Che fine ha fatto il Monachicchio?

da: “Locorotondo. Rivista di  economia, agricoltura, cultura e documentazione”, Locorotondo, 2014, N. 41, pp. 57\62

di Leonardo Angelini

 

Ricordo vividamente che nel mio gruppo preadolescenziale colui che parlava con maggiore convinzione del “monachicchio” era U’ Tom (Tommaso Loparco). Ce ne parlava – come del resto aveva fatto tempo prima il mio nonno paterno nei suoi racconti invernali intorno al braciere – come di una presenza vera, ma inafferrabile che girava di notte per le stradelle del centro storico, entrava nelle case “a fare” dispetti innocenti e a tentare la gente con quel suo berretto rosso la cui cattura sarebbe stata, per il fortunato che l’avesse fatta, fonte di sicuro arricchimento. Perché il monachicchio a quel cappello teneva moltissimo. Era il suo simbolo di status e, per riaverlo, avrebbe condotto chi glielo avesse preso alla scoperta di enormi tesori sotterranei.

Poi crescendo U’ Tom prese a non parlarcene più, per cui lo avevo totalmente dimenticato quando, anni dopo, leggendo Cristo si è fermato ad Eboli (che, ragazzi!, a quei tempi non si leggeva ancora nelle scuole; e che dovevi scoprire da solo o seguendo i percorsi di lettura degli amici più grandi) leggendo Cristo si è fermato ad Eboli – dicevo – all’improvviso ritrovai il monachicchio. La penna di Carlo Levi me lo ripresentò in maniera così vivida da farmi riprovare, nonostante l’età, le stesse sensazioni che avevo provato ascoltando, da ragazzo, i racconti du Tom.

Ed io con le parole di Levi lo voglio presentare a voi più giovani, apparentemente lontani dal numinoso mondo in cui vive il monachicchio. Eccovelo:

«I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro: e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercare di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lagrime, scongiurandoti di restituirglielo. Ora, i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sotterra, sanno il luogo nascosto dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentarlo fino a che non ti abbia accompagnato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà, ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e folli salti di gioia, e non manterrà la sua promessa. Questa specie di gnomi o di folletti si vedono frequentemente, ma acchiapparli è difficilissimo.

La Giulia[1] ne aveva visti, e la sua amica la Parroccola anche, e molti contadini di Gagliano: ma nessuno di loro aveva potuto afferrare il cappuccio, e obbligare il monachicchio ad accompagnarli al tesoro»

 

La domanda ora è: dov’è fuggito oggi il monachicchio? Dove si è nascosto col suo debordante cappuccio? A chi farà i suoi innocenti dispetti?

Apparentemente – dicevamo prima – non c’è più traccia di una sua presenza e questo fantasma bonario che, come un soffio leggero attraversava le nostre notti e faceva battere i nostri cuori, sembra essersi definitivamente eclissato.

Poi l’amico Enzo Cervellera[2] mi ha detto che, quasi all’improvviso, in molti son tornati a chiedere di lui. Ne predo atto. Ne prendiamo atto! Il monachicchio è tornato!

Ma ecco che, nel momento in cui torniamo a parlare di lui, a pensare a lui subito un leggero brivido scorre nella nostra schiena.

Lo stesso brivido che, giovani e meno giovani, sentiamo quando ci avviciniamo  a quel mondo popolato di fantasmi più o meno bonari, più o meno tremendi, che ritroviamo nelle “storie di paura” che costellano sia i mille e mille racconti orali della cultura “bassa” e popolare, sia – almeno a partire da Edgar Allan Poe – i quartieri alti della cultura: quelli della letteratura e da ultimo del cinema, che, esattamente come avviene per la cultura popolare, hanno definito nel tempo un insieme stilemi e di regole narrative che permettono al fruitore di riconoscere già in prima battuta che ci si trova di fronte ad una “storia di paura”.

Sigmund Freud, che su queste crepe della coscienza aveva istituito il suo marchingegno interpretativo, aveva definito queste presenze fantasmatiche come il regno del “perturbante”; cioè come quell’insieme di temi, di figure, e di trame che si riferiscono a verità e a presenze a noi molto vicine che un po’ ci affascinano, un po’ ci fanno paura; e che, anzi, rimandano a qualcosa di nucleare che è in noi, che è “dentro” di noi e che nel racconto viene evocata come una presenza serotina che può essere misconosciuta solo nella solarità dei nostri mattini, ma che torna immancabilmente ad incombere non appena la cortina della notte torna ad annerire il cielo della nostra Murgia.

Gli antropologi, da una parte, e gli storici dei nostri usi e dei nostri costumi dall’altra, ci dicono che le “storie di paura” e i personaggi archetipici che popolano con nomi diversi queste storie esistono dappertutto e sono esistiti da sempre. Ecco perché il monachicchio, il Capitano Spacca e gli altri personaggi della nostra infanzia, ben lungi dall’essere scomparsi, esistono, anzi: sono esistiti da sempre!

Anche se c’è una differenza sostanziale, a mio avviso, fra il monachicchio e le storie di paura. Queste ultime – come ci ricorda von Lüthi – esistono solo in quanto “storie” e prendono forma all’interno di forme stilizzate, e perciò riconoscibili, che riportano ad un genere specifico di racconto: quello delle storie di paura, appunto.

Il monachicchio invece sfugge ad ogni stilizzazione, non si inserisce in alcun genere di racconto e si dispone di fronte a noi come una presenza impalpabile, ma immanente, come un fantasma che attiene alla nostra quotidianità e che si apparenta alla storie di paura solo per la sua natura serotina e per il suo effetto perturbante.

Nel mio ricordo, ad esempio, la sua presenza è legata ad una casa – quella du Tom – che era in fondo a via Aprile, nel centro storico, di fronte alla fontana e poco prima del Largo Bellavista: in quella casa c’era una stanza in cui una volta il monachicchio era apparso e gli abitanti di quella casa avevano la sensazione che fosse ancora lì.

Come vedete, in questo reportage non c’è alcun livello di stilizzazione: il monachicchio semplicemente c’è; o meglio c’è stato e tutti sentono che possa ancora esserci. Esattamente come accadeva alla Giulia, alla Parroccola e agli altri contadini di Gagliano. C’è! fa paura ed è inafferrabile!

E allora che cos’è il monachicchio? Perché, pur in presenza di qualcosa di impalpabile noi, pensando a lui, sentiamo come lo spessore di una presenza? Difficile ridurre ad un unico aspetto qualcosa che, proprio perché sfuggente, ci appare come polisemico: certo è che la sua natura notturna, come i suoi tesori sotterranei fanno pensare a qualcosa che va al di là della coscienza, o meglio a qualcosa che è al di sotto di essa; il fatto poi che il monachicchio ci attragga e, nello stesso tempo, ci terrifichi a qualcosa che una volta è stata nostra e che ora non c’è più; la sua natura dispettosa e provocatoria al tempo in cui anche noi bambini lo eravamo. Poi è intervenuta l’educazione che, con il suo peeling quotidiano ad opera degli adulti, ha levigato il nostro carattere, ci ha tolto la dispettosità e la petulanza e ci ha permesso di diventare grandi. Ma in qualche angolo nascosto della nostra psiche ancora quelle parti dispettose ci sono, imprigionate e mute.

Mute e per noi irriconoscibili … pronte però a risvegliarsi e a turbarci, con la loro presenza ormai aliena, non appena il monachicchio torna ad evocarle!

[1] Personaggio, come la Parroccola, di “Cristo si è fermato ad Eboli”.

[2] La confidenza dell’amico Enzo Cervellera è del 2008. E fu in quella occasione che Enzo mi chiese di scrivere quest’articolo per la rivista “Largo Bellavista”.