A ruota libera sulla questione del pagamento delle sedute di psicoterapia non effettuate

Dr. Leonardo Angelini

[Posted on 29, Gen, 2011 http://www.osservatoriopsicologia.com/2011/01/29/pagamento-sedute-di-psicoterapia-dino-angelini/

– Ripubblicato qui: oggi 24.5.20]

La prima cosa da fare per rispondere alla domanda posta dalla redazione è cercare di comprendere in quale contesto negoziale si pongono lo psicoterapeuta ed il proprio paziente. Dallo stesso video di Forum non risultano chiare le condizioni di lavoro in cui operava la collega. Infatti a un certo punto il “giudice” afferma: “ .. risulta che Salvatore, in terapia presso lo studio in cui lavora Silvia (e cioè la psicoterapeuta) …” – dove non è chiaro quale tipo di legame ci sia fra Silvia e lo “studio” presso il quale essa lavora.

A mio avviso infatti ci possono essere almeno tre grandi alvei contrattuali all’interno dei quali una psicoterapia può disporsi; ed in ognuno di essi la questione delle sedute non effettuate assume un rilievo diverso, in base a caratteristiche che attengono solo parzialmente al rapporto diretto fra psicoterapeuta e paziente.

– Innanzitutto il legame fra terapeuta e paziente può collocarsi – diciamo così – in un’ottica un po’ vetero (pre-capitalistica, direbbe un economista) in cui ciò che vale è il riconoscimento da parte del paziente della fama dello specialista, e soprattutto dell’obbligo di riconoscenza che egli ha nei suoi confronti: in questo contesto la remunerazione delle prestazioni fornite dallo specialista si chiama “onorario”.

Leggo sul nuovo dizionario etimologico Zanichelli1 (p. 1076) una citazione di T. Garzoni, riferita agli avvocati, che risale al 1585: “il loro salario ancora è chiamato con questo vocabulo d’onorario, perché da’ clienti lo ricavano per onore della tutela che prendono di essi”.

Cioè a monte dell’onorario c’è una logica in base alla quale il contratto che lega lo specialista al proprio paziente non è legato ad una tariffa prestabilita ed esterna al loro personale rapporto, ma s’iscrive all’interno di un obbligo in base al quale il paziente si sente debitore nei confronti dello specialista: ciò lo conduce, per “sdebitarsi”, ad elargire un dono o ad una serie di doni che variano in base alle proprie disponibilità economiche, ai beni materiali e immateriali ch’egli immagina possano risultare graditi dallo specialista, ed in ultima istanza al suo ingresso nell’area di coloro che a quello specialista rimangono legati in base ad un debito di riconoscenza che può perpetuarsi finché il paziente campa.

Insomma non è un caso che nella definizione del ‘500 questi pazienti vengano chiamati “clienti”, laddove questo termine allude non, com’è oggi, ad un rapporto di tipo commerciale, ma ad un’appartenenza di tipo clientelare.

Sbaglierebbe chi pensasse che questo primo tipo di contratto sia oggi obsoleto, e ancora più chi lo considerasse non confacente al rapporto psicoterapeuta – paziente: penso anzi che proprio questa, in fondo, sia la forma contrattuale che i guru della psicoterapia tendono ad imprimere al loro rapporto con i propri pazienti! mi riferisco a quegli psicoterapeuti che, più che a lavorare per portare a termine la psicoterapia e per promuovere un emancipatorio “atto di passaggio”2, tendono a costruire intorno a sé una comunità di devoti.

E’ chiaro, concludendo su questo primo tipo di rapporto, che nell’ambito dell’onorario una seduta, effettuata o saltata che sia, non  ha valore in sé.

Oggi però questo non è l’ambito contrattuale all’interno del quale opera la maggior parte di noi. Oggi lo psicoterapeuta o è un libero professionista oppure un pubblico dipendente. Anche se, come vedremo, all’interno di entrambi questi alvei, varie sono le sottospecie di contratto che è possibile mettere in piedi, e vari sono di conseguenza i ragionamenti che è possibile fare sulle sedute non effettuate.

– Il libero professionista viene pagato in base ad una tariffa (da una voce araba che significa “notificazione”, “pubblicazione”) che varia a seconda dell’anzianità dello specialista, della sua notorietà, della natura specifica del suo lavoro, etc. –

Si tratta di un rapporto di tipo commerciale, all’interno del quale però la natura giuridica privata e libero-professionale del rapporto s’inscrive in una pubblica declaratoria – il tariffario – che per ogni voce prevede uno spettro di remunerazioni e, in ogni caso, un rimando ad una procedura, anch’essa tipicamente commerciale: il consenso informato (Prior Informed Consent).

Normalmente all’interno del Prior Informed Consent che norma le psicoterapie si concorda subito fra le parti sia cosa s’intenda per “assenza per forza maggiore”, sia cosa s’intenda per assenza “non di forza maggiore”, sia infine come le parti debbano comportarsi di fronte alle une e alle altre. Lo stesso “giudice” di Forum allude alla presenza, nel Prior Informed Consent sancito fra la psicoterapeuta ed il suo paziente, di assenze per forza maggiore, che evidentemente anche nel rapporto fra la  “nostra” psicoterapeuta Silvia ed il suo paziente Salvatore risultano normate, esattamente come le assenze “non di forza maggiore”!

Come dicevamo sopra, però, non risulta chiaro dal filmato quale sia il vincolo che la psicoterapeuta ha nei confronti dello studio in cui opera.

Infatti in ambito libero-professionale si può operare singolarmente o all’interno di cooperative, associazioni, etc.; nel secondo caso – che mi pare corrispondere alla situazione esaminata da Forum – la posizione degli specialisti coinvolti può essere di vario tipo: essi possono essere soci dell’organizzazione oppure subordinati a vario titolo. Se, ad esempio, la posizione di Silvia all’interno dello studio fosse vincolata, a sua volta, da una tariffa ad ore – ad esempio per l’affitto dell’ambulatorio – è chiaro che questo costo orario influirebbe notevolmente sulla considerazione che la psicoterapeuta ha delle assenze.

– E veniamo allo psicoterapeuta che opera nel pubblico: egli ha di fronte a sé un paziente che sarebbe più corretto chiamare “utente”, che ci riporta alla parola “servizio”: utente infatti è etimologicamente “colui che si serve di”.

Originariamente le prestazioni dello specialista del pubblico venivano interamente remunerate dall’ente presso il quale egli lavorava; e tale ente poteva fare ciò poiché riceveva dallo Stato delle risorse, provenienti dall’erario, in misura sufficiente a coprire il pagamento di tutti gli specialisti che operavano al proprio interno.

Si trattava di una remunerazione, chiamata “stipendio” (“contribuzione in denaro”, “termine originariamente usato in ambito militare”) che solo indirettamente, attraverso le tasse, proveniva dall’utente e che veniva sancita, professione per professione, generalmente in base all’anzianità, a partire da un contratto negoziato fra le parti (datore di lavoro e rappresentanti dei lavoratori).

Ciò nel caso degli psicoterapeuti rendeva del tutto specifico il contratto che legava fin dall’inizio lo specialista pubblico al proprio utente, ed ovviamente al suo interno non era prevista alcuna remunerazione delle assenze, anche se ciò non significa che questo argomento non fosse affrontato al fine di concordare le modalità di preavviso delle assenze, così come ogni altro elemento del setting, in una sorta di Prior Informed Consent, che però non s’inquadrava all’interno di una logica commerciale.

– A partire dalla seconda repubblica e dalla crisi del vecchio welfare universalistico e gratuito il rapporto fra psicoterapeuta che opera nel pubblico e utente è cambiato e si è andato definendo all’interno delle “aziende” sanitarie in base ad un nuova forma contrattuale, frutto di una ibridazione fra pubblico e privato.

Infatti a partire dalla tikettazione delle prestazioni, e soprattutto dalla nascita del lavoro intra-moenia che ha permesso l’accesso alla psicoterapia tramite CUP, si è andato definendo nell’ultimo quindicennio un rapporto che pone sia lo psicoterapeuta sia il suo paziente a metà strada fra pubblico e privato. All’interno di questa nuova modalità di rapporto, da quel che mi consta, alcuni specialisti tendono a comportarsi come se fossero nel privato, altri a mantenersi più vicini agli stili di comportamento del pubblico.

Anche in questo caso, però, a mio avviso non si riflette mai a sufficienza sul fatto che anche nel pubblico, a monte del rapporto specialista – paziente, sia nel rapporto psicoterapeutico gratuito delle origini, sia in quello tikettato ed ibridato odierno, c’è sempre un contratto fra specialista ed ente presso il quale egli lavora che comprende il contratto di lavoro, ma non coincide con esso, e che consiste piuttosto nella fissazione di ciò che una volta venivano chiamati  “programmi”, “linee guida”, e che oggi aziendalisticamente sono denominati: “vision”, “mission”, etc. –

Si tratta di un corpus mobilissimo di regole, che si fanno e si disfano: – in base al potere negoziale che gli psicoterapeuti psicologi hanno, in un rapporto concorrenziale – complementare, con gli psichiatri, ed insieme ad essi con l’ente presso il quale lavorano; – ma anche in base al rapporto fra enti locali e stato.

Inutile dire che tutto ciò ha effetti di ricaduta, a volte molto pesanti, sul rapporto con l’utente; e sicuramente ha inciso fin dalla nascita degli ambulatori pubblici di psicoterapia sui setting che sono stati messi in piedi nel pubblico: basti pensare al fatto che la maggior parte dei colleghi che operano nel pubblico imprimono alle loro terapie un ritmo di un incontro alla settimana per rendersene conto.

Ma ciò ovviamente influisce in maniera altrettanto pesante sulle assenze dovute sia ai pazienti che agli psicoterapeuti. Sulle assenze e su tutto il resto: basti pensare alla “rilevanza” che il silenzio del terapeuta ha all’interno una seduta settimanale di 50 minuti, a confronto della rilevanza che esso ha, o aveva, all’interno di una terapia che viaggia, o viaggiava, con una cadenza di tre o quattro incontri settimanali.

Anche nel pubblico, infine, stanno nascendo profili nuovi di psicoterapeuti precari, che lavorano in convenzione, e che pattuiscono con l’ente contratti individuali e di gruppo. Gruppi peraltro all’interno dei quali, come avviene per il privato, questi colleghi possono essere “soci” o dipendenti. Nel secondo caso si tratta solitamente di colleghi che hanno con l’organizzazione che li recluta uno scarsissimo potere negoziale. Non so con precisione né come sono normate le assenze in questi casi, né il significato che esse assumono nel rapporto psicoterapeuta – paziente, che poi a mio avviso è l’aspetto più importante del problema.

– Ciò che mi preme sottolineare in chiusura è che il nostro ordine professionale, nel momento in cui fissa e “si fissa” sul tariffario e quindi su di un tipo di attività libero-professionale dotata di alto potere negoziale, implicitamente è come se facesse una scelta di campo; scelta che esclude, marginalizza o, peggio, riconduce a sé ogni altra forma di rapporto, ogni altro tipo di setting.

Di fronte alla stragrande maggioranza dei settantaduemila  iscritti che si arrabattano per trovare un lavoro qualsiasi e che sono vessati da assurde regole di tipo protezionistico e corporativo questa riduzione di tutto e di tutti alla logica del tariffario va solidificando una situazione “come se” fuorviante, che perpetua una auto-rappresentazione falsa all’interno della categoria. Falsa perché nella stragrande maggioranza dei casi le regole dei setting non sono (più) quelle in cui un’assenza da parte del paziente possa essere trattata come traspare dal caso di Forum.

Questa, nella condizione presente, mi pare la vera assenza ingiustificata.

 

Riferimenti bibliografici

1 Cfr: Corlellazzo M., Zolli P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1999, dal quale abbiamo desunto anche ogni altro riferimento di tipo etimologico.

2 Cfr: Flournoy O, L’atto di passaggio. Sul modo di terminare l’analisi, R. Cortina Editore, Milano, 1992.