere attraverso lo sviluppo della sua stessa storia al formarsi della quale, ad ogni modo, partecipiamo e concorriamo.

Credo, però, che i Servizi di psicologia possano offrire uno strumento organizzativo e un contenitore istituzionale che renda possibile, non l’annullamento, ma la gestione della complessità teoretico-metodologica e pragmatica della psicologia nel contesto specifico della sanità.

Un punto sul quale vorrei brevemente soffermarmi è relativo alla questione della “debolezza”, vera o presunta, della psicologia: a seconda degli umori, talvolta pensiamo che essa sia debole, altre volte che non lo sia.

Che significato ha questa domanda, intorno alla debolezza, che talvolta ci poniamo?

Ci sono, intanto, dei dati oggettivi da considerare: la nostra è una società che, nel momento in cui si va connotando sempre di più in chiave tecnologica, ha un apprezzamento crescente per tutto ciò che è molto definito, tutto ciò che sembra consentirci di coltivare l’illusione di eliminare ogni zona d’ombra, nell’esperienza umana. La psicologia, invece, proprio per le ragioni a cui facevo riferimento prima a proposito della complessità, ha di fatto una sua inafferrabilità, un suo carattere sfuggente, ambiguo, che talvolta spaventa o appare in vario modo intollerabile, soprattutto agli “spiriti” più semplici.

Questo determina, a mio modo di vedere, condizioni favorenti per le quali, nella rappresentazione sociale – e quando dico “rappresentazione sociale” mi riferisco anche a quella che coltivano gli stessi psicologi, perché essi vivono su questa terra e vengono attraversati da vissuti sociali che  caratterizzano l’immaginario collettivo come chiunque altro – la psicologia assume talora il significato di disciplina debole, quindi  di un “minus” rispetto a qualche cosa di più grande, di più preciso, di più definito, di più rassicurante che può essere rappresentato da altre discipline dai confini metodologici ed operativi più marcatamente definiti e, dunque, più rassicuranti.

Questa condizione può diventare il nostro handicap, se la  assumiamo noi stessi come un difetto da nascondere e come qualcosa che giustifichi la posizione “ancillare” della psicologia rispetto alle altre discipline, considerate “forti”.

Ma può anche diventare la nostra specificità e la nostra ricchezza, nel momento in cui non neghiamo questa caratteristica della nostra professione e siamo in grado metterla fiduciosamente in gioco. Ciò significa provare a costruire, su questo presunto limite, un elemento di riconoscimento non dispregiativo della nostra identità culturale e professionale, in vista di una sua precisazione e di un suo rafforzamento.

Ecco: in due parole, occorre che i Servizi di psicologia favoriscano la emancipazione dei singoli psicologi da quella posizione, per così dire, di “vittime colluse” cui li induce, spesso, la mancata elaborazione collettiva del tema della debolezza della psicologia e della “ancillarità” istituzionale che ne consegue.

La questione della visibilità. Mi sembra che la rappresentazione della visibilità, in modo non dissimile da quella della debolezza, funzioni come una fisarmonica: a volte si stringe a volte si allarga; talvolta pensiamo che siamo visibili, altre che non lo siamo.

Nella mia esperienza, per esempio, ho osservato molto chiaramente che nei servizi territoriali, e quindi nei nostri ambulatori autonomi di psicologia che esistono da sei anni, la maggioranza dei nostri primi colloqui avviene con pazienti inviati da altri pazienti. Non ci sono altri mediatori: la gente viene a chiedere di uno psicologo, in un luogo nominato “psicologia”, e lo fa perché un conoscente, che c’è già stato e ne ha tratto giovamento, glielo suggerisce. Questa è una piccola  prova di visibilità nel rapporto con gli utenti.

Però, a questa visibilità con gli utenti, non fa assolutamente riscontro, nella nostra storia, una analoga visibilità istituzionale.

Prima di arrivare al Servizio di psicologia, nel ’96, facemmo a Trapani un’esperienza, in qualche modo preliminare, durata alcuni anni. Avevamo costruito, allora, un’Unità Operativa di psicologia all’interno del Dipartimento di Salute Mentale. Un’esperienza che fece scuola, per noi, ma che oggi consideriamo fallimentare, sul piano dei risultati: non riuscivamo, se non in rare occasioni, a diventare interlocutori dell’USL (allora non era ancora Azienda provinciale). Io ricordo che era una situazione veramente spiacevole il ritrovarsi nel Dipartimento di Salute Mentale che, a sua volta, in quel superato assetto dipendeva, per effetto di norme regionali, dal Servizio di Medicina di Base.

Era terribile il fatto che, come psicologi, come U.O. di psicologia, elaboravamo dei progetti, arrivavamo in amministrazione, al Servizio di Medicina di Base, e qui venivamo rispediti ad acquisire il parere favorevole del Responsabile del DSM; siccome quest’ultimo era manifestamente contrario alla stessa esistenza dell’U.O. di psicologia, ci ritrovavamo in una situazione assolutamente paradossale: il nostro superiore, che era quello che avrebbe dovuto rappresentarci e legittimarci, e che era l’unico che veniva riconosciuto in USL, era pregiudizialmente contrario alle nostre proposte (poiché era di fatto contrario alla nostra esistenza come unità organizzativa autonoma). Questo ci poneva spesso in una situazione di paralisi.

Solo con grande fatica riuscimmo ad attenuare i termini di questo paradosso, senza mai risolverlo del tutto, allorquando, io investii della questione direttamente il Commissario dell’USL, dicendogli:

 “Guardi così non possiamo andare avanti; mi dia almeno l’opportunità di interloquire con le altre componenti istituzionali, a titolo paritario con il Responsabile del DSM, in modo tale che lui rappresenti le sue indicazioni, in quanto Capo del Dipartimento, e io possa dire la mia come Responsabile della psicologia: saranno poi gli organismi sovraordinati a decidere sulle singole questioni”.

Così facendo, qualche scoglio lo superammo ma non fu  comunque facile andare avanti perché il problema dello scavalco di chi stava funzionalmente in una posizione sovraordinata trovava continuamente il modo di riproporsi.

Questa difficoltà, oggi, con il Servizio di psicologia non sussiste: partecipiamo di diritto alle discussioni istituzionali che ci riguardano in rappresentanza autonoma e diretta della nostra professione.

 

Come organizzare un Servizio di Psicologia?

Mi sembra che la generalità delle esperienze organizzative autonome della psicologia, in Italia, seguano in ambito territoriale fondamentalmente due modelli.

Uno è costituito da un’organizzazione unica in staff direzionale, che è essenzialmente di tipo dipartimentale (sebbene non ne assuma il nome) ed è il nostro caso, a Trapani.

L’altro è costituito da diverse unità operative, anche quelle denominate talora “servizi”, tra di loro indipendenti, inserite in dipartimenti o distretti particolari. È ovvio che per questa seconda ipotesi valgono esattamente le osservazioni critiche che facevo prima a proposito dell’unità operativa all’interno del DSM che, nella nostra esperienza, è stata abbastanza poco produttiva.

Più in generale gli svantaggi dell’organizzazione unica in staff direzionale, quindi dipartimentale, sono costituiti dal fatto che questo modello organizzativo obbliga ad un ripensamento più radicale dell’assetto del lavoro; ciò tende a generare un maggior numero di conflitti e una maggiore intensità e densità di essi, rispetto al modello per unità operative tra loro indipendenti, entro altre strutture più grandi. Però, il modello in staff ha anche il vantaggio di attivare più rapidamente la capacità di iniziativa autonoma degli psicologi e di rendere più rapidamente visibile la disciplina all’occhio delle altre componenti istituzionali.

Noi fin da subito siamo stati riconosciuti da tutti i dipartimenti amministrativi della nostra Azienda e questo ci metteva in condizione di negoziare l’attribuzione delle risorse senza dovere dilungarsi in tortuose discussioni preliminari sulla legittimità e l’opportunità di farlo. Questo è un vantaggio straordinario del nostro modello di organizzazione che, tuttavia, offre lo spunto a maggiori difficoltà nel momento della sua fondazione.

Per l’altro modello vale, invece, l’opposta considerazione: il suo svantaggio principale è che non modifica sostanzialmente i rapporti di potere tra le discipline e, semmai, si limita ad innalzare il livello al quale si svolgono i conflitti interprofessionali. Quando eravamo in U.O. entro il DSM, per esempio, accadde che i singoli psicologi tendevano a  non litigare più tanto nelle équipe con i medici: infatti, ora erano i primari a litigare tra di loro! Diciamo, quindi, che il conflitto era semplicemente spostato più in alto ma non era modificato, nella sostanza, di una virgola.

Proprio perché non modifica troppo radicalmente l’assetto organizzativo vigente, l’organizzazione di unità operative sotto-ordinate ad altre strutture si innesta con maggior facilità nel pre-esistente tessuto istituzionale: genera meno fratture e meno tensioni e può, quindi, dare l’impressione di essere più facile da realizzare; ha, però, indubbiamente una portata innovativa di misura assai più modesta.

Più in generale penso comunque che, quale che sia il modello organizzativo prescelto, debba essere indicata chiaramente, negli atti istitutivi, la possibilità di erogazione professionale. Io non credo al “gestionale” puro: mi sembra che sia veramente un mito evanescente; così come non credo  all’autonomia professionale, ove essa non sia corroborata da un’autonomia gestionale.

Ritengo che un servizio che abbia una sua autonomia anche formalmente riconosciuta, sul piano della gestione degli psicologi, ma che non possa erogare la professione direttamente, dovendo fare questo solo attraverso altre strutture multiprofessionali (idea che, in Sicilia, è stata sostenuta da molti) sia solo un contentino formale, per noi psicologi, incapace di incidere effettivamente e stabilmente nella vita dell’istituzione.

Premessa, dunque, la necessità di precisare esplicitamente la facoltà di erogazione professionale, essa potrà essere organizzata con diverse formule da adattare alle circostanze specifiche.

Nella nostra esperienza ne abbiamo individuate tre:

·        Attraverso attività mono-professionali a gestione diretta. Cosa che facciamo nei nostri ambulatori, ma anche presso enti esterni (scuole, comuni, forze armate etc.) con i quali abbiamo stabilito particolari intese.

·        Attraverso consulenze occasionali o stabili presso altre strutture della stessa Azienda. L’esempio più classico è rappresentato dal lavoro che svolgiamo presso i presìdi ospedalieri o presso specifici reparti.

·        Attraverso la sottoscrizione di progetti condivisi da più servizi, nei quali sono indicate le risorse, e le funzioni, con le quali ogni servizio partecipa al progetto. Un esempio è rappresentato dal gruppo di lavoro per la redazione e la periodica revisione della carta dei servizi, al quale partecipiamo con un nostro operatore.

Vediamo ora, in breve, qual è il nostro assetto organizzativo istituzionale attuale.[3]

Il Servizio di Psicologia dipende direttamente dal Direttore Generale ed è composto da una serie di Unità Operative Distrettuali. Queste U.O.D.P. hanno la funzione primaria di erogare, in proprie sedi, le prestazioni che costituiscono oggetto della professione di psicologo. Inoltre, mantengono i contatti con gli psicologi del Distretto che operano in altre strutture per gli aspetti organizzativi generali (monitoraggio attività, formazione, tirocini etc.).

 

Quali le condizioni che rendono possibile l’attivazione del Servizio di psicologia?

Riguardo alle pre-condizioni che ritengo indispensabili perché si possa avviare una politica di attivazione di un Servizio di psicologia, che nasca sotto buoni auspici, metterei in evidenza, essenzialmente, le seguenti due:

·        Quando ci sia una sufficiente volontà politica regionale e locale per realizzarli: senza una copertura politica adeguata, sarà molto difficile che il Servizio di psicologia possa reggere alle “intemperie” che, soprattutto in fase istitutiva, tendono ad abbattersi su di esso

·        Quando ci sia un sufficiente consenso tra gli psicologi che devono partecipare alll’istituendo Servizio. Talora, per trovare il consenso, è necessario perdere qualcosa in coerenza dell’azione, e qualche volta questo può essere utile. Metterei, tuttavia, un limite a ciò: ampliare il consenso è un valore ed una necessità, ma la ricerca dell’ unanimità ad ogni costo diventa paralizzante. Volendo riassumere, direi che, nell’immediatezza del momento fondativo, occorra mirare ad una soglia di consenso minimo che consenta di disporre delle collaborazioni necessarie per avviare il nuovo dispositivo di organizzazione e portarlo avanti. Si potrà rinviare ad epoche successive la costruzione di forme di consenso più ampie e diffuse, tenendo però a mente che l’unanimità, tra gli psicologi, ben difficilmente potrà essere raggiunta, anche dopo molto tempo.

Noi, a Trapani, ci siamo mossi quando abbiamo ritenuto che queste condizioni ci fossero e questo ci ha indubbiamente aiutato nel fronteggiare con sufficiente successo le situazioni problematiche che ci si sono poste innanzi.

Le quali, essenzialmente, possono essere così schematizzate:

  • Nell’immediato, l’opposizione medica, e psichiatrica in particolare, che in Sicilia è stata violentissima e gli splittings tra gli psicologi che sono stati anche questi molto duri. La separazione dall’assetto tradizionale è esperienza molto faticosa e, per molti addirittura non tollerabile, poiché richiede un cambiamento della mentalità organizzativa corrente al quale non tutti sono pronti nello stesso tempo. Rappresenta un corollario di ciò la difficoltà di tollerare una dirigenza interna alla professione, intolleranza che si manifesta, in genere, in forme di actings-out ostili tra gli psicologi che dirigono le U.O. e gli psicologi che ne fanno parte.
  • Nel tempo medio, questi elementi sono stati a loro volta amplificati, nella nostra esperienza, dalla difficoltà a tollerare un basso livello di definizione normativa dei compiti del Servizio di psicologia (dato, di per sé, oggettivo stante l’assenza di un atto di indirizzo nazionale sulla materia e la vaghezza delle norme regionali); ciò tende a favorire sovrapposizioni e splittings conflittuali con altri servizi e/o altri professionisti sanitari in quantità non trascurabile e rilancia, in molti, la scoraggiante impressione che il Servizio di psicologia sia un contenitore “vuoto”, in quanto non ben o non pienamente legittimato, a livello normativo, e certamente non consolidato nella rappresentazione comune. Solo con il tempo si è capito (e non certo ubiquitariamente) che, ciò che appariva vuoto, poteva rappresentare una stimolante scommessa culturale da riempire di progettualità ed entusiasmo creativo.

 

·        Nell’attualità è poi andato emergendo il problema, esso stesso complicatissimo, delle carriere dei singoli professionisti. Da un lato ci sono le legittime aspirazioni di carriera personale da parte degli psicologi. Queste aspirazioni, un tempo sopite ad effetto dell’immobile e paludoso panorama istituzionale precedente all’aziendalizzazione delle USL, sono emerse piuttosto esplosivamente in questi ultimi anni. Dall’altro vi è il limite, esso stesso oggettivo, che il Servizio di psicologia (come qualunque altro servizio) non può essere concepito come un “esercito di generali” e, dunque, non può dare risposte ai desideri di carriera in misura complessivamente soddisfacente rispetto all’ampiezza della domanda. Questo è un problema con il quale attualmente ci stiamo confrontando abbastanza duramente (se pur non platealmente), il quale sta generando nuove difficoltà e nuovi conflitti tra gli psicologi. Spero potremo uscire dall’empasse, ma allo stato non so bene come. Magari ci si risentirà, sul punto, tra qualche anno!

 

Quali gli effetti, nel tempo, dell’attivazione di una struttura autonoma della psicologia?

Indicherei fondamentalmente questi tre elementi:

  • Migliore individuabilità della psicologia da parte della direzione delle altre articolazioni aziendali. In atto per noi non è più un problema discutere e negoziare, in Direzione, le questioni concernenti la psicologia; un tempo lo era. La psicologia oggi esiste nella “mente” dell’Azienda ed essa non è più confusa con altre discipline nella stessa, abbondante, misura in cui ciò accadeva nel passato.

·        Ampliamento e chiarificazione della domanda sociale di psicologia: noi adesso abbiamo un ampliamento e una diversificazione molto significativi della nostra attività perché, per esempio, molti Comuni ci hanno chiesto di fare protocolli di intesa per costruire delle collaborazioni con i loro servizi sociali (in Sicilia, i Comuni sono generalmente privi di psicologi, benché la legge regionale affidi loro le competenze in materia di interventi sociali). A questo ampliamento qualitativo della domanda di psicologia, in parte direttamente proveniente dagli utenti e in parte mediata da altri enti o da altre articolazioni organizzative della stessa Azienda, ha corrisposto un ampliamento quantitativo del volume di attività valutabile tra il 20 e il 30%, nei quasi sei anni che lavoriamo come servizio autonomo, rispetto agli anni precedenti alla attivazione di tale servizio, pur in costanza delle risorse umane e professionali disponibili (complessivamente 47 psicologi distribuiti in 5 Distretti).

  • Modificazione della “mentalità” organizzativa degli psicologi: abbiamo verificato che il servizio induce un cambiamento che a me sembra di potere descrivere come un maggiore, e più preciso, senso di responsabilità nello specifico professionale. Fino a sei anni fa, in molti erano più o meno recalcitranti a firmare gli atti scritti che producevano nell’esercizio della professione (relazioni, certificazioni e quant’altro), tendendo a preferire che la firma finale sugli atti fosse apposta dai medici; oggi è prassi diffusa che ognuno firmi i referti sugli interventi che ha effettuato. Vi è, inoltre, da segnalare il maggior sviluppo di un atteggiamento che definirei “consulenziale”: lo psicologo è oggi più capace di rappresentarsi come un professionista che va in un “luogo” istituzionale, senza che ne sia una componente strutturale, come una sorta di agente esterno che arriva, raccoglie un bisogno, offre degli strumenti, affronta un problema e poi torna alla sua “base”. Ciò significa che la sua “base di progettazione” non coincide più con il luogo delle sue operazioni. Questa dissociazione, a mio giudizio benefica, tra “luogo delle operazioni” e “luogo di progetto” è stata evidentemente indotta e rilanciata dal Servizio di psicologia e vedo che un numero crescente di colleghi riesce a rapportarsi ai problemi del lavoro psicologico, con maggior soddisfazione personale, tenendo a mente le cose che qui ho cercato di riassumere.

            Certamente ci sarebbero tante altre cose da dire ma mi affido al dibattito per gli approfondimenti. Per il momento vi ringrazio della vostra attenzione.


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BIBLIOGRAFIA
 
1.       Umberto Galimberti, “Jacques Lacan. Tra Psicoanalisi e filosofia”. In: Psicologia e Psicologi. N. 02/2002. Erickson Editore, Gardolo (TN), 2001.
 
2.       Diego Napolitani, Giuseppe Sammartano, “Dialogo su psicologia, psicoanalisi, psichiatria, conoscenza, prassi istituzionale”. In: Giuseppe Sammartano, Concetta Xibilia, “Dal Mito multiprofessionale al Servizio di psicologia. Percorsi, antinomìe, prospettive”. Giuseppe laterza Editore, Bari, 2000.
 
3.       Giuseppe Sammartano, Concetta Xibilia, “Dal Mito multiprofessionale al Servizio di psicologia. Percorsi, antinomìe, prospettive”. Giuseppe laterza Editore, Bari, 2000.

 

 

 


 


[1] – Umberto Galimberti, “Jacques Lacan. Tra Psicoanalisi e filosofia”. In: Psicologia e Psicologi. N. 02/2002. Erickson Editore, Gardolo (TN), 2001.

 

[2] – Diego Napolitani, Giuseppe Sammartano, “Dialogo su psicologia, psicoanalisi, psichiatria, conoscenza, prassi istituzionale”. In: Giuseppe Sammartano, Concetta Xibilia, “Dal Mito multiprofessionale al Servizio di psicologia. Percorsi, antinomìe, prospettive”. Giuseppe laterza Editore, Bari, 2000.

[3] – Gli elementi di questo paragrafo sono da considerare aggiornati alla data del Convegno.