Il rapporto delle educatrici con i bambini handicappati in asilo nido e scuola per l’infanzia

di Deliana Bertani

da: Leonardo Angelini e Deliana Bertani “Il bambino che è in noi – Percorsi di ricerca al nido e nella scuola per l’infanzia in provincia di Reggio Emilia, Unicopli, Milano, 1995

1. Tre attori presenti sulla scena della sezione
Oggi dovremmo fare un discorso introduttivo rispetto al tema. Poi dedicheremo quattro incontri alla discussione di alcune situazioni presentate da voi, secondo le modalità che cercheremo di individuare e di delineare sulla base del discorso che seguirà. Nell’ultimo incontro dovremmo tirare le conclusioni di quello che abbiamo fatto insieme.
Oggi mi sentirete parlare poco del bambino handicappato e del genitore del bambino handicappato. Questo perchè credo sia necessario intenderci su tutta una serie di questioni, di problemi che sono della genitorialità in generale e che sono dell’insegnante in generale.
Faremo delle annotazioni precise e particolari per quanto riguarda il bambino handicappato quando, negli incontri successivi, esamineremo le situazioni particolari.
Detto questo, entriamo nel contenuto della discussione di oggi.
Innanzitutto credo sia opportuno dire che in una sezione di nido o in una sezione di scuola materna, la dinamica dei rapporti è estremamente complessa, è estremamente varia e mutevole. E’ uno scenario, quello nel quale vi muovete, variegato, dipinto in maniera estremamente complicata, complessa, con tante tonalità. Soprattutto direi che è uno scenario che muta in continuazione a seconda di chi lo guarda, a seconda di chi agisce, a seconda della situazione particolare che in quel momento attraversa, prova o sta sperimentando la persona che sta agendo in quel determinato scenario appunto, di cui parlavamo (sezione di nido e scuola).
Chi agisce in questo scenario? Gli attori principali di questa situazione sono tre: l’educatore, il bambino, il genitore. Questi attori direi sono costantemente presenti e appunto interagiscono tra di loro ciascuno portandosi dietro il proprio mondo emotivo, affettivo, la propria esperienza, i propri valori, le proprie conoscenze, i propri fantasmi, le proprie idee, le proprie caratteristiche, le proprie modalità di reazione di fronte alle situazioni, ciascuno portandosi dietro quello che è.
L’interazione che avviene determina, evidentemente, delle modificazioni in ciascuno di questi tre attori. Cioè ciascuno ha un’influenza sull’altro, ciascuno inconsapevolmente e consapevolmente si modifica in questo scenario (se vogliamo continuare ad usare la metafora del teatro). Queste modificazioni che avvengono sono quelle che chiameremo processi di identificazione reciproca, quello che io prendo dall’altro e quello che all’altro do.
Noi dobbiamo esaminare, come tema dei nostri incontri, la relazione insegnante-genitore del bambino handicappato; per esaminare questa relazione dobbiamo attraversare, addentrarci nell’analisi di questi processi di influenza reciproca, di interazione reciproca, di identificazione reciproca.
Vediamo un attimo chi sono questi attori, di cui parlavamo prima
1. Il bambino, perno della relazione, è il soggetto-oggetto principale intorno al quale ruota il resto. Allora abbiamo un bambino che evolve, che, pur con le sue modalità di ragazzino in difficoltà, con le sue modalità di ragazzino con problemi, passa attraverso le tappe evolutive con i tempi e i modi che gli sono propri; attraversa una serie di tappe e di evoluzioni che da una situazione di dipendenza pressoché totale, da una situazione di indifferenziazione pressoché totale [cosa significa “indifferenziazione”? Una situazione nella quale il bambino non sa bene chi è, nella quale il bambino deve ancora fondamentalmente “ricevere” la sua identità dall’ adulto] di indeterminatezza, di completa dipendenza, via via attraverso tutta una serie di tappe faticose arriva fino alla individuazione, cioè a sapere, anche se per sommi capi, chi è. Arriva ad un’individuazione, evolve comunque verso l’autonomia. E’ quindi un ragazzino che attraversa una serie di processi lenti, faticosi, per alcuni versi più difficili, per altri meno difficili, comunque sta crescendo. Ma tenete presente, sia nel vostro lavoro col bambino, sia nel vostro lavoro nei confronti dei genitori, che il processo di crescita, per tutti i bambini, non avviene per linea retta, ma è un processo che ha un andamento a zig-zag, ha un andamento tipo elettrocardiogramma, con punte di andata e ritorno. Perché è necessario tenere presente questo? Perché evidentemente rischieremmo di cadere in depressione, di essere estremamente frustrati, di rimandare la frustrazione ai genitori o di non essere in grado di sostenerli adeguatamente di fronte a comportamenti che potrebbero essere visti e considerati come fallimenti dei piani di lavoro, come regressioni. La regressione è qualche cosa che fa parte della crescita e che quindi non ci deve spaventare di per sè.
Fatto questo inciso molto importante, torniamo al bambino che abbiamo di fronte. Allora abbiamo un bambino che sta crescendo attraverso una modalità di rapporto con l’adulto che varia, da una dipendenza totale via via passa ad una dipendenza più articolata, variegata, diversa che diventa sempre meno totale ed assoluta. Allora nella sua crescita il bambino prende tutta una serie di cose dall’adulto, che sono sia le cose concrete, reali, oggettive che vede fare, che sente dire, che vede esprimere, ma apprende anche tutta una serie di cose non dette, non espresse, di cose delle quali spesso e volentieri noi non siamo consapevoli.
Quali sono questi “non detti”, queste sfumature che il bambino prende dall’adulto, insieme alle cose esplicitate, insieme a quello che gli insegniamo, insieme a quello che facciamo perchè ci imiti, insieme a quello che gli diciamo perchè si corregga? Sono le sfumature della voce, dell’atteggiamento del corpo. Sono cose comunque sempre dettate da quello che ci passa dentro, da quello che proviamo a livello di emozione in quel determinato momento e che abbiamo provato e sentito in momenti simili. Allora da una parte l’adulto al quale il bambino si riferisce è il genitore, dall’altra parte è l’insegnante, gli altri due attori della nostra scena.
2. Veniamo ai genitori. Prima della nascita di un figlio, c’e tutta una serie di fantasie che vengono fatte su come si vorrebbe che questo figlio fosse, su come lo si immagina, su come lo si vede, su come si pensa che si sarà nei suoi confronti in una determinata situazione, se si sarà capaci o no. Abbiamo cioè prima della nascita di nostro figlio un’immagine costruita sulla nostra esperienza, un’immagine di come sarà e di come noi saremo. Un’immagine che sostanzialmente si basa su quello che noi vorremmo che questo bambino fosse in base alle cose che noi non abbiamo avuto o in base alle cose nostre, alle caratteristiche nostre che ci piacciono di più e che non abbiamo potuto realizzare o che abbiamo realizzato e vorremmo che anche nostro figlio realizzasse, continuasse a portare avanti. Fantasie che spesso sono individuali, altrettanto spesso sono fantasie di coppia e che comunque vanno nel senso della realizzazione di qualche cosa che noi vorremmo si realizzasse, di qualche desiderio delle più svariate qualità che abbiamo in qualche parte della nostra mente. Allora è l’immagine che noi ci costruiamo in base alla nostra esperienza, in base a quello che abbiamo sperimentato da piccoli, in base a quello che abbiamo voluto, in base a quello che comunque è stata la nostra esperienza, la nostra storia.
Queste fantasie fatte prima della nascita non coincidono mai, quasi mai, con il bambino reale che poi nasce. Chi nasce è un bambino che è come è, non come noi avremmo voluto che fosse. Magari ci assomiglia, magari ha le caratteristiche che ci riportano alla mente quello che noi abbiamo più o meno fantasticato, ma è quello che è, con caratteristiche che ci piacciono di più e di meno o non ci piacciono. Questo succede a tutti, succede in tutte le situazioni ed a maggior ragione quando nasce un ragazzino con problemi.
E’ molto semplice concludere, in base a quello che vi dicevo prima, quanto la nascita del ragazzino handicappato sia una profonda disillusione rispetto a quello che noi pensavamo. Cosa avviene in sostanza? Avviene che i genitori a cui nasce un bambino handicappato debbono elaborare un lutto. Si trovano sostanzialmente di fronte alla morte di qualcuno. Chi è questo qualcuno? E’ il bambino ideale, il bambino che si erano costruiti nella propria fantasia
E’ un processo che tutti i genitori compiono, quello di abbandonare il bambino ideale che si erano costruiti per occuparsi del bambino reale. In una situazione di normalità è un processo più o meno tranquillo, che viene da sè. Nella situazione di un bambino handicappato non è un processo che viene da sè, è qualche cosa che richiede tempo, che non avviene mai una volta per tutte e che viene messo costantemente in discussione; un processo che è interrotto e deve essere rivisto, che sottopone i genitori del bambino handicappato ad una situazione di stress molto grossa.Cos’è che, ad esempio, il genitore del bambino handicappato non può fare rispetto al genitore qualsiasi o comunque può fare con una difficoltà enorme o comunque se fa, spesso lo fa in maniera poco reale? Il genitore del bambino handicappato fa molta fatica, così come fa fatica l’insegnante, a mettere in atto processi di identificazione reciproca. Fa fatica ad investire affettivamente, emotivamente.
Perché fa fatica ad investire emotivamente? Sostanzialmente per molti motivi, ma possiamo dire che sono due le cause maggiori. Un genitore di un ragazzino normale si rapporta col proprio figlio seguendo due grosse strade: io mi rapporto con te mettendo in atto, nel mio rapporto con te (mio figlio), un tipo di identificazione, un tipo di rapporto che ho imparato, che ho avuto con le persone più significative della mia vita, nel senso che io genitore metto in atto con te, mio figlio, una identificazione di tipo transferale. Cosa significa? Significa che tu bambino sei in rapporto con me secondo una modalità tipo quella che io ho avuto con mia madre e mio padre, con gli adulti significativi della mia infanzia, cioè fondamentalmente io mi rapporto con questo bambino seguendo una strada che io ho gia sperimentato, grosso modo. Questa e una via.
L’altra via che io posso mettere in atto e quella definita identificazione di tipo narcisistico. Cioè, io sto con te perchè tu realizzi per me certe cose, perchè tu mi completi, perchè tu raggiungi quegli obiettivi che a me sono stati negati, a cui io non sono arrivata ecc., attraverso di te mi realizzo.
Facciamo un esempio così ci possiamo capire.
Io madre, persona normale, comune ecc., metto al mondo una figlia bella, carina, che attira immediatamente le simpatie di tutto il parentado. Allora, io madre posso avere due modalità di rapporto (non sempre ci accorgiamo del tipo di rapporto che abbiamo). Se io seguo la prima modalità che è quella di tipo transferale, mi può succedere una cosa di questo genere, che io piano piano mi accorgo che la gente che mi sta intorno, mio marito, mio padre, mia madre si occupa troppo di questa bambina, dedica a lei anche le attenzioni che dovrebbe dedicare a me. Io vengo messa da parte e questa cosa aumenta sempre di più, nel senso che se io la vedo così sarà sempre di più così per me. Cosa è successo in questa signora che ha avuto questa magnifica bambina? E’ successo che ha rivissuto probabilmente la sua esperienza.
Se invece io madre seguo la seconda modalità (identificazione narcisistica), sarò una madre felicissima di avere una bambina che tutti guardano, che è al centro dell’attenzione, mi sentirò realizzata
Comunque, più o meno questi sono i canali che seguiamo nel rapporto che come genitori e più in generale come adulti abbiamo con i bambini. Perché? Per una ragione molto semplice: quello che noi abbiamo di fronte, il bambino che abbiamo di fronte è qualche cosa che ci riporta, ci “ricorda” il bambino che è dentro di noi. Chi è il bambino che è dentro di noi? Quello che eravarno noi. Perché nonostante il fatto che noi siamo grandi, noi siamo stati bambini, siamo stati adolescenti, siamo cresciuti e questa cosa ce la portiamo dietro, anche se ci hanno abituato a dire: “adesso sei grande, non puoi più comportarti da bambino”, quindi ad allontanare da noi questa parte bambina.Nonostante questo, noi abbiamo dentro di noi tutte le esperienze che abbiamo fatto, tutte le esperienze che ci portiamo dietro e quindi il bambino che è di fronte a noi evoca il bambino che è dentro di noi, per cui noi abbiamo a che fare con due bambini, quello che è fuori di noi – nostro figlio – e il bambino che è dentro di noi; per cui la questione diventa complicata, difficile. Fare il genitore è un mestiere difficile, fare l’insegnante è un mestiere difficile, per certi versi è assimilabile a quello del genitore, per altri versi non lo è.
Allora, tornando al discorso del ragazzino handicappato, è abbastanza facilmente immaginabile che le proiezioni, le identificazioni, gli investimenti che io genitore faccio su mio figlio handicappato hanno delle grosse interruzioni, fanno delle grosse giravolte, hanno degli intoppi estremamente pesanti, difficili; nel senso che è difficile riconoscere il bambino handicappato davanti a me come qualcosa di mio, come qualcosa che mi assomiglia. E difficile riuscire a tirare fuori attraverso quello che ho davanti, il bambino che ho dentro; invece, quello che mi risulterà più facile sarà il dire: “Neanche per sogno, questa è una cosa completamente diversa, io non ho nessuna delle caratteristiche che mi vedo davanti”.Questo, evidentemente, è facilmente comprensibile, tanto più facilmente comprensibile se solo pensiamo a come è difficile, doloroso e a volte impossibile per ciascuno di noi vedere in sè, ammettere in sè delle caratteristiche poco piacevoli. E’ difficile ammettere che non si è capaci, è difficile ammettere che io arrivo fino lì e basta, è difficile ammettere le caratteristiche che fanno dispiacere, che non ci piacciono. Allora, come faccio io genitore di un ragazzino handicappato, che è tutta un’altra cosa da quello che io mi ero immaginato a identificarmi con le caratteristiche di questo ragazzino che sono tutte caratteristiche “a perdere”. Magari non è vero che sono tutte “a perdere”, però diventa difficile trovare quelle che non lo sono. Se pensate a quanto è frustrante, se vi mettete nei panni di un genitore, accettare dal proprio figlio – sul quale magari si è investito tanto – di avere meno risultati di quanto si pensava, avere dei risultati diversi, è facilmente immaginabile cosa provi il genitore di un bambino handicappato.
Il genitore del bambino handicappato si trova ad avere un bambino diverso da quello che si era immaginato e si trova ad avere a che fare con un bambino, quello fuori da sè, che è e ritiene per tantissimi versi estremamente diverso da quello che è il bambino che ha dentro di sè.
-3. L’altro attore: l’educatrice.
Abbiamo detto che ci sono delle differenze e delle analogie tra educatori e genitori; quali sono le analogie e quali sono le differenze? Ci sono delle differenze nella misura in cui esaminiamo la figura dell’educatore dal punto di vista del suo ruolo (polo della formalità). Evidentemente se io esamino l’educatrice nel suo ruolo, le differenze saltano agli occhi immediatamente, c’è un maggiore distacco. C’è il fare determinate cose perchè rientrano nell’ambito della professionalità. Se esamino quindi l’educatore sotto l’ottica della formalità, del ruolo, ci sono delle differenze; ma ci sono anche tante analogie che derivano dal fatto che al di la del ruolo voi siete delle persone, con la vostra storia, esperienza, pregi, difetti, ecc. In quanto persone vale quello che si diceva prima per i genitori: anche voi siete stati bambini, adolescenti e vi portate dietro la vostra storia, le emozioni che vengono messe in ballo volenti o nolenti. Anche per voi ci sono le fantasie sul bambino che deve arrivare, su quello che riuscirete a fare, su come sarà questo bambino, su come vi accoglierà. Le identificazioni che voi metterete in atto, nei confronti di questo bambino, sono le stesse che mettono in atto i genitori: di tipo transferale, di tipo narcisistico. Il bambino come sostituto di qualcun’altro, il bambino come parte di voi stesse.
Queste convergenze da una parte e divergenze dall’altra creano un gioco che delinea quello che è il processo educativo che voi mettete in atto nei confronti del bambino. Le convergenze, le analogie sono comunque quelle che mi permettono di cucire, di allacciare una serie di ponti tra il bambino che è a scuola e il bambino che è a casa.
Cosa significa questo discorso? In generale, il bambino nel suo processo di crescita ha bisogno di linearità, il bambino sta definendosi, sta cercando di capire chi è e come è fatto. Se noi gli presentiamo un’immagine di sè diversa a casa e a scuola, se gli spezzettiamo questa immagine, evidentemente gli rendiamo la vita oltremodo difficile, proprio perchè il bambino ha bisogno di linearità. Una linearità che deve essere garantita dagli adulti che hanno a che fare con il bambino.
Il bambino non ce la fa a “tirarsi dietro” il se stesso che era a casa, il se stesso che era a scuola ecc. Il bambino ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a ricucire tutte queste varie parti. E’ estremamente importante la continuità tra la scuola o il nido da una parte e la famiglia dall’altra.
Cosa significa linearità e continuità? Evidentemente non significa che il bambino a casa faccia le stesse cose che fa a scuola. La linearità è data dalla capacità che l’istituzione da una parte, la famiglia dall’altra, hanno di restituirsi l’uno con l’altro l’immagine di questo bambino. Cioè il bambino ritrova la sua linearità se io madre riesco ad immaginarmi mio figlio a scuola e la stessa cosa se io educatrice riesco ad immaginarmi il bambino che ho davanti, a casa. Riuscire ad immaginarselo significa riuscire a stare in contatto con questo bambino, riuscire a vederlo, a prendere in considerazione i suoi diversi aspetti. Per esempio: se io insegnante ho un bambino che mi dà fastidio perchè fa esattamente tutto il contrario di ciò che gli dico di fare e non solo, ma mette in discussione tutto quello che faccio con gli altri, la mia autorità ecc. e non riesco a risolvere questo tipo di situazione, sarà difficile che riesca ad immaginarmelo a casa se non nei termini: “A casa sarà uguale come qui”, quindi qualche cosa da tenere lontano il più possibile. Altrettanto da parte del genitore, il quale per esempio sta male portando il figlio al nido e scappa. Anche questo è un modo per non pensarci: sarebbe troppo doloroso immaginarmelo lontano e questo è un taglio tra un’esperienza e l’altra. Non solo, ma il taglio può esserci quando vedo il bambino così simpatico, ma non sopporto la madre; viceversa, quando il genitore dice: “La scuola o il nido potrebbe andar bene, ma quella insegnante non la digerisco”: anche queste sono interferenze pesanti sulla linearità.La capacità restitutiva reciproca tra educatori e genitori ha un’enorme importanza, anche per il bambino con problemi; ancora di più, perchè il bambino con problemi fa ancora più fatica che non il ragazzino normale a “tirarsi dietro tutti i suoi pezzi”.

2. Metodologia del rapporto individuale educatrice – genitore

La linearità e la continuità come si può concretizzare? Con gli incontri fra educatori e genitori, negli incontri periodici, nei primi colloqui, negli incontri informali all’entrata e all’uscita. Credo sia su questi momenti che noi dobbiamo incentrare i nostri incontri prossimi. Cioè la linearità tra famiglia da una parte e istituzione dall’altra si concretizza in alcuni momenti che sono gli incontri periodici, informali (all’entrata e all’uscita), il primo colloquio. Sono queste situazioni che noi possiamo analizzare, discutere per vedere la relazione vostra con i genitori, alla luce di quello che ho detto fino ad ora. Tenendo cioè presente che ci sono tutta una serie di divergenze, problemi che verranno fuori e che per capirci possiamo cominciare a elencare: la competizione (io sono più bravo di te); la capacità riparativa che ciascuno di noi mette a fuoco, per trovare una motivazione al proprio lavoro; l’ambiguità dettata da tutta una serie di questioni contrassegnate da rabbia o dolore, amore ed odio ecc.; c’e la sfiducia:”Io genitore non mi fido di te, io genitore credo di essere l’unica persona in grado di .. ; io genitore penso che non ci sia qualcuno capace di ..”; c’e il bisogno di controllo (credo che abbiate sperimentato tutti il genitore che viene a controllare, che viene a spiare dai vetri); c’e l’aggressività; ci sono le proiezioni reciproche che entrano in gioco non solo nel rapporto adulto-bambino ma anche in quello adulto-adulto. Ci sono cose in te che mi ricordano cose mie che mi piacciono, oppure che mi ricordano cose mie che non mi piacciono, oppure che mi fanno arrabbiare, oppure ci sono modalità di rapporto che mi vanno bene, altre no. (Le proiezioni reciproche:”Io penso che quella là ce l’abbia con me”, questo è un tipico esempio di proiezione. Se sto a vedere un attimo magari mi accorgo che non è vero che quella ce l’ha con me, ma sono io che ce l’ho con lei).Ci sono i sensi di colpa: sono sentimenti onnipresenti nel processo educativo, sentimenti con i quali abbiamo a che fare quasi quotidianamente, che troviamo abbastanza presto nel ragazzino stesso che si dispiace perchè pensa di aver fatto star male la mamma, il papà o l’insegnante ecc. D’altra parte è anche sul senso di colpa che cresciamo, che impariamo quello che dobbiamo e non dobbiamo fare, quello che si può o non si può fare; è sul senso di colpa che facciamo leva quando diciamo di si o di no nei confronti dei bambini.
Tutti questi sentimenti sono “cose” che popolano i nostri rapporti con i genitori, oltre che con i ragazzini. E ci complicano, ci rendono faticosa la relazione, fanno si che spesso questo rapporto ci sfugga dalle mani, ci travolga e ci metta in situazioni in cui non sappiamo più che pesci pigliare, proprio per tutte le connotazioni emotive che ci troviamo in questo rapporto e delle quali spesso non ci rendiamo conto.
Allora dobbiamo prendere in considerazione quei momenti di incontro, occasionali, istituzionalizzati, ecc. in che modo? Come?
Il come da un punto di vista organizzativo è molto semplice: qualcuno di voi la prossima volta vedrà qua con pagine scritte di un incontro di qualsiasi genere, con la descrizione di questo incontro. Descritto come volete, l’importante e che lo scriviate non 15 giorni dopo che è avvenuto, ma che sia una cosa abbastanza fresca per motivi comprensibili. A cosa ci serve? Questo materiale lo leggeremo e lo discuteremo insieme. Come lo discuteremo? Cercando di capire, mettendoci nei panni dell’attore che ha vissuto la scena registrata cercando di riconoscere i sentimenti, le tonalità affettive, le colorazioni che sono intervenute in quell’incontro. Questo ci deve servire per acquistare una maggiore consapevolezza, una maggiore capacità di guardare la scena famosa, di cui parlavamo all’inizio, nella quale interagiscono gli attori di cui abbiamo parlato fino ad ora.
E’ quindi, quella che noi proponiamo, un’osservazione che va a cogliere qualche cosa tutto sommato di poco osservabile, qualche cosa che non accade, ma che sentiamo dentro di noi. Che tipo di osservazione è? E’ un tipo di osservazione che potremo definire interpretativa. E’ interpretativa degli accadimenti reali, oggettivi che avvengono in quella scena. E’ un’osservazione quindi che non implica nessun intervento attivo da parte vostra; l’attività e un’attività che paradossalmente possiamo definire un’attività passiva. Ora, noi siamo abituati a dare al termine passività una connotazione negativa; siamo abituati a considerare invece la modalità del fare come quella che conta. Dobbiamo invece sforzarci per non fare niente in questa situazione, imparare che ci sono determinate situazioni nelle quali quello che dobbiamo fare è stare ad ascoltare quello che proviamo dentro: l’attività è questa
E io credo che vi siate resi conto nella pratica quotidiana di come sia importante, nel vostro mestiere e in quello di tutti i vostri colleghi, l’umore con il quale andate a lavorare, come sia importante se siete soddisfatti o no, come sia importante la modalità con la quale gestite la frustrazione, come sia importante capire perchè uno è arrabbiato in quel momento, perchè quel bambino mi piace più dell’altro, capire cioè quello che mi passa di dentro.
Nel vostro mestiere gioca molto l’emotività soprattutto nella vostra situazione peculiare di insegnante di sostegno dove spesso e volentieri il fare è un fare estremamente limitato, è un fare ripetitivo, fatto di piccolissime cose, è un fare che quindi è riempito, proprio perchè è estremamente dilatato nel tempo, di tutta una serie di cose che vi passano per la testa, tutta una serie di associazioni di idee, di sentimenti che vi passano per la testa mentre magari siete li che per l’ennesima volta cercate inutilmente di far infilare la perlina a Paolino. In una situazione nella quale con il genitore si può mediare poco con il racconto di ciò che è stato fatto, perchè spesso e volentieri “il fatto” è sempre lo stesso fatto. Se ci limitiamo al prodotto spesso c’è poco da raccontare, ma è facile rendersi conto, perchè si capisce che è importante, che è vero, di come spesso lo stesso fatto si possa raccontarlo al genitore evidenziandone oggi, domani, dopodomani, le
differenze importanti, differenze determinate dalla situazione emotiva vostra e dalla situazione emotiva del bambino che è li con voi. E sarà facile rendersi conto che nella scena di cui parlavamo all’inizio i tre attori sono sempre presenti, il bambino, i suoi genitori, l’insegnante, anche quando fisicamente qualcuno è assente.
La continuità c’è sempre; il problema è se è una linearità che io voglio conservare o se è una linearita della quale io non voglio sentir parlare.
La linearità c’è sempre perchè nella misura in cui io insegnante sono li, penso o comunque mi rapporto a quello che il genitore si aspetta da me, a quello che io penso l’altro vorrebbe che io facessi. Il bambino che è lì porta la sua esperienza con i genitori, le sue identificazioni ecc. E’ una non presenza presente che deve essere considerata con la quale voi dovete fare i conti così come anche voi siete lì con le vostre esperienze e le vostre identificazioni, e questo determina in modo pesante il vostro modo di reagire.
L’incontro con il genitore è un incontro dal quale inevitabilmente scaturiscono delle cose nel bene e nel male.

3. Osservazione interpretativa e rapporto con la famiglia del bambino handicappato

Abbiamo realizzato questo lavoro sottolineando la complessità delle dinamiche relazionali all’interno di una sezione di nido o di scuola dell’infanzia. Se vi ricordate abbiamo parlato della sezione di nido e di scuola come di uno scenario nel quale interagiscono tre attori che sono il bambino, i genitori, le insegnanti.
E’ uno scenario che muta in continuazione e che produce in continuazione modificazioni reciproche in ognuno dei tre attori. Modificazioni che avvengono sulla base delle relazioni che si producono ad esempio nella mattina quando il genitore porta il bambino a scuola o al pomeriggio quando lo va a riprendere; modificazioni che avvengono anche sulla base del mondo rappresentazionale di ciascuno dei tre attori.
L’insegnante sa che il bambino che ha davanti ha dei genitori a casa, che si aspettano qualche cosa da lei; il genitore sa che il bambino a scuola è con le insegnanti, sta facendo delle cose. Il bambino porta dentro di sè l’esperienza che fa con i genitori soprattutto e che fa con gli insegnanti stessi. Sono interazioni che producono delle modificazioni a livello di sentimenti che questi tre attori provano, modificazioni che avvengono nei comportamenti, nel modo di sentire, nel modo soprattutto in cui ognuno di questi si pone nei confronti dell’altro. Abbiamo cercato di delineare queste modificazioni reciproche che abbiamo chiamato processi di identificazione e abbiamo cercato di rintracciarli nell’agire quotidiano vostro partendo dai momenti di lavoro con i genitori. Abbiamo cercato di rintracciare questi processi di identificazione reciproci nell’agire quotidiano partendo dai momenti di incontro vostro con i genitori. Abbiamo osservato il vostro lavoro cercando di andare oltre il guardare, il vedere, oltre la scena che ci si presenta davanti agli occhi, cercando di capire, comprendere quelli che sono i sentimenti che passano in quella determinata scena che ci troviamo davanti, in quel determinato momento che ci troviamo a vivere.
Abbiamo cercato di interpretare, di guardare, osservare interpretando, andando cioè al di là di quello che ci appare davanti agli occhi. Abbiamo quindi cercato di usare uno strumento che potremmo, a larghe linee, definire osservazione interpretativa, nel senso appunto che oltre a quello che avviene, a quello che si fa quando ci si incontra, c’è anche quello che l’altro interpreta delle nostre parole, del nostro comportamento e quello che noi mettiamo nelle nostre parole, nel nostro comportamento.
Questo altro, non dobbiamo dimenticarlo, l’altro con cui abbiamo a che fare è un altro un po’ particolare, è un genitore di un bambino handicappato, è un “altro” bambino handicappato. Ciò significa che spesso la coloritura dei sentimenti e dei messaggi che passano è una coloritura intensa, forte, molto pregna di emotività. Allora volevo stasera che si soffermassimo sullo strumento di lavoro che abbiamo usato insieme, cercare di capire un po’ meglio l’osservazione interpretativa. Cosa significa? Prima di tutto significa, come probabilmente qualcuno di voi avrà notato, usare se stessi per capire, non guardare solo ciò che al di fuori di sè sta accadendo, ma soprattutto guardare ciò che si ha dentro, ciò che si è dentro in quella circostanza
Se vi ricordate abbiamo parlato di come quello che noi viviamo in un determinato momento, in un determinato incontro, ci faccia ricordare cose che sono molto nostre. Dopo di che abbiamo anche sottolineato come la stessa cosa per me ha un significato, per un altro ne ha un altro, per un altro ne ha un altro ancora, come la stessa cosa oggi significa per me una cosa, domani un’altra cosa.
Questo perchè ciascuno di noi è qualcuno diverso dall’altro, con storia, esperienza, biografia diversa. Allora comprendere significa proprio questo, significa usare questa storia che ognuno di noi ha per capire che cosa eventualmente l’altro può averci voluto dire, quali messaggi ci ha mandato, messaggi molto personali, individuali, molto importanti. Ci troviamo a riflettere su di una situazione molto carica emotivamente. Usare se stessi per comprendere. Possiamo allora dire che quello che ci deriva da questo tipo di osservazione dipende evidentemente dall’incontro tra l’osservatore con l’oggetto dei suo osservare, che in questo caso è un genitore con le caratteristiche di cui parlavo prima. Un’osservazione quindi che mette in gioco molto dell’osservatore e (l’ultima volta si parlava di malessere; si e parlato di paura di offendere il genitore ecc.) permette di capire quello che succede, di comprendere l’altro. Si parla spesso, si usa tante volte l’espressione “mettersi nei panni dell’altro”. Mettersi nei panni dell’altro significa essere disponibile a provare quello che secondo noi l’altro prova in una determinata situazione; questo perchè quella determinata situazione ci fa venire in mente altre circostanze simili che hanno provocato in noi sentimenti, belli, aggressivi, di pietà, dolore, ecc.
Per questo siamo in grado di metterci nei panni dell’altro e di capire o comunque di fare delle ipotesi su quello che l’altro sta vivendo, su quello che l’altro sta provando. Questo determina la possibilità di capire l’altro, ma determina anche una massiccia proiezione, una massiccia messa nell’altro, nel momento dell’incontro, di nostri sentimenti.
La messa in gioco delle cose che sono dentro di noi, che possono essere viste, ma anche non viste dipende da chi osserva, dipende dal “lasciarsi andare a sentire” di chi osserva, dipende da quello che l’altro “l’osservato” mette in gioco e fa mettere in gioco a chi sta osservando. Questo per dire che la stessa scena può essere idilliaca, tragica, grottesca, piacevole, ecc. a seconda delle inclinazioni di chi sta osservando. Quindi l’osservazione è interpretativa perchè quello che si vede viene filtrato attraverso chi osserva, attraverso la sua storia, i suoi sentimenti, la sua coloritura; quindi l’osservazione non è qualcosa di dato, di fermo, di statico, ma qualcosa che viene “scelto”; io colgo quello che mi interessa di più, in assonanza con delle cose mie, con le cose che ho dentro.
Vi sarà capitato tantissime volte nel vivere quotidiano di parlare di una cosa con una vostra collega e di vedere che ognuno la vede in un certo modo, modi entrambi plausibili.
Se vi ricordate abbiamo parlato della maniacalità del fare come tentativo di eludere la situazione, ne abbiamo parlato in riferimento ai genitori e ne abbiamo parlato anche in riferimento all’operatore, a noi.
Nell’osservazione interpretativa bisogna necessariamente mettere per un attimo da parte il “fare” perchè il “fare” è proprio quello che ci permette di fuggire rispetto alle cose che dobbiamo invece toccare per capire, per interpretare. Allora l’osservazione interpretativa deve prevedere un momento di passività, un momento in cui ci si è non facendo, ma stando lì.
Cosa significa? Darci la possibilità di sentire, di entrare in risonanza con
quello che sta capitando li. C’e il momento passivo che è quello di essere li, essere presente, essere recettivi, ascoltare non solo quello che ci viene detto, ma anche quello che diciamo a noi stessi rispetto a quello che stiamo vivendo. C’è un momento passivo e c’e un momento attivo. Qual e il momento attivo di questa osservazione? E’ quello di metterci nei panni dell’altro, di riuscire a decentrarci, capire cosa può provare chi sta là in una determinata situazione, quale può essere la sua ottica di affronto della situazione, di affronto del problema. Quindi osservazione che prevede questi due momenti; non c’è prima l’uno e poi l’altro momento… Questa osservazione prevede il mettersi li.
Khan usa una bellissima espressione a proposito dei genitori degli adolescenti, ed è questa: “i genitori degli adolescenti dovrebbero mettersi ogni tanto a maggese” . Quando si coltivavano i campi naturalmente, a ciclo per un anno un campo non veniva coltivato; il campo così si preparava, stava li per ricevere, per essere poi in grado di ricevere, per prendere respiro. Anche noi dobbiamo metterci a maggese: ci siamo, siamo disponibili, ma non facciamo niente, non produciamo niente. Guarda caso questo mettermi li, non produrre niente spesso mi crea delle grosse difficoltà.Sarebbe molto meno difficile fare qualcosa. Quando siamo in difficoltà istintivamente ci viene da chiederci: “cosa devo fare?”. Facciamo fatica ad accettare di essere in difficoltà, di dovere “pensarci su un momento”, facciamo fatica a prendere atto che evidentemente qualcosa non ha funzionato.
Allora, momento passivo e momento attivo; momento attivo non significa ancora una volta fare, ma significa capire, mettersi nei panni dell’altro. Non è un invito alla passività, neanche un invito a mettersi a sedere; e una sottolineatura della necessità, quando si ha a che fare, quando si ha come oggetto del proprio lavoro “l’altro”, di riflettere su quanto nell’altro c’è di suo, su quanto noi mettiamo di nostro, su quanto genitori e bambini mettono insieme.
Se noi ci fermiamo a riflettere, emerge una “zuppa” nei confronti della quale spesso ci troviamo estremamente confusi, dentro alla quale spesso c’è indifferenziazione fra me, l’altro, il genitore ecc. A proposito della indifferenziazione, conviene sottolineare un altro aspetto che mi torna a far dire come sia necessario fermarsi un attimo a pensare non tanto a che cosa devo fare, quanto a cosa sta succedendo. L’indifferenziazione, la confusione è un pericolo che corriamo costantemente quando abbiamo come oggetto del nostro lavoro l’altro.
Che cosa è l’ indifferenziazione? E’ la tendenza ad identificarci totalmente dell’altro. “Mettersi nei panni di” non significa evidentemente diventare l’altro, sostituire l’altro, non significa fondersi con l’altro, ma significa mantenere quel minimo di individualità, di identità che ci permette di ritornare ad essere noi stessi, perchè se noi ci fermiamo nell’altro non capiamo più niente, entriamo in confusione. E’ facile entrare in confusione perchè quello che sta provando l’altro, sono cose che anche noi pensiamo, o cose che anche noi abbiamo provato. Allora perchè non possiamo permetterci di cadere in una situazione così detta di identificazione totale, anche se spessissimo ci viene chiesta. Nel primo caso di cui abbiamo parlato c’era costantemente un invito ad essere “come sono io” a “venire con me”; tanto è vero che era così esplicito, che nonostante i sensi di colpa, l’educatrice è riuscita a capire che c’era qualcosa che non andava e quindi a difendersi.
Perchè è facile cadere in una situazione di identificazione totale? Perché il dolore che vediamo nell’altro è tanto e il desiderio di dare una mano è grosso; perchè le paure che leggiamo nell’altro sono paure che sono anche nostre, perchè i problemi che l’altro affronta sono tutto sommato problemi per i quali noi avremmo voluto dare una mano e tutto sommato siccome consideriamo l’altro una persona che si trova in una situazione estremamente difficile, estremamente dolorosa, ci sentiamo anche in colpa perchè noi non siamo nella sua stessa situazione, perchè siamo tutto sommato più felici, più contenti. Allora il pericolo di cadere in una situazione di identificazione totale è molto grosso. L’identificazione totale ci toglie la possibilità di capire, di operare. Diciamo allora che dovremmo riuscire a metterci e a realizzare una situazione di identificazione operativa Cosa significa? Significa conservare i contorni della propria identità, continuare a sapere chi si è anche quando ci si mette nei panni dell’altro. Perché è facile cadere in una situazione di identificazione totale? Perché nella misura in cui ci si usa se stessi per capire, e si usa la nostra emotività, la nostra storia ecc., è molto facile che tutto questo (storia, emotività) ci prenda la mano e che ci trascini più in là di quanto dovremmo. Siamo in una situazione di osservazione interpretativa, siamo in una situazione di osservazione che ci permette non tanto di fare luce, ma un’osservazione che ci permette di “dare alla luce”.
Faccio una distinzione in questo senso. Io interpreto ciò che ho davanti, lo rifaccio, mettendoci dentro delle cose mie. Non è il dato di fatto sul quale io faccio luce, ma è quel qualche cosa che io riesco a capire nella misura in cui uso me stesso, in rapporto a quelle che sono li, a quelle che ho davanti. E un dare alla luce insieme, nel rapporto, quello che avviene, quello che mi fa “vedere”. Allora c’è un grosso coinvolgimento che comporta paura, angoscia, un naturale, immediato tirare i remi in barca, un chiudersi e dire “chi me lo fa fare; mi dispiace ma io faccio l’insegnante”; sono dall’altra parte della barricata, mi difendo quindi dietro ad un ruolo interpretato in maniera istituzionale. Quello che insegna, ma non si mette in contatto. A questo proposito, forse potremmo dire anche che c’e molta più possibilità di rifugiarsi dietro al proprio ruolo in un’insegnante di scuola dell’infanzia che non in un’insegnante di nido. Perché? per una ragione molto semplice. L’insegnante di scuola dell’infanzia ha un ruolo socialmente riconosciuto, ben definito. E molto meno definito il ruolo di insegnante di nido, e molto meno socialmente riconosciuto ed accettato, ha molte più aree che rientrano in un discorso di genitorialità. Cosa fa l’insegnante del nido? Accudisce un bambino piccolo, lo pulisce, gli dà da mangiare, gli insegna a camminare; sono tutte cose che anche i genitori fanno. E molto più facile quindi che un’insegnante di scuola dell’infanzia abbia la possibilità di definire il suo ruolo professionale.
Torniamo all’osservazione. L’osservazione interpretativa prevede un movimento di andata e ritomo, di immersione e di emersione, immersione dentro di sè per emergere ed immergersi nella situazione e ritornare ad emergere per capire. E’ un’ immersione che si attua lì in quel determinato momento e proprio perchè si compie lì ci fa comprendere nei termini che dicevo prima quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi. E un’osservazione che ha una strumentazione molto semplice, ha solo una matita che ci serve per scrivere dopo più o meno quello che ci sembra sia successo e che tiene presente non grandissime cose, non dei sistemi, ma semplicemente il qua e adesso, quello che succede in quella situazione in cui ci sono io, tizio e un altro… Essere presenti significa una cosa molto importante che è quella di non rendere oggetto l’altro che ho davanti. La condizione sine qua non che rende possibile mettere in pratica questa relazione è l’assunzione della soggettività e il giocarci, essere lì come soggetti prima di tutto, poi anche come insegnanti, poi anche come chi osserva.
Con questo non voglio assolutamente dire che uno debba lasciarsi completamente andare e soprattutto non voglio assolutamente dire che essere lì come persona ed essere li come insegnante non implichi un grosso mestiere. Mettersi in gioco come persone, capire quello che sta succedendo nella relazione, dare alla luce la relazione stessa implica un grosso mestiere, una grossa capacità di usarsi che non deriva dal buon senso, dalla disponibilità e basta, non deriva dall’essere buoni, ma deriva da tutte le parti nostre che noi abbiamo dentro di noi e che più o meno dovremmo essere in grado di conoscere. In questo senso dicevo che occorre un mestiere, una capacità, un addestramento che è quello che abbiamo incominciato a fare qua.
Non ci si inventa da un momento all’altro capaci di usare “il mettersi nei panni di…” per andare avanti, per progettare. Si possono altrimenti correre diversi rischi: quello principale è il non riuscire ad avere chiaro il confine tra ciò che è mio e ciò che è dell’altro e quindi confondersi con l’altro. In questa confusione è poi difficile rimettersi in una posizione attiva, nei termini che dicevo prima. Allora, un atteggiamento di comprensione che se non viene usato in modo giusto, facilmente può slittare in un atteggiamento che non è più di comprensione, ma di manipolazione dell’altro. Se abbiamo difficoltà a sapere quello che è dentro di noi, abbiamo poi molta difficoltà a riconoscere le parti nostre, le parti di quell’altro ecc. e giocarle per capire cosa sta succedendo. Atteggiamento comprensivo che quindi produce un atteggiamento di identificazione operativa.
Noi abbiamo provato a fare un lavoro centrato sulle osservazioni della relazione nostra con la famiglia. Qual era lo scopo? Era più o meno ampliare il vostro esame di realtà; l’esame della realtà che avete di fronte.
Vorrei sottolineare una cosa: noi interagiamo con delle famiglie particolari, che hanno dei grossi problemi, che non finiranno mai di stupirci per quello che portano nell’incontro con noi. Una famiglia che ha una grossa necessità di uno spazio per esprimere le proprie domande, interrogativi, stupore di fronte ad una situazione inaspettata di cui non capisce bene la causa: e come se ad un certo punto ad uno che sta camminando per strada gli arrivasse un colpo in testa. Allora queste famiglie hanno una grossa necessità di uno spazio per esprimere tutte le domande che da questa situazione di grosso stupore possono scaturire, uno spazio per rivisitare i propri pensieri, i propri desideri, uno spazio in cui confrontare.
Sono famiglie che ci chiedono tanto, richieste cui dobbiamo avere la capacità di rispondere e dalle quali dobbiamo avere la capacità anche di difenderci in una maniera consapevole. Consapevole significa per esempio: 1) non fuggire. Ci possono essere tanti modi per fuggire, si può essere li senza esserci, senza ascoltare. 2) Non cadere in una situazione di confusione: “cerchiamo insieme di chi è la colpa, cerchiamo insieme con chi prendercela? che ci dica cosa dobbiamo fare, cerchiamo insieme qualcosa”. 3) Non avere reazioni onnipotenza: “adesso arrivo io, gli altri non hanno saputo fare niente”. Questa reazione è molto pericolosa perchè non soltanto non provoca l’alleanza con i genitori, ma porta in un breve giro di tempo ad avere delle grosse delusioni.
Per concludere, il tipo di strumento di cui abbiamo parlato in questi incontro che cosa porta? Ad una maggiore capacità di esaminare la realtà ed a maggiore capacità di fungere da “contenitore” della famiglia con bambino handicappato.
Infatti la situazione di questa famiglia è estremamente dispersa, estremamente confusa, drammatica, in cerca di qualcuno che la raccolga. Il problema è di raccogliere senza farsi raccogliere.