Il rapporto adulto – bambino. Necessità di definire una “alleanza per”

 

di  Deliana Bertani

 

 

Come prima cosa vorrei mettere a fuoco il nucleo centrale del discorso che dobbiamo affrontare: cos’è l’oggetto del vostro lavoro.

Possiamo iniziare col dire che non è “qualcosa”, una cosa che si prende, si sposta, che rimane lì ferma, ma è qualcuno, qualcuno molto simile a noi.

Questo fa sì che i problemi, le difficoltà, le sensazioni, l’atmosfera nella quale si lavora siano oltremodo complicati, articolati, sfumati e mutevoli.

Ci sono, infatti, due persone in relazione fra di loro che stanno facendo “qualche cosa”. Questo è un dato al quale non si può sfuggire: c’è una relazione, uno scambio dinamico di comunicazioni verbali e non, c’è un rapporto sul quale ci fermeremo per discutere e cercare di individuare la peculiarità, le connotazioni, i problemi che emergono man mano.

Questo rapporto si determina, si svolge e si costruisce.

Abbiamo dato un titolo e un sottotitolo all’incontro di oggi: “Il rapporto adulto – bambino –  ragazzo: la necessità di definire un’alleanza”.

In questo titolo, a mio parere, è contenuta una cosa fondamentale per il vostro lavoro: voi siete in una situazione, in rapporto con qualcun altro (un bambino, un ragazzo) per fare “qualcosa” insieme: siete lì per un motivo. Perché questa cosa si possa realizzare è necessario definire un’alleanza.

Come si fa a definire questa alleanza? Come  si riesce a creare un feeling tale che ci permetta di condurre, insieme a questa altra persona che abbiamo davanti, un cammino, un itinerario che ci porti alla definizione, al raggiungimento dello scopo per il quale siamo lì?

Abbiamo parlato di rapporto adulto/bambino, vediamo un po’ di definire un po’ meglio i poli di questo rapporto.  Da una parte l’adulto, cioè voi, dall’altra il bambino.

E, ancora, chiediamoci: in quali luoghi, in quali aree, su che temi si svolge?

Mi pare che siano due i luoghi, le aree che possono racchiudere tutta la casistica che voi avete conosciuto, con le quali state lavorando: l’area della normalità disturbata e/o sofferente, i ragazzini bisognosi, i ragazzini che, per qualche motivo, vanno male a scuola, i ragazzini disadattati, i ragazzini che passano per essere insufficienti mentali, i ragazzini che hanno avuto degli impedimenti o che, comunque, hanno incontrato degli ostacoli nel loro cammino per diventare grandi. Quindi, l’area della normalità disturbata e/o sofferente e l’area dell’handicap. Queste sono, credo, le due aree nelle quali il vostro ruolo, il vostro lavoro si sta svolgendo.

Dove si svolge? In quali luoghi fisici?

Nella famiglia del ragazzino col quale avete a che fare, in ambulatorio (cioè uno spazio della struttura pubblica) e in spazi del tempo libero, in piscina, in palestra, in giro, in qualsiasi luogo di attività e di incontro giovanile.

Mi preme, quindi, definire e connotare in maniera precisa questi luoghi, sia come area di interesse, sia come luoghi fisici. Questo perché credo che, in questo modo, cominciamo a dire una cosa fondamentale: il rapporto che voi state costruendo o avete costruito è qualche cosa che non è occasionale, che non è affidato al caso, che non è indifferenziato. E’, invece, qualche cosa che avviene in un luogo definito, preciso, una cosa alla quale voi dedicate un pezzo della vostra vita, uno spazio del vostro tempo altrettanto definito ed altrettanto delimitato.

Dicendo questo entriamo in un problema estremamente importante e delicato che riprenderete sicuramente domani sera e che, comunque, cominciamo a mettere sul tavolo: uno spazio di vita vostro, un momento preciso e definito. Quando cominciate date una disponibilità di un’ora, due ore, tre ore, un pomeriggio a seconda delle vostre possibilità. Questo perché avete tutta una serie di altri impegni.

Cosa può succedervi? Vi potrebbe capitare, per esempio, che questo spazio, a un certo punto del vostro intervento, questo tempo, ha perso la dimensione iniziale ed è diventato più vasto, più grosso, invece di un’ora è un’ora e mezzo, invece di due ore sono due e mezzo, ecc. ecc.

Vi potete accorgere che magari il tempo fisico, il tempo materiale è rimasto lo stesso ma, spesso e volentieri, la vostra testa è con il ragazzino che avete riportato a casa sua; sempre più spesso lo portate anche a casa vostra. E ve lo portate dietro in momenti diversi da quelli che avevate stabilito di dedicare a questo lavoro.

E’ un bene, è un male? Poniamoci la domanda.

Ritorniamo al discorso di partenza: quando si ha a che fare con un altro essere umano è difficile staccare e salutare e non pensarci più, anche perché abbiamo a che fare con qualcuno che parla, che discute, che prova dei sentimenti, che interagisce con noi, che ci fa arrabbiare, che ci da soddisfazione, ecc. e, quindi, è difficile, è praticamente impossibile, riuscire a “chiudere il rubinetto”. E’ un bene nel senso che, in questo modo, il rapporto che si mette in piedi è qualcosa d’interessante, di importante, è qualche cosa che avete in testa. Da questo punto di vista è un “bene”.

Dobbiamo comunque stare attenti perché, nella misura in cui questo spazio che dedicate all’altro diventa troppo esteso, diventa anche troppo invasivo degli altri spazi vostri. A questo punto dovrebbe suonarvi un campanello d’allarme che vi dovrebbe portare

1) a dire: cosa mi sta succedendo?

2) a pensare e, perciò, a tirare i remi in barca.

Non è un bene che lo spazio che voi avete dedicato, avete programmato di dedicare al lavoro che state facendo, diventi troppo invasivo degli altri spazi e delle altre attività, degli altri momenti vostri. Perché questo implica una serie di altre questioni.

Per esempio, la prima che mi viene in mente è questa: se lo spazio, non soltanto fisico ma anche mentale, che questa attività vi porta via diventa troppo ampio, può essere che vi sia capitata una cosa del tipo: ho a che fare con persone che stanno male o, comunque, che hanno dei problemi. Come sarebbe bello riuscire a risolvere questi problemi! Come sarebbe bello che, alla fine del mio lavoro, questo ragazzino non avesse più il problema per il quale sono intervenuto!

Orbene, questa cosa sarebbe molto bella, ma avviene molto raramente che il problema sparisca, soprattutto se ci mettiamo a riflettere sull’area dell’handicap, soprattutto se ci mettiamo a riflettere in generale sull’area del disturbo pesante, sull’area della grossa sofferenza, sull’area del disadattamento e sull’area della deprivazione.

Siccome è molto difficile che il problema sparisca o venga risolto, qual’è l’immediata conseguenza? E’ che dall’entusiasmo e dalla situazione nella quale lo spazio che voi avevate previsto si era dilatato, ora rischia di restringersi, di diventare molto, troppo, stretto, di essere annullato in conseguenza alla frustrazione che inevitabilmente si prova se si parte o se ci si lascia travolgere  dall’idea: adesso arrivo io e risolvo il problema.

Non è una cosa semplice ne una cosa facile riuscire ad evitare di passare attraverso questo tipo di fase, questo tipo di esperienza, perché è qualcosa che non capita soltanto ai volontari o agli obiettori. Capita a chi fa un mestiere che ha come oggetto del proprio lavoro l’altro. Perché succede? Semplicisticamente perché a tutti piacerebbe essere bravi, buoni, necessari, risolutivi e, perché no, magici.

Il fatto di essere magici, essere bravi, essere buoni, essere soprattutto risolutivi, è un’idea che penso abbiamo accarezzato tutti, che accarezziamo spesso. E’ un’idea che ci induce in tentazione, che ci piace molto ma è, comunque, un’idea pericolosa e perciò mi sento di dirvi: state attenti, andateci piano e vedete bene il tipo di investimento che mettete nel lavoro che state facendo, perché il tipo di investimento che mettete è determinante.

Il rischio qual’è? Di mettercene troppo o troppo poco. Mettercene troppo poco nel senso di stare molto sulle difensive.

Se uno lo fa di mestiere, ha più modalità per poter stare sulle difensive. Per chi lo fa volontariamente, per chi lo fa come un atto di solidarietà, stare molto sulle difensive è in contraddizione con il fatto stesso di fare del volontariato. Ma può capitare. Il pericolo più grosso è quello di calarsi troppo nella situazione che si ha davanti, identificarsi troppo con il bambino e con la situazione, farsi troppo carico delle problematiche, delle difficoltà e dei guai con i quali si ha a che fare: i guai con i quali avete a che fare sono guai grossi, pesanti e dolorosi. Allora, il problema qual’è? E’ di sapere che il vostro spazio di intervento va a coprire non tutti i bisogni, non tutte le problematiche, ma va a coprirne solo una minima parte, va ad intervenire su una parte del bisogno, su una parte del problema.

Riprendiamo il discorso del rapporto adulto/bambino: necessità di definire un’alleanza.

C’è un rapporto da costruire, abbiamo individuato dove lo costruiamo e il tempo che vogliamo dedicare a questo tipo di lavoro. Cosa dobbiamo e cosa possiamo fare, ancora?

Abbiamo detto che è importante, è necessario, è significativo sapere che non interveniamo su tutto il bisogno ma solo su una piccola parte. Sarà proprio del vostro ruolo di adulti individuare questa piccola parte, individuare l’ambito del vostro intervento, cioè, sapere dall’inizio qual’è la piccola parte del bisogno che voi andrete ad affrontare.

Individuare l’ambito del proprio intervento, del proprio operare, significa costruirsi una difesa, se non altro, interna, propria. Ma anche esterna, nel senso che, appunto, i bisogni sono tanti, voi però sapete che è su quello che dovete intervenire e, se per caso vi viene in mente di fare altro, sapete che andate fuori dall’ambito del vostro intervento. Sapete che state facendo un’altra cosa. Non solo è una difesa interna, ma è anche una difesa esterna nel senso che vi può capitare (vi sarà già capitato) che vi vengano fatte delle richieste extra, che esulano dall’ambito del vostro intervento. Sapere, quindi, perché siete lì, sapere che cosa state facendo, quale problema state affrontando, direi che è essenziale. E questo va sempre nella direzione di continuare a definire che il vostro rapporto, il vostro incontro di adulto con quel bambino non è occasionale ma collocato in una situazione precisa, finalizzato ad uno scopo.

Quindi, un’altra questione importante, un altro nodo nella costruzione del vostro rapporto per lo svolgimento del vostro ruolo, è questo: sapere che scopo avete.

Allora, per ricapitolare e non perdere quello che abbiamo detto fino ad ora: il rapporto è un incontro che avviene in un luogo preposto a questo ed è finalizzato ad uno scopo.

Un’altra cosa importante e determinante che si aggiunge a queste ed è, comunque, una loro conseguenza: quando si ha a che fare con un bambino, un bambino in difficoltà, un bambino bisognoso, si può pensare che il nostro rapporto con quel bambino sia esclusivo, assoluto. E questo dipende dal fatto che è facile scivolare nell’idea: questo bambino ha bisogno, ha dei problemi, evidentemente se questo bambino ha dei problemi le persone che hanno avuto a che fare con lui (gli insegnanti, i genitori, gli amici, tutti gli operatori, tutti quelli che hanno circolato intorno al bambino) non sono state capaci di risolvere il problema. Il loro rapporto con questo bambino è stato fondamentalmente un rapporto fallimentare. Quindi, il mio rapporto è quello che va bene, quello che conta; il mio rapporto è, non dico assoluto, non dico esclusivo ma, comunque, quasi.

Allora l’altro fatto fondamentale è: collocare il nostro rapporto con quel bambino all’interno di una costellazione molto vasta di tantissimi altri rapporti che lo stesso bambino ha. E’ importante non dimenticare che il vostro rapporto si colloca insieme a: il rapporto che ha con la vicina di casa, il rapporto che ha con gli amici, il rapporto che ha con l’insegnante di dottrina, il rapporto che ha con l’istruttore della palestra, il rapporto con la fisioterapista o con l’ortofonista se è un bambino handicappato, il rapporto con i genitori, con i parenti, con i fratelli, con gli insegnanti, ecc. ecc.

Il vostro è uno dei tanti rapporti.

Voi non siete le uniche persone che hanno a che fare con questo bambino.

Se questa cosa può, in un certo senso, rischiare di svilire la visione, l’ottica, la modalità con la quale guardate e vedete il vostro rapporto, certamente, se ci pensate un attimo, è anche estremamente tranquillizzante nel senso che, se si ha la sensazione o l’impressione di essere soli la cosa diventa immensa, pesantissima e, quindi, tragica. Se, invece, si parte con la consapevolezza che insieme al mio ci sono tanti altri rapporti che questo bambino ha, la cosa diventa più tranquillizzante.

Abbiamo detto: individuare la peculiarità del vostro rapporto con il bambino e questa peculiarità si può dedurre da quello che si diceva prima, cioè, dallo scopo che vi siete dati, che avete trovato, che vi hanno suggerito; dallo scopo, dall’obiettivo del vostro lavoro e, precedentemente, dall’individuazione dell’ambito del vostro intervento.

Quindi, la peculiarità del vostro rapporto deriva, evidentemente, dai discorsi che abbiamo fatto prima, cioè dall’individuazione dell’ambito del vostro operare e dall’individuazione dell’obiettivo che vi siete dati.

Allora, abbiamo più o meno definito che questo rapporto, come dice il titolo del nostro incontro di stasera, è un rapporto che prevede un incontro non occasionale, finalizzato ad uno scopo, che avviene in un luogo preposto e che è professionale. Vediamo questo ultimo termine.

E’ vero che voi fate un altro mestiere però, nella misura in cui avete chiaro lo scopo, l’obiettivo che dovete raggiungere, questo fa sì che il vostro rapporto abbia una connotazione di professionalità.

Cos’è che dà al vostro rapporto una connotazione di professionalità? Un fatto preciso: il ruolo dell’operatore si sviluppa su due linee: l’operatività e l’affettività.

I rapporti che il bambino trova all’interno della propria famiglia, per esempio, sono rapporti che si sviluppano essenzialmente su una linea che è quella dell’affettività; i rapporti familiari si sviluppano, nascono, si svolgono all’insegna dell’affettività.

L’affettività non è qualcosa che non c’entri nel vostro rapporto perché, come dicevo all’inizio, abbiamo a che fare con un’altra persona, quindi non si può fare a meno dell’affettività. Salta fuori anche se non vogliamo.

Però, cosa c’è di fondamentalmente diverso nel nostro rapporto rispetto a quello che il bambino ha all’interno della famiglia?

Ci sono alcune cose estremamente significative che sono:

1) la nostra possibilità di vedere le cose con una maggiore distanza, nel senso che siamo meno implicati rispetto alle persone della famiglia;

2) il nostro rapporto è caratterizzato, è delineato nella maniera in cui dicevamo prima, cioè è finalizzato ad uno scopo preciso ed è un rapporto che ha individuato un ambito altrettanto preciso.

I rapporti che avvengono all’interno della famiglia sono rapporti vasti, globali, che investono sostanzialmente tutte le aree, tutte le problematiche, che non è possibile delimitare.

Il nostro è qualche cosa che è delimitabile, che deve essere delimitato e che, quindi, assume proprio perché è delimitabile, deve essere delimitato e deve avere uno scopo, una finalità precisa, assume la caratteristica della professionalità. Cioè, insieme all’affettività, il rapporto che voi state costruendo si sviluppa anche sulla linea dell’operatività.

Detto questo, riprendiamo il discorso che si faceva prima rispetto alla delimitazione del tempo.

Dicevamo che, quando ci si accorge che il tempo che dedichiamo si è ampliato troppo, anche se solo nella nostra testa, quando ci accorgiamo che ci portiamo troppo dietro, per troppo tempo, i sentimenti, le emozioni, che abbiamo provato nel rapporto con il bambino (la rabbia, l’amore, la soddisfazione o la frustrazione, ecc.), quando ci accorgiamo che queste cose ci coinvolgono troppo, quando perdiamo la capacità di capire fino a dove c’è il bambino con il suo mondo, la sua affettività, i suoi sentimenti, ecc. e fino a dove ci siamo noi, cioè quando c’è una sovrapposizione fra noi e il bambino, proprio perché è un bambino bisognoso, proprio perché è un bambino che ci chiede tanto, allora siamo in una situazione di pericolo presente e reale. E’ come se ci sovrapponessimo, ci identificassimo con questo bambino e ci mettessimo completamente nei suoi panni, perdendo i nostri.

Ecco, in questo momento, evidentemente, abbiamo perso la nostra funzione di adulto, abbiamo perso la nostra funzione di aiuto, abbiamo perso la nostra funzione di ausilio.

Potremmo usare una frase per capirci meglio. Potremmo dire questo, visto che parliamo di bambini: c’è una grossa differenza fra prendere per mano e lasciarsi prendere per mano.

Prendere per mano cosa significa? Significa che io prendo il mio bambino, me lo tiro dietro e, in questo modo, fondamentalmente mi sovrappongo a lui.

Lasciarsi prendere per mano significa, invece, che continuiamo ad esserci in due, c’è lui e ci sono io.

Il bambino sa, perché gliel’ho fatto capire, gli ho dimostrato, che sono disponibile e, quindi, sa che quando ne ha bisogno può “chiamarmi”.

Questa capacità di essere disponibili io operatore la conservo nella misura in cui non perdo la mia identità, non perdo la mia presenza, non mi perdo nell’altro, non mi lascio coinvolgere dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi.

Allora, siamo arrivati a dire che deve essere un incontro professionale, e questo sarà, se riusciamo a tener presente che il nostro rapporto con questo bambino è dato da un incontro, non occasionale, professionale, finalizzato ad uno scopo, che avviene in un luogo preciso. Se noi riusciamo ad avere presenti questi punti di riferimento, a dare una risposta a questi aggettivi che abbiamo usato per la definizione di questo rapporto, allora siamo, credo, nella situazione nella quale abbiamo definito un’alleanza. Siamo riusciti a creare e a mantenere viva un’alleanza; siamo riusciti a mantenere questa alleanza fattiva e produttiva di risultati, risultati che riguarderanno un determinato ambito, un determinato problema, una piccola parte del bisogno, come abbiamo detto prima.

Allora, un rapporto non occasionale, professionale, finalizzato ad uno scopo, in un luogo preposto. Questo significa aver presente dentro di sè l’area che si è disponibili ad usare, il pezzetto di sè, della propria vita, del proprio tempo, della propria testa, del proprio “cuore” che si è disponibili a mettere in gioco e ad usare. Un’area governata “dal vostro buon cuore, dal vostro buon senso e dalla vostra intelligenza”.

Il vostro buon cuore e il vostro buon senso, senza che ci sia la delimitazione dell’area di vita che siete disposti a mettere in gioco, rischiano di mettervi nei guai, come dicevo prima, rischiano di farvi sommergere dalle problematiche che voi vi siete, così generosamente, prestati ad affrontare o, comunque, a dare un contributo perché vengano affrontate.

(1987)

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